Flavia Corso

Il mito dell’uguaglianza, nato in epoche piuttosto recenti, è in realtà l’apoteosi del razzismo nella sua accezione strettamente gerarchica. L’uguaglianza come valore in sé è un’invenzione occidentale che viene imposta anche a chi occidentale non è, violando conseguentemente il principio di autodeterminazione dei popoli.
Le battaglie condotte dall’Occidente per portare la “civiltà” nei Paesi del Terzo mondo nascondono un complesso di superiorità eurocentrico camuffato da benevolenza e carità, laddove invece è chiaramente implicito il tentativo di rendere simili a “noi” popoli che hanno svolto un percorso evolutivo e culturale totalmente diverso dal nostro.
La stessa concezione dell’individuo come detentore di diritti inalienabili e universali è un prodotto della mentalità occidentale. In alcune culture, come quella dell’Asia orientale per fare un esempio, il concetto di “diritti umani” non esiste nemmeno, e la sua imposizione dall’esterno è fortemente criticata.
Il vero razzismo nasce pertanto dall’atteggiamento paternalistico di un Occidente che non accetta, in realtà, modelli culturali diversi dal proprio, che non vuole riconoscere l’Altro nella sua autenticità e peculiarità, ma vuole assimilarlo e renderlo conforme a sé. Attraverso l’imposizione di un monoculturalismo che omologa forzatamente popoli profondamente differenti tra loro, si smarrisce il valore morale, estetico e gnoseologico della diversità.
Il riconoscimento della validità del concetto di “razza” non implica necessariamente una visione gerarchica dell’umanità. Sarebbe infatti più corretto affermare che nel momento in cui si prende atto dell’esistenza di diverse razze umane, si riconosce altresì che queste non siano nemmeno paragonabili se non a prezzo di ricadere inevitabilmente nell’etnocentrismo occidentale, che nulla ha a che vedere con i veri principi identitari.
Chi nega la categoria “razza”, lo fa di solito argomentando nella maniera seguente: le razze non esistono poiché esse sconfinano le une nelle altre, non costituiscono un continuum fisso e non presentano confini netti. Se anche l’osservazione fosse veritiera, occorrerebbe tuttavia negare anche l’esistenza delle razze canine, perché recenti scoperte scientifiche hanno evidenziato come queste si sovrappongano fra loro proprio come nel caso degli esseri umani. L’argomentazione, inoltre, è fuori luogo perché considerato che tutto l’ambito del vivente non presenta quei contorni nitidi che si vorrebbero ricercare, l’unico modo per superare l’impasse sarebbe quello di rifiutare la categorizzazione e la sua funzione cognitiva. Tuttavia, dal momento che tutta la specie umana è formata prima di tutto da esseri pensanti, non vedo come questo sia possibile e desiderabile. Negare la categoria “razza”, insomma, è utile e producente quanto negare la categoria “specie”.
Oggi, al contrario di quanto molti pensano, sfidare il tabù della razza non è affatto un atto reazionario, ma rivoluzionario. Accettare la validità del concetto di razza significa d’altronde abbracciare e comprendere la natura umana in tutte le sue particolari manifestazioni, e coglierne la bellezza intrinseca.