Riccardo Tennenini e Francesco Boco
Autore: epistème - il sapere oltre il mainstream
LONDRA, DOVE IN ALCUNE AREE IL 50% DEI RESIDENTI È NATO ALL’ESTERO
Martin Robinson
Fonte: Daily Mail
Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Ecco le aree di Londra dove il 50% dei residenti è nato all’estero, mentre la popolazione della capitale raggiunge la cifra record di 8,6 milioni.
Questa mappa colorata della città di Londra mostra con chiarezza come vaste aree della Capitale siano ormai dominate da una serie di determinate nazionalità, in una città in cui un residente su tre è nato all’estero. La bandiera indiana sventola su dieci dei trentadue quartieri in cui la Capitale è divisa, mentre londinesi nati in Nigeria, Polonia, Turchia e Bangladesh sono già maggioranza in almeno tre aree urbane per gruppo. In alcuni quartieri – Westminster, Kensington, Chelsea e Brent, fra gli altri – più della metà della popolazione è nata fuori dai confini nazionali, stando alle cifre comunicate dall’Ufficio Statistiche del Sindaco.
Quest’anno, Londra ha raggiunto la quota record di 8,6 milioni di abitanti, con altri due milioni trasferitisi in città nel corso degli ultimi venti anni, la maggior parte dei quali dall’estero. Tali ragguardevoli cifre costituiscono un vero record dopo il precedente del 1939, precedente alle devastazioni occorse durante la Seconda Guerra Mondiale, ma a decorrere da allora, circa 2,2 milioni di londinesi hanno lasciato la città natale nel successivo mezzo secolo, per iniziare una nuova vita nelle contee vicine o in periferia.


Le statistiche mostrano inoltre come i quartieri centrali contino un tasso di popolazione immigrata assai più elevato rispetto alle zone più periferiche, con i nuovi arrivati inclini a stabilirsi in aree già densamente abitate da connazionali. Con il 53,3%, Brent e Haringey presentano la più alta percentuale di residenti forestieri, seguiti da Kensington, Chelsea e Westminster, oscillanti fra il 50,9% ed il 51,8%.
Fra il 1939 ed il 1991, Londra ha perduto un quarto della sua popolazione totale; oggi, circa 267.000 londinesi sono nati in India, 135.000 in Polonia, 113.000 in Pakistan, 126.000 in Bangladesh, 112.000 in Irlanda. Dei totali tre milioni di residenti non britannici, il 40% è europeo, il 30% asiatico o mediorientale, 20% africano, 10% americano o caraibico.
Illustrando le dinamiche di crescita della popolazione cittadina, il professor Michael Batty, dell’University College London, ha spiegato alla BBC: “In un periodo di trent’anni, il totale della popolazione è calato dagli originari 8 milioni a 6,6 circa, ciò a causa del fenomeno chiamato suburbanization – crescita delle periferie, aumento dell’acquisto di automobili, cambiamento dei trasporti e sgomberi dei bassifondi.” Quanto all’enorme crescita registrata nell’ultimo decennio, essa “va ricondotta essenzialmente alle migrazioni internazionali.”
Gli esperti ritengono che entro il 2031 il numero di forestieri residenti a Londra supererà quello dei britannici autoctoni, basandosi su quanto si può desumere dal censimento del 2011. La popolazione immigrata della Capitale ammonterà in quell’anno ad almeno 5 milioni, dopo essere più che raddoppiata fra il 1971 ed il 2011 – anno dell’ultimo censimento – salendo da 1 a 3 milioni. Il numero dei londinesi non britannici condurrà il totale della popolazione cittadina a raggiungere e superare i 10 milioni di abitanti nel 2031, e gli 11 dieci anni dopo.

Tuttavia, laddove gli stranieri continueranno ad aumentare esponenzialmente nei prossimi decenni, i britannici autoctoni seguiteranno senza posa a diminuire. Analizzando l’ultimo censimento, si scopre che oltre 600.000 londinesi bianchi e britannici hanno abbandonato la capitale nel corso di circa un decennio – precisamente 620.000, fra il 2001 ed il 2011. Sarebbe come se una città delle dimensioni di Glasgow, abitata interamente da autoctoni, si trasferisse lontano dalla Capitale, lasciando i bianchi in minoranza nella città più grande dell’intero Paese. Se, infatti, nel 2001 i britannici bianchi ammontavano a circa il 58% della popolazione di Londra, oggi sono scesi a comporre appena il 45% del totale.
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1700 ANNI FA, LA CATTIVA GESTIONE DI UNA CRISI MIGRATORIA COSTÒ A ROMA IL SUO IMPERO
Annalisa Merelli
Fonte: Quartz
Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Il 3 agosto dell’anno 387, ad Adrianopoli – città dell’allora Tracia, oggi parte della provincia turca di Edirne – si incrociarono le armi in una battaglia che Sant’Ambrogio ebbe a definire: “fine del mondo e dell’intera umanità”.
L’Imperatore Romano d’Oriente Flavio Giulio Valente Augusto – conosciuto più semplicemente come Valente, e soprannominato “Ultimus Romanorum” (l’ultimo vero Romano) – guidò le sue truppe contro i Goti – una popolazione germanica reputata “barbarica” dai Romani – ed il loro comandante Fritigerno. Valente, che aveva scelto di non attendere l’aiuto militare di suo nipote Graziano, Imperatore Romano d’Occidente, si risolse a scendere in campo alla testa di 40.000 soldati, contro i circa 100.000 di Fritigerno.
Fu un vero massacro: 30.000 soldati romani persero la vita, e l’aquila imperiale ne uscì clamorosamente sconfitta. Quella di Adrianopoli sarebbe stata la prima di molte altre disfatte, ed è considerata dagli storici il punto d’inizio del processo che portò nel 476 alla fine dell’Impero Romano d’Occidente. In quei giorni, i domini di Roma si estendevano su una superficie di circa 600 milioni di ettari – circa due terzi degli odierni Stati Uniti – contando una popolazione superiore al mezzo miliardo.
La sconfitta di Adrianopoli non fu causata dalla cocciuta brama di potere di Valente, o dalla sua grossolana sottovalutazione della forza belligerante del nemico. La disfatta probabilmente più rilevante dell’intera storia di Roma affonda le sue radici in qualcosa di ben diverso, ovvero una crisi migratoria.
Due anni prima, i Goti erano discesi in massa verso i territori romani in cerca di rifugio, e la cattiva gestione di un tale fenomeno diede inizio ad una catena di eventi che condussero al collasso di uno dei più grandi colossi politici e militari che l’umanità abbia mai conosciuto. Le similitudini con quando va accadendo oggi in Europa sono davvero inquietanti, e dovrebbero servire all’osservatore contemporaneo come monito assolutamente degno di attenzione.
Stando al resoconto dello storico Ammiano Marcellino, nel 376 i Goti furono costretti ad abbandonare i propri territori – localizzati nell’attuale Europa orientale – sotto la spinta degli Unni diretti a sud, Unni che lo stesso Marcellino non esitò a definire “una razza selvaggia senza pari”. “Gli Unni”, prosegue Marcellino, “si abbatterono dai picchi montuosi come turbini di vento scaturiti dai più remoti anfratti della Terra, procedendo a saccheggiare e distruggere tutto ciò che si parasse loro davanti nel cammino.”
Ciò risultò in un succedersi di terrificanti bagni di sangue, ed in un esodo di massa delle popolazioni gote, similmente a quanto oggi accade ai Siriani, ed a chiunque si trovi afflitto dalla piaga bellica. Queste optarono per stabilirsi in Tracia, giusto oltre il Danubio: la terra era in quei luoghi fertile, ed il fiume pareva costituire una valida difesa naturale dagli assalti unni.
Tuttavia, altri già governavano quelle latitudini – i Romani, sotto l’egida di Valente – e Fritigerno volle in un primo momento offrire a quest’ultimo la sua sottomissione, annunciando che lui e la sua gente “avrebbero vissuto in pace, rifornendo i ranghi romani di truppe ausiliarie se la necessità lo avesse richiesto.” Roma aveva senza dubbio molto da guadagnarci. Quelle terre, infatti, necessitavano di qualcuno che le coltivasse, ed una buona quantità di forze fresche non sarebbe stata certamente sgradita al potere imperiale. “Combinando la forza del suo popolo con questi nuovi innesti”, scrive Marcellino, “Valente ritenne di potersi costruire un esercito assolutamente invincibile.” Come segno di gratitudine all’Imperatore, Fritigerno si mostrò persino disposto a convertirsi al cristianesimo.
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Tutto ebbe inizio piuttosto pacificamente. I Romani si adoperarono in un’attività di ricerca e salvataggio assai simile alle operazioni analoghe condotte dai nostri contemporanei. Riporta Marcellino che “nessuno fu lasciato indietro, neppure i malati in fin di vita.” I Goti “attraversavano la corrente notte e giorno, senza sosta, imbarcandosi in grandi gruppi su chiatte, canoe e zattere di legno.” Marcellino osserva che “in tanti annegarono, dal momento che in molti, troppo numerosi per trovar posto sulle imbarcazioni, tentarono faticosamente di guadare il fiume a nuoto, finendo tuttavia per venir trascinati lontano dalla corrente.”
Si trattò di un flusso migratorio inaspettato e senza precedenti, che alcuni affermano aver riguardato addirittura 200.000 persone. Le autorità militari incaricate di occuparsi dei profughi provarono a stimarne il numero, ma si rivelò un’impresa del tutto infruttuosa.
Tradizionalmente, l’atteggiamento romano nei confronti dei “barbari”, per quanto dispotico si era sempre rivelato decisamente lungimirante. I gruppi di profughi venivano dislocati dove potevano essere più utili all’Impero, curandosi poco o niente dei loro desiderata; comunque, il processo solitamente sfociava in una assimilazione, che portava gli individui un tempo stranieri a farsi cittadini. Non era difficile incontrare discendenti di immigrati nei ranghi più elevati dell’esercito o della pubblica amministrazione. Lo schema che si riteneva poter mantenere l’Impero al sicuro dagli attacchi esterni era molto semplice: permettere a chi stava fuori di varcare i confini e diventare romano.
Tuttavia, questo meccanismo apparentemente fruttifero finì per incepparsi. Fra le autorità militari incaricate di provvedere vitto ed alloggio ai Goti – una versione antica dell’assistenza oggi offerta ai migranti al loro sbarco in Grecia o Italia – prese a dilagare la corruzione, ed in molti cercarono di trarre un illecito profitto dall’emergenza. I Goti, deprivati di ciò che era stato loro promesso, si trovarono costretti ad acquistare carne di cane dai Romani per sostentarsi. Marcellino non ha dubbi: “la proditoria avidità di costoro fu causa di infiniti disastri per Roma.”
Il rapporto di fiducia fra i Romani ed i Goti, soli e maltrattati, si era incrinato già svariate volte prima di Adrianopoli, e questi ultimi finirono per passare da un desiderio di integrazione ad un impeto distruttivo nei confronti di Roma. Meno di due anni dopo, Marcellino ebbe a scrivere: “con occhi rilucenti di rabbia, i barbari si diedero all’inseguimento dei nostri uomini.” Ad un simile scenario, la caduta dell’Impero ebbe a seguirne di lì a poco.
I migranti che tentano di entrare nell’Europa odierna non si trovano sul punto di sollevarsi in armi, e fortunatamente l’Europa d’oggi non è l’Impero Romano. Tuttavia gli accadimenti che riguardarono i Goti mostrano assai bene che le migrazioni sono state e sempre saranno parte integrante del nostro mondo. Vi sono due modi di rapportarsi ai rifugiati: promuovendo con essi dialogo ed inclusione, o facendoli sentire sgraditi e trascurati. La seconda via ha già condotto al disastro una volta, ed in un modo o nell’altro, non tarderà sicuramente a farsi causa di nuove disgrazie.
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L’INFORMATORE DI FACEBOOK FRANCES HAUGEN CONFERMA LE NOSTRE PEGGIORI PAURE
Jill Filipovic
FONTE: CNN

Promuovere i disordini alimentari. Facilitando, a quanto si dice, il traffico di droga e di esseri umani. Alimentando teorie di cospirazione e disinformazione così pericolose che la gente ha perso non solo la mente, ma la vita. Permettere ai gruppi estremisti di coordinarsi. Questi sono solo alcuni dei mali di cui Facebook è stato a lungo accusato da informatori, politici e critici.
Facebook nega molte di queste accuse o dice che i problemi sono più complessi di quello che sembrano. Ma martedì, Frances Haugen, un ex dipendente di Facebook che all’inizio di questa settimana ha rilasciato un’intervista esplosiva a 60 minuti, ha testimoniato davanti al Congresso che Facebook sta effettivamente danneggiando l’immagine fisica delle ragazze, dividendo la nazione e permettendo all’estremismo di prosperare – e peggio, che l’azienda lo sa, e sceglie di ignorare in gran parte il problema per proteggere i suoi profitti.
Le sue parole sono state schiaccianti. La domanda ora è se i politici americani si opporranno ad una delle aziende più potenti del mondo, o se continueranno a permettere a Facebook di rastrellare profitti a spese del pubblico – perché molti di loro beneficiano delle campagne di disinformazione che Facebook permette.
Haugen, un ex product manager di Facebook che ha lavorato su questioni di integrità civica, ha testimoniato che “i prodotti di Facebook danneggiano i bambini, alimentano la divisione, indeboliscono la nostra democrazia e molto altro”.
La ricerca interna di Facebook, ha detto, ha dimostrato quanto siano pericolosi i prodotti della società, eppure la società ha fatto poco per cambiare – timorosa, ha detto Haugen, di compromettere i propri profitti. Quella ricerca ha mostrato, per esempio, che Instagram, che è di proprietà di Facebook, è devastante per l’autostima delle ragazze:
“Peggioriamo i problemi di immagine fisica per una ragazza adolescente su tre”, ha detto una diapositiva aziendale, come riportato dal Wall Street Journal. In pubblico, però, il CEO di Facebook Mark Zuckerberg ha affermato che “La ricerca che abbiamo visto è che l’utilizzo di applicazioni sociali per connettersi con altre persone può avere benefici positivi per la salute mentale” – parole che ha pronunciato sotto giuramento in un’udienza del Congresso a marzo.

La stessa inchiesta del Journal ha mostrato che gli utenti di Facebook nei paesi in via di sviluppo – potenziali aree di crescita per l’azienda – stavano usando la piattaforma per tutti i tipi di attività illegali, compreso il traffico di droga e di esseri umani. Facebook, secondo il rapporto del Journal, era lento a rispondere anche quando sapeva cosa stava succedendo.
Haugen ha raccontato storie simili. Ha anche detto al Congresso che Facebook ha la capacità di regolare meglio il suo prodotto – per impedire più efficacemente che la piattaforma venga utilizzata per attività illegali, per identificare gli utenti minorenni e presentare i loro contenuti di conseguenza, e per prevenire la diffusione di pericolosa disinformazione.
L’algoritmo di Facebook, ha detto Haugen, organizza i contenuti in base all’impegno, il che può portare i post più infiammatori e scioccanti a ricevere un trattamento preferenziale e a spostarsi in cima al feed di una data persona. Essenzialmente, l’azienda prende decisioni su ciò che vuole che tu veda, e mantiene queste decisioni segrete al pubblico, secondo Haugen; cambiare l’algoritmo, ha detto, potrebbe avere un impatto sui guadagni dell’azienda.
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Questo è pericoloso – soprattutto perché la violenza può seguire il tipo di indignazione che l’algoritmo di Facebook sembra destinato a favorire. Il mondo ha già visto questo in diversi paesi. In Myanmar, l’azienda ha ammesso di non essere riuscita a impedire alla sua piattaforma di incitare alla “violenza offline” nel 2018. In Etiopia, i critici hanno accusato la società di social media di aver permesso la diffusione di disinformazione durante le proteste nel paese nel 2019. E negli Stati Uniti, molti degli insorti che hanno lanciato un attacco al Campidoglio il 6 gennaio si sono organizzati tramite Facebook.
L’azienda nega di aver commesso errori nei disordini del Campidoglio: “La responsabilità per la violenza del 6 gennaio è delle persone che hanno inflitto la violenza e di coloro che li hanno incoraggiati, compreso il presidente Trump”, ha detto il vice presidente di Facebook per gli affari globali Nick Clegg a Brian Stelter della CNN domenica.
Coerentemente, Haugen ha detto, Facebook ha messo “i profitti prima delle persone”.
Facebook, da parte sua, ha cercato di minare la credibilità di Haugen, dicendo in una dichiarazione che “Oggi, una sottocommissione del Senato sul commercio ha tenuto un’udienza con un ex product manager di Facebook che ha lavorato per l’azienda per meno di due anni, non ha avuto rapporti diretti, non ha mai partecipato a un incontro decisionale con dirigenti di livello C – e ha testimoniato più di sei volte di non aver lavorato sulla materia in questione. Non siamo d’accordo con la sua caratterizzazione delle molte questioni su cui ha testimoniato. Nonostante tutto questo, siamo d’accordo su una cosa; è tempo di iniziare a creare regole standard per internet. Sono passati 25 anni da quando le regole per internet sono state aggiornate, e invece di aspettarsi che l’industria prenda decisioni sociali che appartengono ai legislatori, è tempo che il Congresso agisca”.
Facebook è lungi dall’essere l’unica fonte di disinformazione nel mondo – i media conservatori, e anche i membri del Partito Repubblicano negli Stati Uniti, hanno certamente parte della colpa. All’udienza di Haugen, la senatrice repubblicana del Tennessee Marsha Blackburn ha affermato, senza prove, che 1,5 miliardi di utenti di Facebook hanno avuto i loro dati violati e venduti online.
La rappresentante del GOP della Georgia Marjorie Taylor Greene detiene ancora un seggio al Congresso, nonostante sia una fonte di cospirazionismo, dal credere che l’11 settembre sia stato un lavoro interno al diffondere oltraggiose teorie del complotto sul massacro dei bambini della scuola elementare di Sandy Hook e sugli incendi della California. E Trump è forse il Chief Misinformation Officer della nazione – molto di ciò che i critici preoccupati stanno chiedendo a Facebook di regolare sono teorie di cospirazione e bugie che provengono dai fan dell’ex presidente, così come l’uomo stesso.
Questo rende questo momento una sfida. La testimonianza di Haugen sui pericoli di Facebook, e il suo rifiuto di regolarsi adeguatamente, dovrebbe essere un appello al Congresso ad agire. Ma cosa farà il Congresso dato che il partito repubblicano e la sua base sono andati così fuori dai binari che la verità e la realtà, per prendere in prestito le parole del comico Stephen Colbert, ora hanno un ben noto pregiudizio liberale?
La buona notizia è che sia i repubblicani che i democratici sembrano almeno allineati sulla stretta questione del benessere dei bambini, e dicono di voler prendere provvedimenti per proteggere i minori che usano i social media – anche se non è ancora chiaro quali saranno questi provvedimenti. Ma questo è solo un pezzo di un vasto problema. E mentre le campagne di disinformazione avvengono sia a destra che a sinistra, il problema non è uguale da entrambe le parti – un numero scioccante di politici repubblicani sono fornitori regolari di bugie pericolose, e molti di loro beneficiano e permettono ai loro elettori il crescente estremismo e il divorzio dalla realtà.
C’è bisogno di molta più sorveglianza sul modo in cui aziende irresponsabili e segrete come Facebook operano e modellano invisibilmente tutte le nostre vite. Ma mentre i politici americani stanno giustamente cercando di capire come tenere a freno i potenti giganti della tecnologia, dovrebbero anche guardarsi intorno nelle sale del potere che occupano e rendersi conto che le bugie e la disinformazione che stanno distruggendo il paese non vengono solo dalla Silicon Valley – vengono anche dall’interno della Camera.
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DALL’UOMO DIFFERENZIATO DI JULIUS EVOLA AL SOGGETTO RADICALE DI ALEXANDR DUGIN.
Riccardo Tennenini e Lorenzo Maria Pacini
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SAVILE TOWN È QUESTO IL FUTURO DELLE PICCOLE CITTÀ EUROPEE?
Sue Reid
FONTE: Daily Mail

Dalla finestra del suo appartamento che si affaccia sul canale in un sobborgo di Dewsbury nello Yorkshire, una donna bionda guarda due figure femminili che passano mentre chiacchierano in una lingua straniera.
Entrambe le passanti sono coperte da abiti islamici neri, solo uno scorcio dei loro occhi si intravede dall’apertura di due centimetri nei veli che coprono i loro volti.
Loro, come molte donne musulmane che vivono qui, parlano poco o niente inglese. Molte di loro non avranno alcun contatto con persone di un’altra religione o cultura. Molte, immagino, sono state portate nel Regno Unito per sposare gli uomini britannici di origine sud asiatica che hanno fatto di questa zona la loro casa.
Le mogli hanno vite limitate: crescono i bambini, cucinano per le famiglie, o vanno agli eventi per sole donne nell’enorme moschea locale gestita dai Deobandi, una potente setta dell’Islam i cui predicatori più espliciti hanno esortato i seguaci a non mescolarsi con cristiani, ebrei o indù.
Siamo a Savile Town, una delle parti più razzialmente omogenee della Gran Bretagna: non perché tutti sono uomini o donne indigeni dello Yorkshire, ma esattamente il contrario.
Infatti non ci sono quasi residenti bianchi a Savile Town. Sorprendentemente, una ripartizione dettagliata dell’ultimo censimento del 2011 ha registrato che solo 48 delle 4.033 persone che vivono qui erano bianchi britannici.
Questo non sorprenderebbe la bionda Lorraine Matthews, che guarda le signore in burka dalla sua finestra. Lei è una receptionist dentista di 53 anni, una delle poche inglesi bianche rimaste nel reticolo di strade a terrazza di Savile Town. Quasi tutti gli altri residenti, secondo il censimento, hanno origini pakistane o indiane.
I loro antenati furono attirati a Savile Town come manodopera a basso costo per i lavori massacranti nelle fabbriche di lana che avevano reso Dewsbury una rinomata città tessile.
Questi laboriosi nuovi arrivati comprarono le loro case e aprirono negozi all’angolo che vendevano burka, tappetini per la preghiera e profumi che non contenevano alcol, in linea con le restrizioni del Corano.
Presto i nuovi arrivati hanno costruito la moschea che è progettata per ospitare 4.000 fedeli. Oggi, un tribunale della Sharia nelle vicinanze – criticato in un rapporto della Camera dei Lord per la discriminazione contro le donne nel divorzio e nelle controversie matrimoniali – fa ottimi affari sposando il rigido codice di giustizia islamica.
Anche la signora che vende gelati da un furgone durante l’estate indossa un burqa, e il macellaio che gira per le strade offre solo capra, agnello e struzzo halal.
State a Savile Town, come ho fatto io, e vedrete decine di ragazzi in abiti islamici che vanno e vengono dalle lezioni alla scuola madrasa della moschea, dove per ore e ore imparano a memoria il Corano.
E, in modo angosciante, ogni ragazza che ho visto – anche quelle di sei e sette anni che giocavano nel parco – era avvolta in un hijab da una spalla all’altra dell’abito per evitare che un uomo intraveda la sua carne.
Savile Town fu lasciata diventare un’enclave etnica. E sembra che questo distacco dalla società principale abbia avuto ripercussioni inquietanti. Perché questa piccola area ha prodotto diversi giovani jihadisti che sono scomparsi per combattere – e morire come attentatori suicidi – per lo Stato Islamico in Medio Oriente.
(Mohammed Sidique Khan, il leader degli attentatori che attaccarono Londra il 7 luglio 2005, era cresciuto nelle vicinanze. Ha dato l’addio alla moglie incinta nella loro casa a schiera prima di guidare i suoi compagni di attacco nella capitale per reclamare 52 vite innocenti in esplosioni su treni della metropolitana e autobus).
La vita a Savile Town è stata indagata all’inizio di quest’anno da Owen Bennett-Jones, l’ex corrispondente della BBC in Pakistan, che ha fatto luce sull’influenza del movimento Deobandi sulla popolazione musulmana qui.
Intervistato per il programma di Radio 4 era Mufti Mohammed Pandor, un funzionario civile e portavoce dei Deobandi. È arrivato dal Gujarat, in India, nel 1964, da bambino, con la sua famiglia.
Vive vicino a Savile Town, e si definirebbe un musulmano britannico. Eppure si è rifiutato di lasciare che l’intervistatore Bennett-Jones vedesse sua moglie quando il reporter ha visitato la casa della coppia, anche se le è stato permesso di fare il thè in cucina.
Pandor insiste che lei è completamente coperta quasi sempre, permettendole solo di sollevare il velo per i controlli dei passaporti negli aeroporti. La sua famiglia guarda raramente la televisione britannica e dice che tutta la musica non è islamica.
Nonostante sia consigliere religioso di due università – Bradford e Huddersfield – ha detto alla BBC che agli uomini musulmani dovrebbe essere permesso di entrare negli istituti di istruzione superiore solo per studiare e pregare, e “non per guardare le donne”.
“Se Maometto non l’ha fatto, noi non lo facciamo”, ha detto Pandor alla BBC, dicendo che i Deobandi sono un movimento “back to basics” i cui seguaci vivono nello stile di vita del Profeta, di 14 secoli fa.
Si potrebbe liquidare un pensiero così disperatamente arretrato come appannaggio di una piccola setta stravagante, ma i Deobandi gestiscono quasi la metà delle 1.600 moschee registrate nel Regno Unito, e formano l’80% di tutti i chierici islamici nazionali che, a loro volta, giocano un ruolo enorme nell’influenzare la crescente popolazione di musulmani britannici.
Forse non è una sorpresa che i pochi indigeni dello Yorkshire rimasti a Savile Town si sentano in qualche modo assediati.
Lorraine Matthews, nella casa vicino al canale, è schietta nei suoi commenti sulla comunità in cui ora vive: “Non uscirei di notte da sola perché è pericoloso se non sei della comunità musulmana. Non è ragionevole per una donna camminare lì dopo il tramonto. I ragazzi asiatici si radunano agli angoli, ti fanno sentire intimidita perché non rispettano le donne bianche”.
Quando io stessa ho camminato lungo South Street verso la moschea, figure in burka hanno sbirciato fuori dalle loro finestre con le tende di pizzo con sorpresa nel vedere il volto di una donna scoperta.
Ho chiesto a un adolescente alto, che indossava un berretto islamico e abiti bianchi sui jeans, indicazioni per l’ingresso della moschea. La sua risposta è stata sputarmi addosso e gridare: “Vattene, non dovresti essere qui. Non tornare”.
È deprimente trovarsi di fronte a una tale aggressione. E non ho dubbi che anche molti musulmani si sentiranno angosciati da un tale comportamento. Non tutti i seguaci britannici dell’Islam desiderano vivere in aree dove persone di altre fedi o culture potrebbero temere di camminare.
Eppure, in luoghi come Savile Town, i presagi non sono buoni.
Per quanto poco piacevole possa essere per i liberali britannici, il fatto è che molti musulmani qui vogliono vivere solo con quelli della loro stessa cultura.
Infatti, alcuni dei pochi residenti non musulmani rimasti dicono di essere regolarmente presi di mira dai membri della comunità islamica locale che vogliono comprare le loro case.
Alcuni persino bussano alla porta in abiti religiosi che offrono mazzette di denaro in sacchetti di plastica per acquistare le loro case.
Jean Wood, 76 anni, nata nello Yorkshire e frequentatrice della chiesa, è una residente di lunga data che si sente tagliata fuori. I suoi figli la pregano di trasferirsi in una zona dove possa condividere la sua pensione con il tipo di persone con cui è cresciuta.
Nella sua casa ordinata ai margini di Savile Town, mi ha raccontato cosa è successo il giorno dopo che suo marito è morto improvvisamente mentre era seduto al tavolo della cucina.
“Non se n’era andato neanche da 24 ore quando una vicina musulmana spinse un biglietto attraverso la porta dicendo che voleva comprare questa casa”, ricorda. “Avevamo vissuto qui tutta la nostra vita da sposati”. Ero addolorata, anche se il biglietto non menzionava la mia perdita.
“Ma ho raccolto le mie forze. Ho telefonato al numero sul pezzo di carta e ho detto che la mia casa non era in vendita e che non lo sarebbe mai stata durante la mia vita”.
Erano parole coraggiose, ma – inevitabilmente – il portavoce dei Deobandi, Mufti Pandor, la vede diversamente.
Ha descritto, su Radio 4, come la ‘white flight’ sia avvenuta quando la sua famiglia è arrivata a Savile Town. “Chi avrebbe comprato la casa accanto alla nostra?” ha detto Pandor. “Certamente non sarebbe stato un bianco… così mio zio la comprò. Allora eravamo in due. Allora indovina cosa è successo? Il tizio di fronte ha detto: ‘Fanculo, me ne vado’ – e se n’è andato”.
Non è difficile capire perché, con i sospetti che corrono in profondità su entrambi i lati della divisione culturale, Savile Town sta, nel bene e nel male, cambiando per sempre.
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TRUE DETECTIVE: TRA ESOTERISMO E PESSIMISMO COSMICO.
Riccardo Tennenini e Marco Maculotti
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L’INFLUENZA DELLE CAUSE MORALI E IL SUO LIMITE
David Hume
Fonte: Saggi morali, politici e letterari, I, XXI, in Saggi e Trattati morali letterari politici e economici, pp. 391-95, 399-400)

Per quanto riguarda le cause fisiche, sono propenso a dubitare del tutto che esse operino in questo caso particolare, né ritengo che gli uomini debbano qualcosa del loro temperamento e del loro talento all’aria, al nutrimento o al clima. Riconosco che, a prima vista, l’opinione contraria può giustamente apparire probabile, giacché troviamo che le circostanze fisiche esercitano un’influenza su ogni altro animale e che anche gli esseri viventi adatti a vivere in tutti i climi – come cani, cavalli ecc. – non raggiungono in tutti i climi la stessa perfezione. Il coraggio dei bulldogs e dei galli da combattimento sembra peculiare all’Inghilterra, mentre la Fiandra è famosa per i suoi cavalli grandi e pesanti e la Spagna per i suoi cavalli leggeri e di grande foga.
E una razza qualsiasi di questi animali, trasferita da un paese a un altro, perderà ben presto le qualità che derivano appunto dal clima in cui è nata. E allora si può domandare: perché non sarà altrettanto anche per gli uomini? Vi sono poche questioni più singolari di questa o che si incontrino più spesso nelle ricerche riguardanti il mondo dell’uomo; e perciò può valere la pena di farne un esame approfondito. La mente umana è di natura spiccatamente imitativa; e non è possibile per un gruppo qualsiasi di uomini conversare spesso tra loro senza acquisire una somiglianza di modi e senza che si trasmettano l’un l’altro vizi e virtù. L’inclinazione a stare in compagnia e in società è forte in tutti gli esseri razionali, e la stessa disposizione che ci conferisce quest’inclinazione ci fa entrare profondamente gli uni nei sentimenti degli altri e fa sì che passioni e inclinazioni del genere si propaghino, come per contagio, a tutti coloro che fanno parte del gruppo.
Quando numerosi uomini sono uniti in un corpo politico, le occasioni di relazione tra loro debbono essere così frequenti, sia per la difesa sia per il commercio e per il governo, che, insieme con la stessa parlata o lingua, essi devono acquisire una certa somiglianza nei loro modi abituali di comportarsi e avere un carattere comune o nazionale, così come hanno un carattere personale, peculiare a ciascun individuo. Ora, sebbene la natura produca in grande abbondanza tutti i generi di temperamento e di intelligenza, non ne deriva che essa li produca sempre nella stessa proporzione e che in ogni società gli ingredienti dell’industriosità e dell’indolenza, del coraggio e della viltà, dell’umanità e della brutalità, della saggezza e della stoltezza siano mescolati nello stesso modo. Nell’infanzia della società, se una di queste disposizioni si troverà in maggiore abbondanza delle altre, prevarrà naturalmente nella composizione e darà una coloritura al carattere nazionale.
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O bisognerebbe sostenere che non si può ragionevolmente presumere che una specie di temperamento abbia la prevalenza, nemmeno in queste società ristrette, e che pertanto la mescolanza di caratteri conserverà sempre le stesse proporzioni; tuttavia è certo che non si può sempre presumere che le persone di credito e di autorità, che formano un corpo ancora più ristretto, siano dello stesso carattere; e la loro influenza sul modo di comportarsi del popolo deve, in ogni tempo, essere molto considerevole. […] Qualunque sia l’elemento che forma i modi abituali di vivere di una generazione, la più vicina a quella deve assorbire una sfumatura più intensa dello stesso colore, poiché gli uomini sono più suscettibili di tutte le impressioni durante l’infanzia e ritengono queste impressioni per tutto il tempo in cui stanno al mondo. Affermo allora che tutti i caratteri nazionali, se non dipendessero da cause morali fisse, procederebbero da accidenti del genere di quelli ricordati e che le cause fisiche non operano in modo discernibile sulla mente umana. Ed è una massima in ogni filosofia che le cause che non si manifestano devono essere considerate come non esistenti. Se scorriamo sul mondo o se consideriamo gli annali della storia, scopriremo ovunque segni di una simpatia o contagio tra i modi abituali di vivere, non quelli dell’influenza dell’aria o del clima. […] Se i caratteri degli uomini dipendessero dall’aria e dal clima, i gradi di caldo e di freddo dovrebbero naturalmente avere un’influenza rilevante; infatti nulla esercita un effetto più rilevante su tutte le piante e sugli animali irrazionali. In verità vi sono ragioni per pensare che tutte le nazioni che vivono ai circoli polari o ai tropici siano inferiori al resto della specie; e incapaci di tutte le più alte conquiste della mente umana. La povertà e la miseria degli abitanti delle regioni nordiche del globo e l’indolenza degli abitanti delle regioni meridionali che deriva dalle loro scarse necessità, possono forse rendere ragione di questa notevole differenza, senza far ricorso alle cause fisiche. Tuttavia è certo che i caratteri delle nazioni sono molto promiscui nei climi temperati, e che quasi tutte le osservazioni generali fatte sui popoli che si trovano più a sud o più a nord in questi climi, sono incerte e fallaci.
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