CHE COSA POSSIAMO IMPARARE DAL GIAPPONE

Edoardo Gagliardi

Sarebbe un errore pensare che solo l’Occidente sia in pericolo estinzione per quanto concerne la propria identità etnica, razziale e culturale. Anche l’Asia è finita sotto il mirino degli immigrazionisti che, seppur in misura minore rispetto all’Occidente, non mancano mai di sottolineare come ad esempio il Giappone abbia bisogno di una bella iniezione di immigrati, perché “la popolazione giapponese invecchia”. Non si fermeranno fino a quando non avranno portato a compimento il loro progetto, quello cioè di multiculturalizzare anche il Paese nipponico.

In questo articolo si tenterà di fare due cose: 1) mostrare al lettore che le preoccupazioni degli immigrazionisti sono infondate e 2) che noi Occidentali potremmo imparare davvero molto dalla storia del Giappone e di come esso si sia comportato nei riguardi dell’immigrazione e influenze straniere.

La popolazione totale del Giappone è stimata intorno ai 126 milioni (previsione aprile 2020)1, per una superficie di 377.975 km², nello specifico 343 ab./km². Considerando questi numeri non si può certo dire che la popolazione del Giappone sia poca, anzi, forse potrebbe apparire anche troppa vista la densità abitativa. Ora, se anche il Paese dovesse perdere qualche milione di abitanti, questo non comporterebbe nessun problema e non significherebbe nemmeno che vi sia la necessità di importare milioni di allogeni.

Ma guardiamo alla storia del Giappone, anche per comprendere come si possa imparare da questo Paese a gestire l’immigrazione. Gli storici occidentali imbevuti di marxismo culturale ignorano (volutamente) che il Giappone ha vissuto un periodo lungo oltre 250 anni, conosciuto con il nome di periodo Edo (1603-1868). Gli storici che non lo ignorano, liquidano questo periodo come uno dei momenti più bassi della civiltà giapponese, un periodo di “chiusura” al mondo esterno. Ebbene, se di chiusura si può parlare, bisogna dirlo forte: mai periodo fu più fecondo e prezioso per un popolo come quello Edo in Giappone.

In questo periodo non solo vi fu una fioritura culturale mai vista prima, ma si contribuì alla costruzione dell’identità nazionale. Il Giappone del periodo Edo chiuse le porte a tutte quelle forze politiche, economiche, culturali che volevano penetrare nel Paese per colonizzarlo, svuotarlo dall’interno. Se non si fosse avuto il periodo Edo, noi oggi probabilmente conosceremmo un Giappone diverso, nell’anima e nello spirito. Per usare un linguaggio occidentale si potrebbe dire che il Giappone ha adottato un saggo isolazionismo e protezionismo, non solo economico e politico, ma anche – e soprattutto – etnico-razziale. Questo non vuol dire affatto che gli stranieri non erano ammessi in Giappone, lo erano nella misura in cui il Giappone decideva che lo potevano essere. In altre parole, l’ingresso nel Paese era fortemente regolato e ristretto, ed era vietata qualsiasi libertà di movimento al suo interno.

Il popolo per formarsi ha bisogno di tempo e, nella sua fase di crescita ha bisogno di costruire un’identità che poi sarà alla base della formazione di una comunità, sia essa statale o nazionale. Il periodo Edo corrisponde ad un’età in cui il Giappone si andava formando come popolo e come identità nazionale, ed è per questo che i giapponesi intelligentemente compresero come la necessità di isolarsi fosse il prerequisito fondamentale. Il popolo al posto dell’economia; la costruzione dell’identità etnico-razziale al posto dell’estinzione multiculturale.

Il termine giapponese per indicare la chiusura al mondo esterno e la politica intrapresa nel periodo Edo è Sakoku (Paese chiuso). Come già detto, le influenze esterne, politiche, religiose ed economiche vennero quasi completamente annullate. Il Sakoku ci dimostra una grande verità: per preservare un popolo e costruire l’identità di una nazione l’isolamento è una fase necessaria, soprattutto quando il Paese è ancora in una fase embrionale, di costruzione della propria identità politica, culturale e spirituale. Nel mondo contemporaneo l’educazione e la propaganda inculcano l’esatto opposto: l’apertura e il mescolamento sono la via principale per lo sviluppo di un popolo e di una nazione. I fatti parlano più forte della propaganda: il giappone è rimasto giapponese, il mondo occidentale sta scomparendo, come popoli, come culture, come identità storica e politica. Per quanto tempo ancora vogliamo ignorare la realtà? E soprattutto, non sarebbe il caso, come europei, di guardare a modelli costruttivi di società anziché a modelli distruttivi?

Una delle più grandi operazioni culturali del periodo fu il Kokugaku, ovvero lo “studio nazionale”. Ci si accorse che vi era tutto un patrimonio di letteratura antica, leggende, miti, folklore, da riscoprire. Grazie ad esso si poteva costruire la nazione e l’identità di popolo. Questo movimento di riscoperta partiva da un presupposto basilare: ristabilire la purezza giapponese, il vero spirito del Giappone, non intaccato da influenze straniere.

In questo modo la cultura giapponese avrebbe acquistato una sua centralità nella costruzione dell’identità etnico-razziale. Infatti giapponese non è semplicemente colui che conosce la lingua, i costumi e che vive in Giappone, ma è colui che ha un legame di sangue con il resto della comunità, in maniera orizzontale e verticale: il vertice sta negli antichi, nella sorgente sacra da dove tutto nasce e scorre. Preservare la purezza significa conservare il legame con l’antichità. Si capisce allora il perché dell’isolazionismo giapponese.

Non ci si faccia ingannare, la fine del periodo Edo, non significa che il Giappone si apra completamente al mondo. Qui entra in gioco un altro modo di fare che l’Occidente dovrebbe imparare: il Giappone apprendeva dal mondo, ma rielaborava a modo suo, filtrando gli insegnamenti e le influenze del mondo attraverso il proprio sistema di valori e la propria visione del mondo. Questa peculiarità ha permesso al Giappone, pur distrutto dal II conflitto mondiale, di diventare una potenza mondiale.

Nel XX secolo il Giappone è divenuto una potenza militare e politica prima e poi, risorto dalle ceneri della guerra, ha saputo riconquistare un posto nel mondo delle potenze che contano. Ed è per questo che il visitatore occidentale si trova a volte spiazzato nel vedere come in terra nipponica si trovino le più moderne tecnologie accanto a tradizioni spirituali e di popoli antichissimi, ancora fortemente sentite dalle persone. Ma se questo è possibile, se l’economia, il consumismo (che pure esiste), l’immigrazionismo, non hanno (ancora) distrutto il Giappone, lo si deve anche – e forse soprattutto – al fatto che il Paese ha saputo mantenere per secoli l’omogeneità etnica e razziale. Mantenendo ferma quella, i sistemi politici ed economici sono potuti anche mutare, ma ciò non ha estinto il popolo.

Lo sanno bene gli immigrazionisti, che infatti battono sulla teoria dell’invecchiamento della popolazione per far digerire ai giapponesi milioni di immigrati sul proprio territorio. Che la saggezza della loro storia non li abbandoni ai tentacoli di questo pensiero velenoso!

In Occidente poi si tace colpevolmente sul fatto che, appunto, il Giappone ha saputo creare dal nulla una potenza economica senza importare un migrante di troppo (quelli che ci sono sono per la maggior parte coreani e cinesi). Ci viene detto che un Paese non può crescere senza l’apporto dei migranti, niente di più falso. Non solo il Giappone è cresciuto, ma è anche sopravvissuto. Avesse scelto un’altra strada oggi avremmo un Brasile al posto del Giappone.

Gli occidentali, in particolare un certo tipo di europei e statunitensi, dovrebbero anche comprendere che per un giapponese il termine etnia e razza non creano un senso di repulsione. Al contrario questi termini sono associati alla comunità. Quando si elogia il rigore, il rispetto per le regole, l’ordine della società giapponese, si ignora il fatto che questi elementi sono esattamente il frutto di una comunità compatta e coesa, che l’omogeneità etnico-razziale contribuisce a formare. Laddove manca questa omogeneità le energia di un popolo si perdono per affrontare i continui scontri con altre comunità, nella speranza di un’integrazione/assimilazione che non avverrà mai.

Sentirsi parte di un’identità etnico-razziale determinata è una caratteristica che va al di là delle formazioni politiche e delle scelte spirituali, è qualcosa di prepolitico e prespirituale.

Oggi, nel XXI secolo, il Giappone sta dimostrando ancora una volta la propria volontà di preservare l’identità del suo popolo. Basti soltanto raccontare di come in Giappone si stanno introducendo dei robot per accudire le persone anziane. Non quindi colf e badanti a migliaia, ma robot che sono prodotti in Giappone, progettati e assemblati da giapponesi. Invece di importare immigrati, si punta sulla tecnologia che offre lavoro ai locali. Esattamente l’opposto delle politiche che si mettono in atto in Europa. Il tasso di disoccupazione in Giappone è al 2,5%2, nell’area Euro è del 7,4%3, inondata da immigranti spesso non qualificati provenienti dall’Africa e dal Medioriente. Di qui la questione, davvero al Giappone servono altri milioni di abitanti? Innanzitutto se si volesse, basterebbe applicare serie politiche per stimolare la natalità, ma al netto di tutto questo, la domanda è: a che serve aumentare la popolazione se non è autoctona? Se ha perso completamente la propria identità etnica e razziale? Riteniamo non solo che non serva, ma sia anche controproducente. Non ci vuole molto per prendere un libro di storia, anche di quelli revisionisti, per rendersi conto che tutti gli esperimenti di società multiculturali (ovvero multietniche e multirazziali) hanno fallito. Laddove non hanno fallito mostrano profonde ferite dovute alle costanti tensioni tra le comunità costrette a vivere sullo stesso territorio.

Bisogna certamente essere sanamente realisti ed evidenziare due cose: 1) il Giappone non merita affatto apologie, non è un Paese senza problemi, tuttavia il fatto che abbia alcuni problemi non vuol dire che abbia i problemi che affliggono l’Europa. L’estinzione dei popoli europei è in atto, quella del popolo giapponese ancora no. Questo ci fa comprendere già come da quel popolo si può imparare molto. 2) I popoli sono composti da un aspetto biologico e uno culturale, uniti insieme a formare un’unità bioculturale che è alla base della differenziazione con altri popoli. Con questo si vuole dire che non si può semplicemente prendere un modello di popolo e calarlo dall’alto su un altro. Non funzionerebbe. Quello che si può fare però è iniziare a costruire un modello di società e di popolo basato su alti valori e questi valori possono venire anche da altre tradizioni, altre storie nazionali, per poi essere adattati e riapplicati. Si tratta di un processo che prende tempo, richiede sforzo ed energie, il tempo non è molto, ma l’obiettivo è la salvezza e il rilancio di quello che rimane dei popoli europei e della loro identità etnico-razziale.

1 https://www.stat.go.jp/english/data/jinsui/tsuki/index.html

2 https://www.stat.go.jp/english/data/roudou/results/month/index.html

3 https://www.statista.com/statistics/268830/unemployment-rate-in-eu-countries/

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