Flavia Corso

Lombroso e i suoi precursori avevano, in parte, ragione. Recenti ricerche scientifiche hanno infatti messo in evidenza la correlazione tra aspetto biologico dell’individuo e la sua psiche.
Nell’ambito della criminologia e delle scienze psicoforensi, si sottolinea in particolar modo l’importanza della neurobiologia e dell’epigenetica. Secondo queste nuove frontiere della scienza, il comportamento umano, tra cui anche quello violento, non sarebbe più determinato esclusivamente da condizioni sociali ed ambientali, ma anche da fattori genetici.
Nel suo libro L’anatomia della violenza1, Adrian Raine, criminologo e docente presso l’Università di Pennsylvania, dimostra come il comportamento antisociale sia multifattoriale: tra i vari aspetti che concorrono alla condotta criminosa, quelli biologici non sono irrilevanti. Utilizzando tecnologie di neuroimmagini e comparando il cervello di criminali e persone sane, Raine ha riscontrato funzionamenti differenti del sistema nervoso.
La biologia molecolare sta attualmente individuando i polimorfismi legati alla produzione di neurotrasmettitori e all’aggressività.
Il professor Pietro Pietrini, in un’intervista rilasciata a BrainFactor, precisa:
Abbiamo studiato cinque varianti alleliche di geni implicati nel metabolismo e meccanismo di azione dei principali neurotrasmettitori cerebrali, quali la noradrenalina, la dopamina e la serotonina. Per ciascuna di queste varianti esiste una notevole letteratura scientifica che mostra una relazione statisticamente significativa con un aumentato rischio di comportamento aggressivo e violento, in particolare negli individui che siano stati cresciuti in contesti sfavorevoli.2
A questo proposito, particolare rilevanza assume una variante dell’enzima monoamminoossidasi, L-MAOA, responsabile di un deficit di serotonina che predispone l’individuo ad essere aggressivo o a manifestare disturbi mentali di vario genere.
Ci troviamo dunque di fronte ad una forma di determinismo biologico?
In realtà, più che di una visione deterministica si tratta di una prospettiva probabilistica. Nella loro interazione con l’ambiente, i geni, pur non mutando, possono più o meno attivarsi a seconda del contesto ambientale. Per dirla in altri termini, l’ambiente può modificare l’espressione di tali geni, il fenotipo, mantenendo tuttavia invariato il genotipo, ed è proprio di questo aspetto che si occupa l’epigenetica, la nuova frontiera della biologia molecolare.
È interessante notare come esista un parallelismo tra i concetti a cui rimandano i termini biologici “genotipo” e “fenotipo” e le idee filosofiche di “noumeno” e “fenomeno”, presenti nel pensiero di Kant. Il filosofo tedesco, che sosteneva che la specie umana potesse essere suddivisa in razze, aveva infatti preceduto di vari secoli le recenti scoperte dell’epigenetica:
Alla divisione del genere umano in razze il nostro autore non è favorevole; […] egli assume come causa un principio di vita interno, che, secondo la diversità delle circostanze esterne, modifica se stesso, adattandovisi. Nel che il recensore conviene interamente con lui, solo con la riserva che, qualora la causa organizzatrice dall’interno per sua natura fosse limitata solo a un certo numero e grado di diversità nella formazione delle sue produzioni (nella cui effettuazione essa non sarebbe abbastanza libera per produrre in circostanze mutate un altro tipo), a questa disposizione formativa della natura si potrebbe benissimo dare il nome di germi o disposizioni originarie, senza per ciò considerare i primi come predisposti ab initio e solo assumendoli come meccanismi e germogli capaci eventualmente di trasformarsi (come nel sistema dell’evoluzione), ma anche come semplici limitazioni, non ulteriormente spiegabili, di un potere autoformativo che noi non possiamo né comprendere né rendere concepibile3.
Anche la psicoterapia transgenerazionale sembra attribuire una sempre maggiore importanza all’ereditarietà biologica, per la diagnosi e cura di problematiche psicologiche.
La terapista e analista Anne Ancelin Schützenberger, nel suo bellissimo libro La sindrome degli antenati4, reinterpreta in chiave moderna la teoria junghiana della sincronicità: esiste un inconscio collettivo che si trasmette di generazione in generazione che sembra guidare in parte il destino degli individui. Lo studio dell’albero genealogico dei suoi pazienti permette quindi alla Schützenberger di scoprire delle coincidenze significative, corrispondenze non spiegabili se non attraverso l’attenta valutazione di una qualche forma di ereditarietà.
1A. Raine, L’anatomia della violenza. Le radici biologiche del crimine, Mondadori Università, 2016.
2 P. Pietrini, intervista a cura di M. Mozzoni, in «BrainFactor. Cervello e neuroscienze», https://www.brainfactor.it/?p=1359
3I. Kant, Recensione di Johann Gottfried Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, in «Jenaische Allgemeine Literatur-Zeitung», vol. 4, n. 271, novembre 1785, cit. pp. 153-154.
4A. A. Schützenberger, La sindrome degli antenati. Psicoterapia transgenerazionale e i legami nascosti nell’albero genealogico, Renzo Editore, Roma 2004.