TECNOCRAZIA E BIOPOLITICA QUALE FUTURO?

Riccardo Tennenini e Edoardo Gagliardi

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DALLA PANDEMIA ALLO STATO BIOPOLITICO

Flavia Corso

Gli elementi di uno stato totalitario

A partire dal 2020, si sta progressivamente delineando uno scenario globale inedito. La pandemia ha infatti reso possibile ciò che, fino a pochi anni fa, si riteneva impensabile: la libertà condizionata al possesso di un “pass”, pena l’esclusione dalla società civile.

Gli elementi che hanno contribuito ad alimentare queste misure liberticide sono vari e complessi, ma esaminerò quelli che, a mio avviso, sono stati i più incisivi sul piano antropologico e su quello etico-politico.

1) La strumentalizzazione della paura.

il ruolo della paura in politica è noto e documentato. Se da un lato, la paura può avere un ruolo conoscitivo quando è ponderata e sottoposta al vaglio della ragione, il panico generalizzato non può che creare i presupposti per l’arrendevolezza e la sottomissione collettiva a chi garantisce la salvezza, a prescindere dalla forma in cui questa viene presentata.

Si tratta di una strategia manipolativa che fa leva su quella tipologia di paura che non viene filtrata dai processi cognitivi, alla quale spesso si accompagna anche un profondo senso di colpa. La colpevolizzazione è infatti un’altra arma che viene spesso utilizzata per esercitare il controllo capillare su una popolazione.

2) La ridiscussione arbitraria del criterio di normalità, nonché la patologizzazione della società stessa.

Nei paesi occidentali, vi è una tendenza sempre più diffusa e ossessiva di “creare” nuove malattie, attraverso la patologizzazione di ciò che di per sé non sarebbe da considerarsi patologico. Questo continuo slittamento della soglia della normalità fa sì che la condizione di salute diventi man mano una sorta di chimera, uno stato biologico utopico e irraggiungibile a cui tuttavia si deve sempre e comunque tendere, senza indugi o dubbi.

Ma riflettiamo. Prima ancora di definire patologica una condizione, andrebbe meglio specificato cosa si debba intendere per patologia. Con tale termine a cosa ci riferiamo esattamente? Quando diciamo che una persona è malata cosa vogliamo dire esattamente? Ci riferiamo ad uno stato organico che devia dalla norma biologica o ad una condizione soggettiva di sofferenza che compromette il funzionamento della persona?

Già Canguilhem, filosofo maestro di Foucault, aveva sollevato dubbi in merito alla possibilità di definire in maniera precisa la linea di separazione tra il normale e il patologico, sottolineando come il concetto di patologia non potesse essere riducibile alla mera deviazione da una norma biologica o media statistica.

Secondo il filosofo francese, infatti, la patologia subentra nel momento in cui il soggetto mostra uno stato disfunzionale che lo rende incapace di adattarsi all’ambiente in cui vive, e qualsiasi tentativo di definire la malattia come modificazione quantitativa dello stato considerato “normale” non può avere validità epistemologica.

Tuttavia, oggi la nostra società opera secondo quella che Foucault (che aveva appreso la lezione del suo maestro) chiamava normalizzazione, quel processo tramite cui lo Stato si impadronisce di una supposta norma biologica e dei suoi correlati epistemici, con l’ovvia conseguenza di legittimare il controllo e la disposizione dei corpi dei cittadini. Il potere entra nel corpo dell’individuo, ne supera la barriera naturale costituita dall’epidermide, ciò che di fatto è il confine tra noi e ciò che è altro da noi.

3) La fusione di pubblico e privato.

Quando il potere statale non si limita a regolare la sfera pubblica dei cittadini, ma pretende di invadere la sfera privata, si parla di Stato totalitario o totale. Il termine “totalitario” evoca proprio l’idea dell’onnipresenza del regime che si insinua in tutte le pieghe dell’esistenza, contribuendo in questo modo ad eliminare non solo il dissenso, ma anche l’idea stessa che ci possano essere alternative alla realtà così come viene imposta.

4) Il paternalismo.

L’approccio paternalistico che contraddistingue lo Stato totalitario, inoltre, stimola subdolamente nei sudditi la convinzione che ogni decisione presa al vertice della piramide sia presa solo ed esclusivamente per il bene del popolo, in modo tale che ogni danno inflitto all’individuo venga giustificato in virtù dell’interesse collettivo. Da qui, l’idea che la sicurezza (del gruppo) debba essere prioritaria rispetto alla libertà individuale.

Si può sacrificare la libertà in nome della sicurezza?

Nel corso dell’evoluzione, gli esseri umani hanno adottato la cooperazione come strategia adattiva funzionale alla sopravvivenza della specie. In un ambiente ostile, in cui le risorse per sopravvivere erano limitate e la vulnerabilità ai predatori elevata, l’appartenenza ad un gruppo permetteva di fronteggiare le avversità con più facilità. Forse è proprio per questa ragione ancestrale che la strategia del terrore è sempre stata utilizzata al fine di incanalare i comportamenti umani verso una direzione precisa, “utile” alla collettività.

D’altro canto, però, la cooperazione non avrebbe potuto funzionare a lungo se non si fosse basata sul riconoscimento dell’altro come fine in sé da tutelare, e non come strumento da utilizzare a proprio piacimento per raggiungere un determinato obiettivo. Il ruolo dell’empatia nella cooperazione umana e nella nascita della società civile era stato intuito persino da Locke, quando affermava di poter scorgere nell’uomo pre-sociale la tendenza innata alla socievolezza e alla reciprocità.

All’opposto di Hobbes, che credeva che l’uomo fosse lupo per ogni altro uomo, Locke riponeva fiducia nell’umanità e, nel farlo, attribuiva alla tutela della libertà individuale un valore assoluto, poiché non solo questa non era considerata un ostacolo alla salvaguardia dell’interesse collettivo ma ne costituiva invece il presupposto e il ruolo fondante.

Le ricerche neuroscientifiche, con la recente scoperta dei neuroni specchio, sembrano confermare l’intuizione di Locke, piuttosto che quella di Hobbes. Il riconoscimento della propria e altrui libertà basato sulla connessione empatica sembra connaturato nell’essere umano e, in quanto tale, risulta difficilmente scardinabile da qualsivoglia logica securitaria.

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IDEE PER UN VOLK MERITOCRATICO

Edoardo Gagliardi

Oggi non c’è governo al mondo che non si professi a favore della meritocrazia; non c’è partito o movimento politico che nella sua campagna elettorale non parli di meritocrazia. Eppure la meritocrazia è la forma di vita comunitaria meno applicata sulla faccia della terra.

La meritocrazia, per essere filologicamente corretti, è quella forma di società governata dal merito, detto altrimenti nella società meritocratica il potere dovrebbe essere detenuto da coloro che hanno le capacità e il merito per detenerlo. Diciamo dovrebbe perché in realtà non è propriamente così.

La cosa interessante è che la meritocrazia viene creduta essere un risultato della società liberale, in quanto in quelle illiberali la meritocrazia sarebbe impedita dal comportamento dittatoriale del potere. Questa credenza è assolutamente falsa. Si prenda come esempio il nostro paese, l’Italia. Oggi nessuno metterebbe in dubbio il fatto che l’Italia è, pur con le sue imperfezioni, una democrazia liberale, così come lo sono gli altri paesi europei.

Questo significa che l’Italia in quanto democrazia liberale è un paese meritocratico? Niente affatto. L’indice della corruzione percepita calcolato da Transparency International, colloca l’Italia al 53° posto su 1831; un risultato magro per un paese liberale ed europeo.

La corruzione non è semplicemente, ad esempio, l’atto di corrompere un pubblico ufficiale, essa ha anche un risvolto morale che va ad intaccare profondamente la meritocrazia.

Come si diceva prima nel regime meritocratico i migliori sono coloro che per meriti, acquisiti sul campo, verificabili, e per particolari abilità, hanno diritto ad occupare posti chiave nel governo della comunità. La meritocrazia in questo senso sarebbe quindi anche un’aristocrazia degli abili, di quelli capaci.

La realtà però è ben diversa, per capirlo diamo uno sguardo a come si svolgono le elezioni. La scelta dei candidati con cui comporre le liste elettorali dovrebbe essere uno dei primi passi per costruire un governo meritocratico; invece si tratta dell’esatto opposto: le liste elettorali, in modo particolare quelle “bloccate”, sono spesso un covo di cooptati dal vertice del partito tramite un sistema perverso di clientelismi e raccomandazioni. Avviene così che già dal momento in cui gli elettori sono chiamati a scegliere non vi è possibilità di mandare in parlamento o al governo i meritevoli, ma al contrario l’accesso ai luoghi del potere è riservato a dei furfanti.

Ora, come ci si può aspettare che un governo basi la sua ragion d’essere sulla meritocrazia, che faccia scelte meritocratiche, quando chi lo compone non è lì per meriti ma per grazie e favori ricevuti? Si tratta di una speranza vana.

Il problema non acquisterebbe particolare gravità se non fosse che siamo noi tutti a dover mantenere, pagati profumatamente, tutti questi parassiti del sistema democratico-parlamentare. L’elezione in parlamento oggi è la degna ricompensa per carrieristi e nullafacenti di ogni risma che, a dispetto delle gravi crisi economiche che colpiscono i popoli, non rinunciano a un centesimo del loro lauto stipendio.

È chiaro ed evidente che un sistema del genere non può che mandare i rovina l’intera comunità e prima i popoli prendono coscienza di questo e meglio sarà per tutti.

La comunità, che in tedesco è chiamata volk (o folk nell’accezione italiana), deve dotarsi di un sistema che sappia fare delle meritocrazia la fonte della propria prosperità. Alla meritocrazia il volk deve la capacità di garantire a tutte le persone una vita dignitosa.

Per fare ciò la prima cosa da comprendere è che chi ha accesso al potere per meriti non potrà utilizzare quel potere per ambizioni personali, come oggi è la normalità; al contrario il merito sarà calcolato in base a ciò che un individuo sa fare e può dare alla comunità.

Tanto più la comunità può trarre beneficio dall’agire dell’individuo, tanto più egli sarà ricompensato per l’opera che presta.

La meritocrazia sarà completamente basata sul volk, sulla comunità e per la comunità, senza distinzioni di classe: le posizioni di comando e di responsabilità non devono essere appannaggio di coloro che hanno i mezzi economici o una certa discendenza sociale; al contrario il merito e la capacità dimostrata dovranno guidare nella scelta dei migliori.

Vogliamo dire basta al familismo, alle decisioni basate sul clan, un modo di fare assolutamente paramafioso che ha contribuito a distruggere il nostro paese.

Vi è inoltre la necessità di ridare onore e gloria a tutti quei mestieri e a quelle professioni di cui la comunità ha bisogno: per noi vale molto di più un abile agricoltore che lavora la terra con passione che un politicante raccomandato senza arte né parte.

Nella comunità, nel volk, quello che conta è l’appartenenza di sangue, di suolo e di tradizione. Questo è quello che fa appartenere un individuo alla comunità, non l’essere figlio di, parente di, amante di. Per troppo tempo siamo stati abituati a vedere comportamenti degenerati e moralmente riprovevoli: quante volte una persona di valore è stata scartata a favore di un raccomandato? Troppe volte e lo ribadiamo: la forza di un paese si vede anche da come sceglie le persone da collocare nei posti di responsabilità e comando. Quando si vuole capire perché un paese versa in determinate condizioni, basta dare uno sguardo al grado di meritocrazia che vige al suo interno. Si fanno delle scoperte molto interessanti.

Qualcuno potrebbe dire che questi sono discorsi intrisi di idealismo, oppure che è un’utopia immaginare uno società completamente meritocratica. Noi rispondiamo: la casa si costruisce dalle fondamenta; cominciamo a lavorare per costruire un edificio solido. Magari qualche mattone verrà collocato in maniera errata, ma non pregiudicherà la stabilità della costruzione. Oggi invece tutto l’edificio è costruito su fondamenta d’argilla e quando anche si trova una parte di esso funzionante, perde di valore perché inserito in una costruzione sempre in procinto di crollare e dominata dall’instabilità.

Il merito non è teoria, ma pratica, applicazione quotidiana delle proprie capacità.

La democrazia parlamentare non ha fatto che gonfiare a dismisura un atteggiamento che pure esisteva nelle società monarchico-aristocratiche. Tuttavia con delle differenze sostanziali. Mentre la monarchia era un sistema relativamente chiuso e ristretto – gli aristocratici erano una piccolissima porzione della società – la democrazia parlamentale è un colosso tentacolare in cui a più livelli si creano sacche di potere in cui si infiltrano i parassiti del clientelismo più perverso.

Mentre la monarchia era ancora basata su legami di sangue, quindi che non aveva un legame di sangue non poteva accedere a determinate posizioni di potere, con la democrazia parlamentare (o se si vuole lo Stato borghese) il legame di sangue reale cade e si instaura il legame familistico e di clan, che può avere una natura mafioso-criminale oppure politico-economica.

Nello Stato borghese l’accesso al potere viene garantito attraverso una serie di comportamenti che possono prevedere lo scambio in denaro, in favori politici, sessuali ed altri. In questo modo lo Stato liberale, nella sua forma democratico-parlamentare, subisce una decadenza evidente. Da un lato permette l’ascesa di una specifica classe parassitaria (persone che vivono esclusivamente di rendite politiche e affini), dall’altro rende i cittadini della comunità sempre più distanti dal governo e, soprattutto, sempre più poveri.

Purtroppo a questa degenerazione sembra non esserci antidoto: neanche il cristianesimo è riuscito ad impedire che il parassitismo politico potesse diventare la normalità. In molti casi la Chiesa stessa è diventata parte integrante della decadenza antimeritocratica del sistema in quanto funziona allo stesso modo, con gli stessi meccanismi e le stesse logiche.

Ma allora come si può porre fine a tutto questo?

L’unica via sarebbe quella di riflettere sui seguenti punti:

  1. Comprendere che la democrazia parlamentare e lo Stato borghese sono il veicolo principale per la riproduzione di una società assolutamente antimeritocratica. In queste forme di controllo della società gli individui sono dominati da una classe pseudopolitica che perpetua il proprio potere attraverso la costruzione di un sistema ramificato e tentacolare in cui un numero sostanzioso di persone vive e vegeta come un parassita attaccato ad un corpo sofferente.
  2. Comprendere che le posizioni di potere e responsabilità devono essere assegnate per contribuire al benessere della comunità e, se quel benessere non viene raggiunto, si deve procedere alla sostituzione immediata di chi occupa la posizione di potere e responsabilità, a qualunque livello. In altre parole, si fa politica per la comunità e non per sé stessi.
  3. Il merito consiste nella capacità di dare un contributo alla comunità, di essere indispensabili nel proprio campo del sapere. La scelta dei meritevoli sarà quindi basata solo sulla capacità e le abilità degli individui, implementando severe punizioni per chi utilizza il proprio o altrui potere per alimentare il parassitismo ad ogni livello.
  4. L’educazione ha un ruolo fondamentale nella costruzione della società meritocratica, per questo motivo andrebbe rivisto non soltanto il sistema educativo in senso stretto (scuola e università), ma anche i mezzi di comunicazione che, a tutti i livelli, oggi educano le nuove generazioni (e instupidiscono le vecchie) alle furberie e al malaffare, costruendo una figura di essere umano che può trovare fortuna solo in un sistema parassitico come quello spiegato sopra.
  5. Non vi può essere società e comunità nuova se non si gettano le basi per la costruzione di uomini e donne nuove; educare l’individuo ad una moralità del volk (della comunità) è uno degli obiettivi principali dell’azione politica di una forza che vuole cambiare davvero il mondo.

In questo articolo abbiamo analizzato uno dei problemi fondamentali di tutte le società umane, la mancanza di meritocrazia che provoca come conseguenza il proliferare del parassitismo politico. Ovviamente questa degenerazione parte dalla politica ma contraddistingue tanti ambienti della società: il mondo dell’educazione, dei mass media, dell’economia. Non tutti i paesi sono colpiti allo stesso modo dal parassitismo degenere, ciò dipende anche dalla specifica storia e costruzione bio-antropologica di un popolo. Il nostro paese non ha di che gioire, visto che è uno dei peggiori e dei più degenerati.

La speranza tuttavia è l’ultima a morire e per questo bisogna credere che anche nella peggiore delle condizioni ci può essere un seme per rilanciare un nuovo progetto di società.

1 https://www.transparency.org/en/cpi/2019/results/ita (consultato il 27/05/2020).

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L’ISLAMIZZAZIONE DI OSLO

Bruce Bawer

Fonte: City Journal

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

A Groruddalen, vasto quartiere della capitale norvegese, i limiti del multiculturalismo sono messi a dura prova da una pesante immigrazione islamica.

Con una popolazione che supera le 600.000 unità, Oslo è divisa in due parti da Akerselva, un modesto ruscello che dalle montagne del nord scende sino al fiordo. La metà occidentale è di livello più elevato, caratterizzata da numerose residenze alla moda nei pressi del centro cittadino, e – più in là – da eleganti vicinati, colmi di belle case spaziose e giardini ampi e ben tenuti. La metà orientale è più sudicia: nella parte centrale si trovano aree che tanto ricordano l’East Village newyorchese, con bar e club stilosi, giovanili e pieni di graffiti, oltre ad un paio di zone ad alta densità musulmana, Tøyen e Grønland; ancora più ad est, invece, abbiamo Groruddalen.

Una grande, piatta, anonima valle (dal significa appunto ‘valle’ in norvegese), Groruddalen ospita più di un quarto della popolazione di Oslo. Immaginate San Fernando Valley, e ci sarete quasi. Per alcuni decenni adesso, nella mente del norvegese medio la valle si è trovata associata all’Islam. Il 28 agosto del 2017, Rita Karlsen di Human Rights Service (HRS) – think-thank con base ad Oslo – ha osservato come siano trascorsi ormai sedici anni dal giorno in cui il politico laburista Thorbjørn Berntsen dichiarò: “Esiste un limite al numero di immigrati che Groruddalen può accettare. Questo limite si appresta ormai ad essere alle porte. So di persone che vogliono andarsene perché la città di Oslo seguita a riempire palazzi e palazzi con rifugiati e richiedenti asilo… Dobbiamo semplicemente ammettere che i conflitti culturali cominciano ad essere evidenti. “ Altri politici respinsero le preoccupazioni di Berntsen. L’allora capo del Partito Laburista di Oslo, Bjørgulv Froyn, insistette – ad esempio – che i problemi di Groruddalen nulla avessero a che fare con l’immigrazione. Il leader dei conservatori di Oslo, Per-Kristian Foss, accusò addirittura Berntsen di “stigmatizzare un intero quartiere ed un’intera popolazione”. Foss, apertamente omosessuale, decise di sorvolare sul fatto che la vita per un omosessuale in certe parti di Groruddalen fosse ormai divenuta problematica.

Gli ammonimenti di Berntsen – risalenti al 2001 – si sono rivelati profetici. Fra il 2008 ed il 2010, più di 6000 norvegesi autoctoni hanno lasciato Groruddalen, mentre un numero quasi doppio di immigrati – perlopiù musulmani – ha preso il loro posto. Nel 2009, un buon 67 per cento dei bambini nati a Stovner, un distretto amministrativo situato all’estremo est della valle, avevano madri non-Occidentali. Nel 2010, gli immigrati componevano più del 40 per cento della popolazione di Groruddalen, tanto da condurre Lars Østby, demografo capo presso l’Istituto Norvegese di Statistica (SSB) – l’agenzia ufficiale nazionale di statistiche – a predire che – entro non molto – la maggioranza della popolazione della valle sarebbe stata formata da immigrati e relativi figli. Østby non vedeva in ciò un problema – ciò nonostante la cupa realtà di determinate aree urbane nella vicina Svezia, quali Rinkeby a Stoccolma e Rosengård a Malmö, divenute ormai enclave islamiche: società parallele dove la sharia ha soverchiato la legge svedese, e imam, gang e capetti locali assortiti hanno largamente spodestato l’autorità del governo svedese, della polizia e dei tribunali.

Nel 2011, il giornale Aftenposten infranse il massiccio silenzio mediatico riguardante le esperienze di vita vissuta dei norvegesi autoctoni residenti a Groruddalen. “E’ stato difficile essere norvegese a Groruddalen”, ammise al giornale Patrick Åserud, un insegnante che nella valle aveva trascorso tutta la sua vita. “Si è trattato di enormi problemi linguistici, oltre ad una costante pressione a doversi adattare ad una normalità totalmente aliena a chi di noi teneva a mantenere uno stile di vita ed una mentalità occidentali.” Åserud rivelò che in alcune scuole della valle “i bambini rischiavano le botte nel caso si fossero portati nel cestino un panino al salame. Le ragazze bionde erano regolarmente tormentate, e per non avere problemi erano costrette a tingersi i capelli. Non si poteva essere gay a scuola, o ebreo, o ateo… Una famiglia indiana di mia conoscenza era obbligata a vivere islamicamente motivo del loro incarnato scuro.” Su diciotto incontri fra insegnanti e genitori recentemente tenuti da Åserud, dieci necessitavano di interpreti. Le condizioni di vita nella valle erano peggiorate nel corso degli ultimi tre anni, spiegò, così tanto da condurlo a decidersi – con gran riluttanza – a togliere le tende: “Non voglio che i miei figli crescano qui.” Il giornalista di Aftenposten suggerì che Åserud fosse “troppo suscettibile”, e “fuori contatto rispetto alla nuova normalità norvegese.” L’insegnante replicò che se questo fosse stato il caso, tanti norvegesi di Groruddalen lo erano altrettanto.

Due anni dopo, nel 2013, un rapporto dell’Istituto Norvegese di Statistica commendevolmente sincero riconobbe che 1000 norvegesi autoctoni lasciavano Groruddalen ogni anno, con un numero equivalente di immigrati extra-europei pronti a rimpiazzarli. Durante quell’anno soltanto, il numero degli scippi a Groruddalen crebbe di quasi 80 punti percentuali. La grande maggioranza dei responsabili tratti in arresto erano adolescenti, con nomi islamici ed origini alloctone; quasi nessuno dei loro genitori si degnò di assistere ai loro processi (un padre in realtà si recò in aula, ma solamente per intimidire le vittime affinché ritrattassero le loro testimonianze). Nonostante ciò, i politici e la polizia seguitava ad ostinarsi a ribadire che a Groruddalen tutto andava bene. Citavano, in proposito, statistiche relative a reati differenti dai piccoli crimini di strada, che sembravano – almeno superficialmente – suffragare le loro tesi. In realtà, molti dei crimini commessi nella valle – se non praticamente tutti – non erano semplicemente mai stati denunciati. Le vittime musulmane di reati commessi da altri musulmani sapevano fin troppo bene di non interpellare le autorità: le famiglie, gli imam, gli altri correligionari avrebbero considerato la denuncia un tradimento, un tradimento da punire adeguatamente. I panni sporchi – ne erano consapevoli – avrebbero dovuto essere lavati esclusivamente all’interno delle comunità. Molte vittime non islamiche – da parte loro – avevano a loro volta paura di parlare con gli agenti di polizia, perché sapevano che le vendette che le avrebbero aspettate da parte dei propri vicini immigrati avrebbero fatto senz’altro impallidire il crimine originariamente subito.

Nel 2015, il sociologo Halvor Fosli pubblicò Fremmed i eget land (“Uno straniero a casa propria”), un libro basato su venti interviste a norvegesi autoctoni residenti a Groruddalen. Fosli scelse deliberatamente individui in qualche modo coinvolti nella vita delle proprie comunità – chi aveva figli a scuola, ad esempio, o chi sedeva nei consigli direttivi delle stesse. Come ci si sentiva, veniva chiesto loro, ad esser diventati minoranza nella terra dei propri padri? Le risposte furono semplicemente disturbanti. Gli studenti non islamici vivevano nella paura costante di finire nel mirino delle gang islamiche, ma non riuscivano a comprendere davvero cosa avrebbero dovuto evitare di dire o fare per non avere grane, perché i compagni musulmani giudicavano la loro condotta basandosi su codici di comportamento completamente estranei alla società norvegese. Per quanto concerneva le ragazze e le donne non islamiche, solamente uscire di casa da sole – recandosi al supermercato, ad esempio – guadagnava loro occhiatacce furiose di barbuti maschi musulmani, convinti che costoro non avrebbero dovuto neppure lasciare la propria abitazione se non accompagnate da un uomo e con il capo coperto. Per gli ebrei, poi, la situazione era ancor più dura. Per gli omosessuali? Lasciamo perdere. In breve, un posto dove un tempo le persone vivevano senza paura, e trattavano le une le altre rispettosamente ed amichevolmente, si era trasformato in un covo di tensioni, paura, odio – non odio anti-islamico, si badi bene, bensì anti-norvegese.

Il libro di Fosli scatenò una prevedibile ondata di condanne sui media mainstream. La sinistra multiculturale definì Fosli un bugiardo. In un articolo di Aftenposten intitolato “No, non sono uno straniero a casa mia”, Inger Sønderland riferì di essersi trasferita nella valle tre anni prima, e di essersi sentita immediatamente benvenuta. “Mi sento a casa qui!”, queste le sue parole. “In questo ambiente dove tutti siamo così diversi, mi sento libera. Posso rilassarmi, essere me stessa… Amo questa commistione di genti.” Anche Øyvind Holen, già collaboratore dei principali quotidiani norvegesi, autore di diversi libri sulla musica hip-hop, oltre che di una sua propria cronaca da Groruddalen di dieci anni precedente, ritenne di dire la sua, affermando su Dagbladet che Fosli e le sue interviste erano “ossessionate dall’Islam”, e che si erano dispiegate in un “attacco ossessivo contro le minoranze pakistane e somale”. Con un’attenzione mediatica benevola, il libro di Fosli avrebbe potuto mettere la politica, la polizia e le autorità migratorie dinanzi alle proprie responsabilità; invece, gli sforzi rabbiosi per screditarlo fecero sì che il suo libro non avesse alcun impatto sulle policy locali o nazionali. La vita andò avanti come se nulla fosse stato: nel 2016, le autorità scolastiche ricevettero le denunce di quasi 2000 casi di violenza contro gli insegnanti di Oslo, ma non ne riferirono alla polizia neppure una; nel mese di gennaio del 2017, un rapporto descrisse il crimine giovanile a Groruddalen come in ascesa vertiginosa.

Nel febbraio del 2017, Forskning.no – un sito Internet che affermava di fornire notizie affidabili sulla scienza e il suo progresso in tutto il mondo – ribadì che stando ad un nuovo rapporto del NOVA – un istituto di ricerca norvegese – fra i giovani di Groruddalen tutto andava alla grande. “Vanno bene a scuola, hanno relazioni positive con i propri genitori, sono soddisfatti della realtà in cui si trovano a vivere, e bevono meno alcool degli altri giovani di Oslo.” Ma quando Nina Hjerpset-Østlie dell’HRS ebbe a leggere il rapporto NOVA, si rese conto che ad esser presi in esame erano stati soprattutto i ragazzi musulmani, per molti dei quali la valle veniva ad essere senza dubbio un vero parco divertimenti. Il rapporto stesso non poteva negare che per le ragazze ed i non islamici risiedere a Groruddalen non fosse così esaltante, e l’insicurezza era causata proprio dal comportamento aggressivo e predatorio di quei giovani musulmani che a Groruddalen vivevano felici e contenti. Un giovane su cinque nella valle – perlopiù ragazzi non islamici – si erano trovati ad essere soggetti a violenza, o minacce di violenza. Le ragazze islamiche, da parte loro, di violenza ne subivano meno, quantomeno fuori dalle loro case – probabilmente, suggerì Hjerpset-Østlie, perché era la loro stessa opportunità di essere esposte ad una tale routine di violenza ad essere minore, dal momento che i loro movimenti nel mondo esterno, in aderenza alle norme della cultura islamica dell’onore, erano strettamente controllati e monitorati dalle famiglie.

L’11 marzo 2017, per la sorpresa di molti spettatori, il notiziario notturno sulla rete televisiva pubblica NRK mandò in onda un onesto spaccato del drammatico dilagare del crimine nella parte est della città di Oslo, concentrandosi principalmente su Groruddalen – dove, come riportato dal giornalista Anders Magnus, circa la metà della popolazione aveva origini extra-europee. Dodicenni spacciavano droga; quindicenni giravano con pistole, coltelli e mazze da baseball addosso; gang di giovani islamici aggredivano adulti in pieno giorno, ed i loro genitori, islamici anch’essi, con poche eccezioni mostravano una completa indifferenza alle attività delinquenziali dei propri figli. In tutto ciò, non distaccandosi neppure in un tale caos da una inveterata usanza norvegese, gli agenti di polizia seguitavano a rimanere disarmati. Magnus intervistò un allenatore di hockey che riferì come alcuni dei suoi giocatori avessero deciso di smettere, nel terrore di essere picchiati sulla strada per il campo di allenamento. Un giovane del luogo spiegò come i musulmani della valle avessero instaurato una vera e propria “società parallela”, nella quale i ragazzi semplicemente non avevano più alcun timore della polizia. Fedele a sé stesso, il giornale Aftenposten condusse un furibondo attacco al servizio di Magnus: Øystein E. Søreide e Mobashar Banaras, due influenti politici di Groruddalen, accusarono la NRK di dar luogo ad un’”impropria stigmatizzazione” degli abitanti della valle, e di fomentare ingiuste divisioni fra “noi” e “loro”.

Quindi, a maggio, per tre notti consecutive, dozzine di adolescenti musulmani misero a ferro e fuoco Vestli, all’estremo est di Groruddalen, tirando pietre, appiccando incendi, ed accoltellando persone. Solamente tre dimostranti furono arrestati, e rapidamente rilasciati. La durezza della vita nella valle diveniva sempre più difficile da negare – per quanto, come osservato da Rita Karlsen del HRS, i media mainstream ed i portavoce della polizia si ostinassero ad insabbiare le notizie ed a negare risolutamente che Groruddalen scivolasse verso una “deriva svedese”, negando e negando ancora persino dopo quello che era accaduto – una vita la cui realtà era scandita ormai da un crimine fuori controllo, e da una completa sudditanza delle autorità ai leader delle comunità musulmane. Fonti interne di polizia rivelarono però che la polizia, lontano da occhi esterni, riconosceva eccome la gravità dei problemi presenti nella valle. In numeri enormi, giovani islamici minacciavano insegnanti, guardie di sicurezza, gestori di esercizi commerciali, poliziotti, pompieri, paramedici, e molti altri ancora; sempre più incendi venivano appiccati, esattamente come già accadeva nelle periferie di Stoccolma e di Parigi.

Negli ultimi anni, gli sforzi della polizia per riportare l’ordine a Groruddalen si sono risolti in un vero fallimento. Un problema è rappresentato dalla difficoltà di ottenere per gli agenti un’abilitazione ufficiale a portare armi da fuoco – un cambiamento di policy vigorosamente osteggiato da politici e giornalisti. Un altro è invece l’incapacità degli alti papaveri della polizia di Oslo di confrontarsi sinceramente con la situazione nella valle – non devono esser stati felici quando un poliziotto di Stovner ammise, nel corso di un’intervista con una rete locale, che gli agenti evitavano per paura di entrare in certe zone di Groruddalen, descrivendo addirittura come “impensabile” un ingresso della polizia in tali aree. Il problema fondamentale rimane però il tradizionale approccio scandinavo al crimine: darsi da fare per rintracciare questa o quella causa primaria, trattare i rei come vittime della società, e considerare la compassione un rimedio per la criminalità. Un simile approccio può funzionare con alcuni ragazzotti norvegesi un po’ ribelli, ma rimane totalmente inutile dinanzi alla condotta dei loro coetanei musulmani, portati dall’humus culturale in cui sono cresciuti a reputare un tale trattamento con i guanti di velluto un segno di debolezza, e cavalcarlo.

Ad agosto un nuovo anno scolastico ha visto il suo inizio. Il 28 di settembre, il quotidiano norvegese VG ha riferito che, dal suono della prima campanella, così tanti episodi di violenza avevano avuto luogo in una scuola superiore di Stovner – uno addirittura con un’ascia ed una spranga di mezzo – da spingere il preside, Terje Wold, a dichiarare di non essere più in grado di garantire la sicurezza di insegnanti e studenti. In risposta, il ministro dell’istruzione Henrik Asheim ha ritenuto di convocare una riunione d’emergenza; a seguito del meeting, una pattuglia di agenti è stata permanentemente dislocata a guardia quotidiana della scuola. VG in quella occasione osservò Stovner non essere un caso isolato: la violenza in altre scuole di Groruddalen si era egualmente intensificata nel corso degli anni più recenti, portando allo sviluppo di quella che in norvegese è definita con il termine ukultur, letteralmente una “a-cultura” – caratterizzata da una mancanza di cultura – una non-cultura violenta, anarchica, selvaggia.

Avanti così, arriviamo ad oggi. Groruddalen continua a riempirsi senza posa di islamici, e gli autoctoni continuano ad andarsene. La fertilità delle famiglie musulmane fa arrossire di vergogna quelle norvegesi. In alcune classi, solamente uno o due bambini parlano norvegese. Rapporti presenti sul sito ufficiale del HRS e su document.no (che parla di temi legati all’Islam con una schiettezza raramente riscontrabile nell’universo mediatico) chiariscono che la violenza nella valle è in crescita e si fa sempre più intensa, con sempre più megarisse fra gang e roghi di auto in stile banlieu parigina. Circolano sempre più voci di norvegesi che si uniscono in ronde per perlustrare e preservare i propri vicinati. Se Groruddalen non è ancora integralmente una no-go zone, sul modello di Rinkeby o Rosengård, poco ci manca. Non manca molto a che si possa parlare della valle come di un dominio islamico in terra secolare; nonostante ciò, politici e giornalisti persistono cocciutamente a dipingerla come un paradiso di integrazione ed arricchimento multiculturale.

Nell’agosto del 2017, Hege Storhaug del HRS prese nota di un manifesto promozionale per una nuova libreria a Stovner. Ritraeva tre ragazze dalla pelle scura, due delle quali indossanti uno hijab, intente a leggere insieme alcuni libri con aria felice. “Questo è il futuro”, commentò Storhaug. Thorbjørn Berntsen riconobbe questo futuro già sedici anni fa; non solo lui, ma gli altri scelsero il silenzio. Anche adesso, mentre Groruddalen sprofonda nell’anarchia ed in una completa islamizzazione, pochi osano aprir bocca, e nel mentre, oltre le colline e le montagne che circondano la valle, la cappa oscura calata su di essa già si estende lentamente al resto della Norvegia.

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LA NECESSITÀ DI ADOTTARE L’ISOLAZIONISMO

Edoardo Gagliardi

Il verbo isolare sta ad indicare una separazione di uno o più elementi da altri o da un ambiente, modo tale che non vi siano contatti o comunicazioni di sorta.

Nel mondo animale e umano quando un corpo avverte una minaccia tende ad isolarsi, per proteggere la propria esistenza. Il senso dell’isolazionismo politico è esattamente in questo: per preservare la propria esistenza una comunità deve avere il diritto di potersi isolare, se necessario anche chiudersi completamente al mondo esterno.

Fa impressione constatare che, mentre il verbo isolare è assolutamente accettato in medicina, biologia e scienze naturali, non lo è altrettanto nel mondo della politica e della vita sociale degli individui. Di solito si tende a giudicare un essere umano isolato come un outsider, una persona che rifugge il mondo. Allo stesso tempo, in campo politico, domina il paradigma multiculturale: le società non possono isolarsi, perché il loro obiettivo sarebbe quello di promuovere il meticciato e la mescolanza di culture.

Eppure la storia – e in molti casi anche la cronaca – ci mostrano benissimo dove si annida la verità. Laddove si adotta un sano isolazionismo i popoli si mantengono, si preservano, conservano la loro identità; al contrario, le società multiculturali stanno portando all’estinzione i popoli europei e non solo.

L’isolazionismo come tale è uno dei nemici fondamentali dell’immigrazionismo, perché impedisce ad una comunità di venire in contatto con altre in maniera indiscriminata, prevenendo così il rimpiazzo di un popolo con un altro. Ciò che deve spingerci ad adottare un realistico isolazionismo oggi è la consapevolezza che esso è una necessità strategica per i popoli. Non viviamo più all’inizio del XX secolo, momento in cui la potenza delle nazioni veniva misurata su quanta terra riuscivano a conquestare; un periodo quello caratterizzato da una marcata omogeneità etnico-razziale. In tal senso i paesi degli inizi del ‘900 potevano impostare la loro politica su un imperialismo aggressivo ed espansionistico.

Oggi non c’è più nulla di tutto questo, allo sviluppo orizzontale si è sostituito quello verticale, nel senso che la tecnologia ha permesso di fare importanti passi in avanti nei settori produttivi. Le nazioni potenti non sono ormai solo individuate in quelle che hanno un numero elevato di popolazione o con una grande vastità di territori; le nazioni forti sono quelle che sanno tradurre in produttività l’intelligenza del popolo. Tra le virtù di una comunità vi è anche quella di capire che più un popolo si mantiene omogeneo e più ha possibilità di garantire sviluppo e benessere alla propria gente.

Questo cambio radicale di prospettiva ha portato quindi ad una diversa impostazione delle necessità di una comunità e di un popolo: oggi l’obiettivo è la difesa dei valori comuni e degli elementi etno-razziali della comunità. I popoli europei rischiano l’estinzione, anzi, si può dire che in alcune parti d’Europa il processo di rimpiazzo si è già da tempo innescato. Non è più questione di se ma di quando.

La peculiare situazione storico-sociale impone quindi la ripresa di un sincero isolazionismo, non certo per snobismo, ma per concreta necessità storica.

Ogni giorno sulle coste europee sbarcano migliaia di migranti, profughi, immigrati; una marea umana che non ha precedenti nella storia. Questa massa di persone proviene principalmente dall’Africa e dal Medioriente. Ci viene detto dalla propaganda immigrazionista che queste persone “scappano dalla guerra”, non tenendo in considerazione che una grande porzione di questi non ha mai né vissuto né combattuto una guerra.

Ma seguiamo per un momento il ragionamento immigrazionista: i popoli europei hanno il dovere di accogliere gente che scappa dalla guerra. Anche se ciò fosse vero, dobbiamo chiederci: perché accogliere persone che scappano da guerre con cui i popoli europei (o comunque buona parte di essi) non hanno nulla a che fare? Guerre provocate da chi? Che giovano a quale potere?

Non si è ancora visto un conflitto recente che giovasse al benessere economico e sociale dei popoli europei, anzi è l’esatto opposto! Ogni guerra è pronta a far muovere una massa umana di proporzioni colossali per creare il caos nelle vite di milioni di europei, a cui in ultima istanza non viene mai chiesto 1) se sia giusto partecipare ad una guerra e 2) se accettare sulla propria terra milioni di allogeni.

Questo stato di cose è intollerabile perché è divenuto una costante di tutti i conflitti della contemporaneità. Ogni volta che scoppia un conflitto decine, se non centinaia, di migliaia di soggetti sono pronti a salpare per paesi di cui non sanno nulla e in cui i popoli che li abitano devono accettarli in nome di un astratto concetto di diritto umano a senso unico.

Ma non è tutto. Accanto a questo il comportamento spregiudicato di certi governi fa in modo che i paesi di provenienza si liberino volentieri di popolazione in surplus, uomini in eccesso e criminali, da spedire tranquillamente in occidente, ben sapendo che esso non potrà opporsi.

Risulta più facile quindi capire che per rispondere a situazioni del genere una delle strade è quella di applicare una visione del mondo, della comunità e della politica che contempli l’isolazionismo. L’isolazionismo che preserva l’identità dei popoli, la loro cultura, la loro esistenza come entità organica e metafisica.

Uno degli esempi storici di isolazionismo più riusciti è indubbiamente il periodo Edo in Giappone, dal 1603 al 1868. Per oltre 250 anni il Giappone ha vissuto in quello che è la forma di isolazionismo più radicale: i giapponesi cacciarono dal loro territorio tutti gli stranieri, i mercanti, gli avventurieri, i missionari cristiani accusati di voler diffondere una religione aliena, i colonizzatori. Per due secoli e mezzo riuscirono a ridurre al minimo i contatti con l’esterno e dell’esterno con il paese.

Il risultato fu sorprendente: non solo il Giappone riuscì a porre le basi della nazione, ma riuscì anche a conservare l’omogeneità della popolazione. Si è già detto altrove, se il Giappone non avesse avuto il periodo Edo, oggi non conosceremmo il paese per come esso è, ma sarebbe molto probabilmente un paese più simile al Sudamerica.

Ma questo non è tutto, il periodo Edo fu un momento do grande sviluppo culturale, artistico e letterario. L’impronta che questo periodo storico lascerà sul Giappone e i giapponesi è innegabile. Eppure gli storici liberali e progressisti spesso preferiscono colpevolmente sorvolare sul Giappone di quei secoli. Il motivo è in quello che si diceva prima: non si può accettare il fatto che una comunità possa fiorire e progredire in un contesto di isolamento; non si può far conoscere ai popoli europei che isolarsi è spesso l’unica – e ultima – possibilità di preservare la loro identità. Per questo la propaganda preferisce tacere.

A questo punto comprendiamo l’obiezione di coloro che potrebbero dire: bene, l’isolazionismo del Giappone è avvenuto tra il 1603 e il 1868, un tempo in cui era difficile viaggiare, le comunicazioni erano ridotte al minimo e il Giappone, in quanto isola, era avvantaggiato nel potersi isolare. L’obiezione ha le sue ragioni, ed infatti qui non si sta proponendo un isolazionismo in cui si ponga il divieto di viaggiare o di comunicare con altri paesi, luoghi e comunità. L’isolazionismo qui deve intendersi come una strategia politico-sociale-culturale il cui obiettivo è il mantenimento e la preservazione della popolazione autoctona, etnicamente e razzialmente determinata.

Significa inoltre che una comunità non ha il dovere di pagare il prezzo delle conseguenze di guerre e conflitti che si combattono a migliaia di chilometri di distanza e di cui non trarrà nessun vantaggio; al contrario ne subirà le conseguenze in primis demografiche (che poi significa anche crisi economica, sociale e culturale).

L’isolazionismo va inquadrato in questa precisa ottica e gli esempi storici ci possono venire di grande aiuto. Se si accetta il fatto che la storia può ripetersi, potremmo accogliere anche la possibilità che ciò che è stato fatto nel passato, opportunamente e realisticamente rimodulato per il tempo presente, possa essere applicato ai problemi contemporanei.

L’altro esempio di isolazionismo degno di nota è quello che ha trovato spazio negli Stati Uniti negli anni ’30, e ancora di più nella primi anni ’40 del XX secolo. I due conflitti mondiali giocano un ruolo fondamentale per capire l’isolazionismo americano. L’esperienza tragica della primo e i rischi del secondo, portarono vasti strati della popolazione a pensare che il paese non avesse nulla da guadagnare nell’immischiarsi negli affari di nazioni lontane migliaia di chilometri.

Si deve notare che l’isolazionismo negli USA coincise anche con il periodo in cui fu attivo l’Immigration Act del 1924, la legge che limitava fortemente l’ingresso degli Stati Uniti di immigrati dall’Europa sud-orientale. Il periodo della Grande depressione fece addirittura, per alcuni anni, invertire la tendenza: vi erano più emigranti che immigrati.

Uno dei maggiori rappresentati dell’isolazionismo negli Stati Uniti fu Charles Lindbergh, famoso aviatore di orgini svedesi, forte oppositore dell’entrata in guerra degli USA contro la Germania nazionalsocialista. Il movimento America First, di cui Lindbergh fu portavoce, e che si batteva per il non intervento in guerra, arrivò a contare 800 mila membri nel 1941. America First adottava un’ideologia isolazionista, laddove per isolazionismo si intendeva proprio il non coinvolgimento degli USA in guerre, conflitti e affari che non avevano nulla a che fare con gli americani e da cui il popolo americano non avrebbe tratto nessun vantaggio.

L’isolazionismo è quindi per sua natura in opposizione totale ai famelici poteri che traggono enormi profitti dalle guerre, dall’immigrazione e dal multiculturalismo.

Questi poteri non possono sfruttare i popoli per il proprio tornaconto, ecco perché non amano e non possono sostenere l’isolazionismo; lo sfruttamento deve essere per forza senza confini, per la mescolanza dei popoli, per il conflitto tra le comunità.

Tuttavia l’obiettivo dell’isolazionismo non può ridursi semplicemente a ripudiare le guerre; l’aspetto fondamentale è quello di difendere l’identità etnico-razziale del popolo, la propria identità. Se l’isolazionismo non ha questo aspetto all’interno non riuscirà mai nel proprio intento: la guerra che non si vorrà combattere all’esterno sarà portata all’interno se non si comprende che la funzione dell’isolamento è quella di salvaguardare l’identità bioculturale di un popolo.

Oggi più che mai si impone l’emergenza di adottare un isolazionismo che non sia un puro e semplice aspetto di politica amministrativa, al contrario isolare deve essere una visione del mondo a medio e lungo termine.

Il tempo che viviamo lo impone, il declino dei popoli europei lo reclama, è una necessità che non può essere più rimandata. Bisogna essere pronti a capire che l’opposizione a questa visione del mondo è agguerrita e lo sarà sempre di più, per questo è essenziale una presa di coscienza della situazione attuale. La storia è dalla nostra parte e i dati parlano chiaro: se si ha il coraggio di adottare certe misure non ci può essere che un futuro positivo, se si continua a cedere sotto i colpi della propaganda non potremo che abbandonarci ad un destino di sparizione.

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L’IDENTITÀ DEI POPOLI È UNA QUESTIONE METAPOLITICA

Edoardo Gagliardi

Il prefisso meta applicato alla parola politica sta ad indicare un concetto che va oltre la politica, oppure la precede. Si potrebbe anche dire che la metapolitica è un qualcosa di prepolitico, nel senso che viene prima di qualunque discorso sulla politica.

Che cosa si intende quindi quando si afferma che l’identità etnico-razziale dei popoli è qualcosa di metapolitico anziché di politico? Lo si spiegherà con un esempio.

Nel mondo esistono numerosi partiti indipendentisti, queste formazioni hanno per la gran parte l’obiettivo di conquistare l’indipendenza per un territorio, una comunità, una nazione. L’indipendentismo si batte contro il dominio coloniale di una forza occupante. Ora, riprendendo quanto detto sopra, l’indipendentismo è un concetto metapolitico. L’indipendenza di una nazione è alla base di qualunque discorso politico successivo. Rendiamolo con parole ancora più semplici. All’indipendentista, grosso modo, non interessa tanto essere di destra, sinistra o centro; e non interessa nemmeno che tipo di ideologia abbia un governo (sinistra, destra, centro); egli si batte per l’indipendenza, un concetto metapolitico, in quanto è alla base di qualunque scelta successiva. Per questo una volta ottenuta l’indipendenza sarà quel popolo reso libero a scegliere i partiti che dovranno governare, e chi mandare al governo.

Certamente esistono partiti indipendentisti caratterizzati ideologicamente e collocati in una parte determinata dello spettro politico, tuttavia tale scelta viene spesso fatta per avere maggiore identificazione con un certo elettorato e, di fondo, non cambia l’obiettivo: l’indipendenza.

Detto questo, possiamo spostare il discorso sull’ambito identitario, nel senso di difesa delle caratteristiche etnico-razziali di un popolo.

Una forza che si batte per preservare tali caratteristiche dovrebbe essere una forza metapolitica e non strettamente politica. Ciò significa che in prima istanza quello che conta è che la società etnicamente e razzialmente determinata conservi la propria omogeneità. Senza questo aspetto il discorso politico non ha molto senso, perché monco alla base.

Come si può costruire una casa senza solide fondamenta? Certo, la si può costruire su fondamenta fragili ed è quello che fanno coloro che invertono l’ordine degli elementi, ma questo lo illustreremo tra poco.

Dunque l’aspetto etnico-razziale dovrebbe collocarsi su un piano assolutamente prepolitico, perché qui non si tratta di votare questo o quel partito e nemmeno di costituire un governo, si tratta di una visione del mondo, la weltanschauung di un popolo, la concezione del mondo che si vuole adottare per la propria civiltà.

L’obiettivo di una strategia politica che sappia difendere, preservare e promuovere le differenze e le identità dovrebbe partire dal presupposto che senza mantenere l’omogeneità etnico-razziale (almeno alla percentuale più alta possibile) un Paese è destinato a dissolversi e a quel punto ci sarà poco da difendere, promuovere e preservare.

Qui conviene dirlo chiaramente: l’omogeneità di una comunità non può essere perseguita per via politica, non è materia di un partito politico, ma è un obiettivo di una forza metapolitica, è qualcosa che va al di là della politica.

Infatti, come detto poco sopra, la politica oggi adotta un ragionamento che è l’esatto opposto di quello descritto in questo capitolo. Per la gran parte dei partiti e movimenti politici quello che conta è la collocazione politica, il colore partitico, le ideologie, la religione. Intendiamoci, questi elementi sono importanti, non lo si vuole negare. Quello che qui si vuole rimarcare è che questi elementi – politici appunto – vengono dopo il concetto metapolitico.

Poniamo una domanda riguardo il tema sensibile dell’immigrazione, di cui spesso se ne fa una questione religiosa. Orbene, se un giorno ci dovessero essere 10 milioni di africani cristiani (cattolici o protestanti) pronti a sbarcare sulle nostre coste, sarebbe diverso dall’avere 10 milioni di africani di cui non si conosce l’affiliazione religiosa, pronti comunque ad approdare nel nostro paese?

La risposta a questa domanda è no, non ci sarebbe nessuna differenza. Il motivo è che lo scenario descritto sopra va inquadrato da un punto di vista metapolitico e non religioso.

Se un giorno ci dovessero essere 10 milioni di mediorientali che si dichiarano dello stesso credo politico di un partito al governo di un paese occidentale, avrebbero questi diritto a soggiornare per sempre in quel paese rispetto a 10 milioni di mediorientali di cui non si conosce il credo politico, pronti comunque a muoversi in massa in quel paese?

Anche qui la risposta deve essere ancora no, non ci sarebbe nessuna differenza.

La questione quindi non è politica o religiosa, tantomeno partitica, è metapolitica. Ma si badi bene, non si sta dicendo che le ideologie politiche o le fedi religiose non siano necessarie, al contrario! Esse sono fondamentali. Ma è il contesto, la base, lo sfondo su cui tali ideologie e religioni vengono collocate che è importante.

Converrà fare un altro esempio per chiarire questo punto.

La Svezia in questi ultimi anni sta conoscendo un cambiamento traumatico e radicale della sua componente etnica e razziale. Le autorità politiche fanno fatica a non parlare dell’aumento della criminalità che è cresciuta costantemente da quando nel paese vengono riversati migliaia di immigrati. Eppure la Svezia non è sempre stata il luogo sfortunato di cui si parla oggi nelle cronache dei media.

Fino a buona parte degli anni ’80 del XX secolo la Svezia è stata un paese per la gran parte etnicamente omogeneo. Le autorità svedesi, socialdemocratiche, misero in atto alcune leggi sull’immigrazione che ridussero per esempio l’afflusso di immigrati non-nordici; se nel paese vi erano disoccupati in grado di fare lavori di cui c’era necessità, non si sarebbero concessi permessi per stranieri.

Nonostante l’ideologia che poi avrebbe operato la mutazione del tessuto etnico-razziale della Svezia come la vediamo oggi fosse già presente, tuttavia il paese si manteneva etnicamente omogeneo.

Questo esempio ci dimostra due cose essenziali:

  1. Che il colore politico o la fede religiosa di chi detiene il potere non ha fondamentale importanza se la struttura e l’essenza della società si mantiene etnicamente omogenea, almeno in un’alta percentuale.
  2. Che il colore politico e la fede religiosa non hanno importanza fino a che non vanno a colpire il concetto metapolitico di identità etnico-razziale dei popoli. In altre parole non vanno a nullificare la base e la struttura di una società omogenea.

Il problema sorge nel momento in cui le ideologie politiche e le fedi religiose lavorano, singolarmente o di concerto, per distruggere l’essenza metapolitica di una comunità, rimuovendo l’omogeneità etnica e razziale. In sostanza sostituiscono l’ordine degli elementi: facendo questo portano le società e i popoli allo scontro, all’intolleranza e all’estinzione.

Per questo diciamo: quando la casa ha solide fondamenta, lo stile con cui viene costruita l’abitazione può essere diverso, può essere scelto in base alle esigenze di un popolo, può essere l’espressione consapevole di una comunità unita. A patto però che la varietà degli stili non vada contro e metta in pericolo le fondamenta dell’abitazione.

Il concetto qui espresso è anche dettato da una necessità storica. In un mondo che ha perso i concetti di solidarietà e di comunanza tra le persone; in una società sempre più atomizzata e individualista, non si può contare più sulle masse, ormai scomparse. Quello che è importante fare oggi è cercare di unire le persone attorno a delle idee metapolitiche che sappiano andare al di là delle mere divisioni ideologiche e religiose. L’essere parte di una comunità etnico-razziale consapevole e unita dovrebbe avere la priorità sulle divergenze politiche e religiose.

Tuttavia oggi si assiste al contrario, ci si accanisce sulle differenze politiche e religiose e si sorvola su quelle etniche e razziali. La realtà di questa tendenza è palese: i popoli stanno scomparendo, le identità si dimenticano, il melting pot cresce a dismisura. Per ironia della sorte, tentando di salvare le ideologie politiche e la religione rifiutando l’omogeneità etnico-razziale, si porta alla distruzione proprio della politica e della religione.

È singolare notare che proprio coloro che dicono di voler difendere le identità poi cadono in questo tranello (il)logico, scambiare l’ordine dei concetti, producendo un cortocircuito insanabile. Poco importa che lo facciano consapevolmente o in maniera ingenua.

Lasciamo parlare gli esempi delle nazioni poco distanti dalla nostra. La Francia ha una lunga tradizione di immigrazione, cominciata dopo la scellerata colonizzazione dell’Algeria. I nazionalisti francesi, una buona parte di essi, hanno messo la religione e il colore politico davanti all’identità etnico-razziale. Ebbene oggi ne vediamo le conseguenze con una drammaticità cristallina: in Francia i musulmani stanno diventando sempre di più e i cattolici sempre meno; i partiti che dovrebbero difendere l’identità del popolo francese non sono altro che gruppi di interesse economico-politico dediti alla propaganda, che certamente può aiutare a raccattare qualche voto in più, ma condanna il popolo francese alla sparizione. I dati francesi sulla demografia dimostrano che, pur volendo mettere al primo posto l’ideologia e la religione, non si è riuscito a conservare né l’una né l’altra, dando il colpo di grazia all’identità etnico-razziale.

In Francia oggi ci sono oltre 8,000,000 milioni1 di stranieri (persone nate all’estero), bisogna contarne almeno il doppio se si includono i cittadini francesi non etnici o persone che sono nate in Francia da genitori stranieri. Forse tutto questo si sarebbe potuto evitare se non si fossero invertiti gli elementi da considerare nel loro proprio e logico ordine; forse oggi staremmo parlando di una Francia diversa. Il destino della Francia potrebbe toccare anche ad altre nazioni, visto che la tendenza sembra essere quella, accanto all’incapacità (o alla mancanza di volontà) delle classi dirigenti e intellettuali.

1 https://www.statista.com/statistics/548869/foreign-born-population-of-france/

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LA STORIA E IL RUOLO DELL’INTELLETTUALE

Edoardo Gagliardi

Bisogna dirlo con chiarezza cristallina: da tempo ormai molti intellettuali sono una palla al piede per il popolo, anziché produttori di teorie e visioni del mondo. Questo fatto ha ragioni storiche molto addietro nel passato; l’intellettuale di oggi, sempre pronto a comparsate televisive per piazzare la sua merce, non nasce con il capitalismo, suo terreno di coltura/cultura, ma al contrario con l’intellettuale-militante di sinistra.

Già Antonio Gramsci intuisce la centralità della cultura come arma indispensabile per conquistare le masse. Non più la repressione o la violenza fisica, ma la penna e la persuasione delle parole sono elementi necessari per portare il popolo dalla propria parte. Gramsci certamente aveva grandi ambizioni e non dubitiamo della sua buona fede, tuttavia quello che da Gramsci in poi sarà l’intellettuale (e non solo a sinistra) sarà una figura in buona parte nociva, per la società e per la gente.

In un certo senso l’intellettuale esisteva anche prima di Gramsci e dell’ascesa dei grandi partiti di massa, tuttavia il suo impatto era limitato in termini di fruizione pubblica: l’Europa del XVIII e del XIX secolo ad esempio era un luogo in cui coloro che sapevano leggere e scrivere erano una minoranza rispetto alla massa incolta delle persone. Questo fatto si risolveva in una circolazione del lavoro intellettuale solo presso le corti aristocratiche e un ristretto numero di persone alfabetizzate.

Accanto a questo la società Europea del tempo non aveva ancora visto la nascita dei partiti politici, grandi abbastanza da essere chiamati “di massa”, non esisteva l’opinione pubblica.

Una situazione del genere è stata spesso dipinta come negativa, illiberale, oscurantista, in realtà – come si capirà – era una società che, pur nella sua ignoranza diffusa, ha fatto – intellettualmente parlando – molti meno danni rispetto a quella successiva e a quella che viviamo oggi.

Ad un certo punto della storia, come ci racconta bene Gustave Le Bon, la massa irrompe sulla scena politica, sociale e culturale. Fin da subito molti comprendono che questa massa è un qualcosa di cui approfittare: c’è chi lo fa per motivi meramente ideologici e chi lo fa perché intuisce che la massa è pronta a consumare, senza una massa popolare non vi può essere consumismo. Inizialmente però i tempi erano fortemente politicizzati, si tende quindi a vedere la massa come potenzialmente esplosiva, la si vuole utilizzare per fini rivoluzionari. Nella mente di molti intellettuali e teorici campeggia il mito della Rivoluzione bolscevica come appunto evento di massa, azione reale e al tempo stesso simbolica in cui il popolo-massa agisce per prendere il potere.

A questi intellettuali non sovviene nemmeno per un momento che la rivoluzione bolscevica possa essere stata in realtà un fenomeno portato a termine da una (piuttosto piccola) fazione politico-militare, o che essa sia stata ampiamente sostenuta economicamente e politicamente dall’esterno. Quello che agli intellettuali interessa è che la grande massa è strumentalizzabile, utilizzabile a proprio piacimento e necessità.

Il pericolo che l’intellettuale possa scadere nel delirio di onnipotenza egoistica era ben presente a Gramsci, il quale avverte che l’intellettuale è una parte importante del partito politico; egli infatti lavora per formare la coscienza di classe del popolo, ma deve attenersi alla disciplina ed alle direttive del partito. Qui ancora non ci sentiamo di dubitare della buona fede del filosofo italiano.

L’intellettuale organico al partito però funzionò in un certo senso soltanto in quei Paesi che avevano un regime socialista e comunista, ben altra cosa accadde nei Paesi occidentali in cui la forma di governo non era socialista e in cui i comunisti, seppur numerosi, erano sempre all’opposizione. Ci limiteremo qui ad analizzare questi Paesi, visto che questo discorso riguarda anche l’Italia.

Nei Paesi in cui i partiti comunisti non andarono al potere si realizzò tuttavia l’assunto gramsciano di conquistare il popolo attraverso la cultura: la sinistra infatti dal dopoguerra in poi, riuscì ad impossessarsi del cinema, della letteratura, delle università, di tutti quei luoghi dove si produce cultura. A differenza di oggi allora si pensava che la cultura dovesse essere di massa, dovesse influenzare il popolo, in un certo senso elevarlo. Ad onor del vero bisogna dire che dall’altro lato, la destra, profondamente colpita dopo la fine del conflitto mondiale, non trovò di meglio che ripiegarsi in uno sterile conservatorismo atlantista, oppure a supportare partiti il cui principale obiettivo era quello di avvantaggiare in tutti i modi i ricchi a scapito dei poveri.

Foraggiato da denari del partito o di provenienza sovietica, l’intellettuale “di sinistra” diventa militante, ma non nel senso che milita per il partito o per il popolo, ma perché milita per sé stesso. Egli si allontana progressivamente dall’assunto gramsciano di intellettuale organico, per diventare un soggetto che, con la pretesa di essere il portavoce del popolo-massa, non fa che riversare le proprie paranoie nella società, facendole passare per “cultura”.

È singolare e in apparenza paradossale – ma non deve stupire – che una larga parte di intellettuali di quegli anni fosse composta da persone che alla vita dello studio e della ricerca si dedicavano molto poco, preferendo il trambusto delle manifestazioni e il “6 politico” alle letture e al tempo passato sui libri.

Qui bisogna chiarire un equivoco duro a scomparire, e cioè che l’intellettuale abbia a cuore i problemi e la vita delle persone. Niente di più lontano dalla realtà. Salvo casi rari e lodevoli, la gran parte degli intellettuali, come già accennato, ha come scopo quello di utilizzare la massa come strumento consumistico-ideologico: più è larga la massa, più sarà grande il riscontro economico della mercanzia che vuole piazzare. Una buona parte di intellettuali, di fatto, odia il popolo. Si tratta di un odio derivante da una consapevolezza dei propri mezzi. Come non si può odiare un popolo che acquista i prodotti di un affabulatore credendoli originali e sinceri? L’intellettuale questo lo sa e come ogni buon borghese vive la scissione tra l’essere il megafono del popolo e al tempo stesso il sacerdote di una casta pseudoaristocratica.

Eppure fino al 1989 c’era il comunismo che costringeva l’intellettuale a rimanere sui binari di quello che il partito e l’Unione Sovieta imponevano. Ma nell’aria c’era già il cambiamento, cosa che molti intellettuali avevano già compreso con un decennio di anticipo, quando capirono che era più conveniente per la loro sete di potere e prebende passare dalla rivoluzione bolscevica ad una versione più soft del socialismo, una sbiadita socialdemocrazia. Non è un caso che il successo dei partiti socialisti in Europa arrivi proprio negli anni ’80 del XX secolo, quando inizia il declino del comunismo.

Il cambio di casacca, ancora nell’alveo della sinistra, permette all’intellettuale di continuare a vivere in agiatezze economiche e ad emanciparsi dalle ristrettezze del dogma politico sovietico.

Dopo l’implosione del sistema sovietico per l’intellettuale si aprono praterie infinite: ora è finalmente libero di saltare da sinistra a destra, passando per il centro e viceversa, senza che nessun partito, Stato o dogma politico possa impedirglielo. L’era dei partiti di plastica arriva come una manna dal cielo per l’intellettuale: in un partito dove il nulla regna sovrano, l’intellettuale è libero di sguazzare in quel nulla a dispetto di ogni logica, etica professionale e rispetto per la gente.

L’onnipotenza non finisce qui ovviamente, l’intellettuale oggi crea partiti e movimenti sui social network, si presenta come sacerdote di un nuovo pensiero sincretico, spesso frutto di una mistura di pensieri di autori precedenti, attentamente filtrati per evitare di disturbare questo o quel potere di turno. L’autocensura è essenziale, altrimenti non potrebbe essere invitato un giorno sì e l’altro pure nelle trasmissioni TV, dove curiosamente si parla di tutto tranne che di lavoro intellettuale.

Ci teniamo a precisarlo bene: l’intellettuale di oggi non ha colore o credo politico, si raccoglie laddove si crea uno spazio di consenso politico-consumistico e cerca di sfruttare tale spazio fino a che può. Poi, una volta disseccata tale area, si rivolge ad un’altra, adducendo come motivazione l’elaborazione di un pensiero nuovo.

L’intellettuale odierno è una contraddizione vivente: egli indica e invoca dei paradisi in terra in cui lui non vivrebbe mai; parla di redistribuzione della ricchezza, che però è sempre degli altri mai la sua; parla di meritocrazia, quando spesso i criteri di selezione che lo hanno portato nelle posizioni che occupa sono quanto di più antimeritocratico ci possa essere. E il popolo continua ad acquistare la sua mercanzia, credendo – spesso in buona fede – di essere di fronte ad un faro che saprà indicargli la strada da percorrere.

Il meno intellettuale tra gli intellettuali è forse quello che ha compreso nel migliore dei modi quello che abbiamo detto ad inizio capitolo: che l’intellettuale è un freno all’emancipazione mentale, fisica, economica e spirituale di un popolo. Parliamo di Georges Sorel, il quale ci ricorda che gli intellettuali «dopo aver risolto tutti i problemi cosmologici, amano considerarsi come capaci di risolvere tutte le difficoltà quotidiane. Da questo stato mentale deriva la stupida fiducia nelle soluzioni degli “uomini illuminati”»1.

Sorel vedeva una contraddizione insanabile in una casta di soggetti, gli intellettuali che dall’alto dei loro privilegi borghesi, economici e politici, avrebbero dovuto interpretare i bisogni del popolo e tramutarli in azione politica. Non possiamo non chiederci come possa convenire oggi ad un intellettuale – qualunque sia il credo e colore politico professato e inserito pienamente nel sistema – il cambiamento di sistema? Una gabbia per il popolo dal quale egli trae i maggiori benefici.

La risposta la affidiamo ancora a Sorel: «gli intellettuali vogliono persuadere i lavoratori che il loro interesse è portare essi stessi (gli intellettuali) al potere e accettare la gerarchia delle capacità, che subordina i lavoratori ai politici».2

In questo senso l’intellettuale è un parassita che vive grazie alle necessità e ai bisogni della massa, sempre pronto a sfruttare tale bisogni per la propria sopravvivenza. Al tempo stesso l’intellettuale sfrutta la politica per i propri vantaggi personali. Per Sorel nella società «non c’è posto per sociologi, per persone alla moda favorevoli al riformismo e per gli intellettuali che hanno abbracciato la professione del pensare per il proletariato».3

Il punto è che Sorel rimane ancora un uomo del suo tempo, possiamo solo immaginare quanto il disprezzo per questa classe di privilegiati potrebbe aumentare qualora egli vedesse la condizione dell’intellettuale oggi. Eppure, nonostante i suoi limiti, il pensiero di Sorel sugli intellettuali coglie nel segno, nel senso che ci fa comprendere come prima ci svegliamo dalla grande presa per i fondelli degli intellettuali e meglio sarà per il genere umano.

In conclusione è doveroso rimarcare un concetto: l’analisi fin qui proposta non vuole affato screditare il lavoro di tante persone che fanno un lavoro di intelletto, e crediamo fermamente che queste persone, in quanto intelligenti, non amerebbero essere annoverate nella categoria di intellettuali. Al contrario lo scopo di questo capitolo è quello di narrare la traiettoria dell’intellettuale nella società moderna e contemporanea, in particolare di metterne in evidenza le degenerazioni e l’intima essenza.

1 Carl Boggs, Intellectuals and the Crisis of Modernity, New York, NY, State University of New York Press, 1993, p.47.

2 Ibidem, p.48.

3 Ibidem, p.48.

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SONO SVEDESE, MA VIVO IN ABSURDISTAN

Ingrid Carlqvist

Signore e signori. Mi chiamo Ingrid Carlqvist e sono nata in Svezia nel 1960, quando i Socialdemocratici stavano per prendere il controllo in perpetuo e la nostra nazione era la più bella, la più sicura e la più avanzata nel mondo. Ora io vivo in Absurdistan, una nazione che ha le statistiche più alte di stupri nel mondo, centinaia di cosiddette “aree di esclusione” in cui le persone vivono al di fuori della società svedese, e con i quotidiani che nascondono alla gente tutti questi orribili fatti.

Mi sento proprio come Dorothy Gale ne Il Mago di Oz, un tornado è arrivato e mi ha portato molti chilometri lontana da casa, facendomi precipitare in una nazione che non conosco. Ora mi sento come se non fossi più in Svezia. Come Dorothy sto cercando un modo per trovare la mia casa, ma nel mio percorso incontro solo leoni senza coraggio, spaventapasseri senza cervello e uomini di latta senza cuore. Quando sono cresciuta il nostro primo ministro era Tage Erlander, un socialdemocratico. Nel 1965 disse in parlamento, dopo le violente rivolte razziali in America. “Noi svedesi viviamo in una situazione decisamente migliore. La popolazione della nostra nazione è omogenea, non solo per quanto riguarda la razza ma anche in molti altri aspetti”. Ora vivo in una nazione che non è omogenea in nessun aspetto. Olof Palme, che gli succedette, decise che l’omogeneità era una cosa negativa e aprì i confini a persone da tutto il mondo. E da destra a sinistra i politici ci dicevano che non esistevano cose come una cultura Svedese, delle tradizioni Svedesi meritevoli di essere menzionate e che noi svedesi dovevamo essere grati che così tante persone con una VERA cultura e delle VERE tradizioni venivano da noi.

Mona Sahlin, una leader successiva dei Socialdemocratici, in un’intervista del 2002 al giornale Euroturk, ad una domanda sulla cultura svedese risposte:

“Ho avuto spesso questa domanda, ma non riesco a pensare a cosa sia la cultura Svedese. Credo che è questo che rende noi svedesi così invidiosi verso gli immigrati. Voi avete una cultura, un’identità, qualcosa che vi lega gli uni agli altri. Noi cos’abbiamo? Abbiamo la vigilia del giorno di San Giovanni Battista e cose banali di questo tipo”.

Ha detto anche: “Gli svedesi si devono integrare nella nuova Svezia. La vecchia Svezia non torna più”.

Nella nuova Svezia vengono riportati più stupri che in qualunque altra nazione dell’UE, secondo uno studio del professore inglese Liz Kelly. Più di 5.000 stupri o tentati stupri sono stati registrati nel 2008 (l’anno prima erano oltre 6.000). Nel 2010 un altro studio ha affermato che solo una nazione nel mondo ha più stupri della Svezia, ovvero il Lesotho, nell’Africa meridionale… Per ogni 100.000 abitanti il Lesotho ha 92 stupri registrati, la Svezia 53, gli USA 29, la Norvegia 20 e la Danimarca 7.

Nel 1990 le autorità hanno conteggiato 3 aree di esclusione in Svezia, sobborghi in cui vivono la maggior parte degli immigrati, dove solo pochissimi lavorano, quasi tutti vivono di sussidi ed i loro figli non passano gli esami. Nel 2002 ne hanno conteggiate 128, nel 2006 ne avevamo 156 e poi hanno smesso di conteggiarle. In alcune città, come Malmö, dove vivo, un terzo degli abitanti vivono in una area di esclusione.

Cosa voleva dire Tage Erlander quando diceva che la popolazione svedese era omogenea non solo dal punto di vista razziale ma anche in molti altri aspetti? Penso intendesse cose come regole, valori, cultura e tradizioni. Un sentimento di sodalizio. Che tutti noi, nella Vecchia Svezia, avevamo una visione simile di ciò che era una buona società e di come risolvere i conflitti. CONOSCEVA la cultura svedese, a differenza di Mona Sahlin.

Nella Nuova Svezia abbiamo bisogno di poliziotti armati nei nostri ospedali perché le famiglie rivali si combattono nelle stanze degli ospedali. Si sparano l’un l’altro per strada, derubano e picchiano i vecchi. Il tasso di criminalità cresce ogni minuto, ma i politici e i giornalisti svedesi ci dicono che questo non ha assolutamente niente da fare con l’immigrazione. Il fatto che le nostre prigioni siano piene di stranieri è solo una coincidenza o è spiegato da fattori socio-economici.

Per molti anni sono stata una giornalista nei media mainstream. Ma sono stata sempre una sorta di piantagrane, sempre dubbiosa del fatto che ciò che mi dicevano le persone fosse LA VERITA’. Quando tutti andavano in una direzione, io giravo verso l’altra direzione per vedere cosa c’era lì.

Nel Gennaio 2011 era successo qualcosa che mi ha fatto perdere le ultime speranze nei giornalisti svedesi. Ero vicepresidente della Società dei Pubblicisti di Malmö ed avevo invitato il giornalista danese Mikael Jalving a parlare del suo libro in uscita “La Svezia senza filtri – Un viaggio nella Nazione del Silenzio”. Un giorno il presidente mi ha chiamato e mi ha detto “dobbiamo cancellare la presenza di Mikael Javing perché parlerà ad una riunione organizzata da un giornale chiamato “National Today”.

Non gli interessava, né interessava a nessun altro nel board d questa società di giornalisti che Jalving stava andando a parlare del suo libro. Andando a questa riunione sarebbe stato infettato da idee nazionaliste e probabilmente sarebbe diventato un nazi. Vedete, in Svezia tutti quelli con opinioni diverse sono dei nazi!

È così che funziona la Nuova Svezia, la nazione che chiamo Absurdistan. La nazione del silenzio.

Ero furiosa e ho lasciato il board di questa società. Questo mi ha portato ad essere invitata dalla Danish Free Press Society (ndt, società danese per la libera stampa) per parlare della strana nazione della Svezia e questo mi ha portato a fondare la Swedish Free Press Society (ndt, società svedese per la libera stampa).

È così che io e Lars Hedegaard ci siamo trovati. Ma non ci siamo accontentati di una sola Free Press Society per uno, dal momento che entrambi abbiamo un solido background di giornalisti abbiamo deciso di iniziare un giornale. Un buon giornale stampato vecchia scuola. Abbiamo deciso di chiamarlo Dispatch International (messaggio internazionale) perché la nostra intenzione è diffondere questo giornale in tutto il mondo prima o poi. Ma per prima cosa prendiamo Manhattan, poi Berlino. O piuttosto, prima ci prendiamo la Scandinavia e poi ci prendiamo il mondo!

Dispatch sarà stampato in due versioni, una in Danese e una in Svedese, ma tutti gli articoli saranno gli stessi. Su internet potrete leggerli anche in Inglese e Tedesco. Scriveremo di politica nelle nostre nazioni e nel mondo. Scriveremo di tutte queste cose che i media mainstream vi nascondono da così tanti anni. Distingueremo fra notizie e commenti ed il tono sarà attenuato. Lasceremo parlare i fatti, i fatti che i giornalisti mainstream nascondono alle persone.

La situazione in Svezia è molto peggio che in Danimarca. In Svezia NESSUNO parla dei problemi dell’immigrazione, della morte del progetto multiculturale o dell’islamizzazione/arabizzazione dell’Europa. Se lo fai sarai subito apostrofato come razzista, islamofobo o nazi. Questo è il mondo in cui sono stata chiamata fin da quando ho fondato la Free Press Society in Svezia. Il mio nome è stato infangato su grandi testate come Sydsvenskan, Svenska Dagbladet, e persino dal mio giornale sindacale, The Journalist.

Quindi ho bisogno che tutti voi siate la mia Glinda, la Strega Buona del Nord, e mi aiutate a ritrovare la mia casa! Non penso che funzionerà battere i talloni delle mie pantofole di rubino tre volte come Dorothy ha fatto per risvegliarsi nella sua camera da letto nel Kansas. Ma se supportate Dispatch iscrivendovi o diventando un azionista, o anche solo donandoci denaro, mi porterete un passo più vicino a casa. Alla Svezia com’era una volta, la Svezia che rivoglio indietro.

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GLI STATI UNITI SARANNO “UNA MINORANZA BIANCA” GIA’ NEL 2045

William H. Frey

La giovinezza delle minoranze sarà il motore della futura crescita.

Fonte: Brookings

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Nuovi censimenti ribadiscono l’importanza delle minoranze razziali come primario motore demografico della futura crescita della Nazione, dinanzi al prossimo declino di una popolazione bianca sempre più vecchia, e dalla crescita sempre più lenta. Le più recenti statistiche, infatti, prospettano che gli Stati Uniti vedranno una “minoranza bianca” già dal 2045. Nel corso di quell’anno, i bianchi comporranno il 49,7% della popolazione, in contrasto con il 24,6% di ispanici, il 13,1% di neri, il 7,9% di asiatici, ed il 3,8 di individui di razza mista.

Tale spostamento di equilibri è il risultato di due differenti tendenze. In primis, fra il 2018 ed il 2060 le combinate minoranze razziali continueranno ad aumentare, crescendo di 74 punti percentuali. In secondo luogo, durante questo lasso di tempo, la sempre più vecchia popolazione bianca vedrà per il 2024 un modesto aumento immediato, seguito da un declino a lungo termine sino almeno al 2060, conseguenza di un tasso di mortalità inferiore a quello di natalità.

Fra le diverse minoranze, la maggiore crescita andrà a registrarsi fra individui di razza mista, asiatici ed ispanici, con tassi di crescita fra il 2018 ed il 2060 ammontanti rispettivamente al 176%, 93% ed 86%. L’origine di tale crescita demografica varia rispetto ai differenti gruppi. Per esempio, l’immigrazione contribuisce ad un terzo dell’incremento ispanico, con i rimanenti due terzi attribuibili all’aumento naturale (le nascite che superano le morti). Nel caso degli asiatici, l’immigrazione è legata a tre quarti della prevista crescita numerica.

Queste nuove previsioni differiscono da quelle precedentemente rilasciate nel 2014. Queste ultime collocavano l’avvento della minoranza bianca nel 2044, a causa di un’immigrazione presuntivamente più estesa ed in una più elevata crescita supposta per diversi gruppi razziali. Anche l’incremento nazionale stesso si attestava su livelli superiori nelle previsioni del 2014; si riteneva infatti che gli Stati Uniti avrebbero raggiunto una popolazione di 400 milioni nell’anno 2051, rispetto alle nuove previsioni che spostano tale traguardo avanti di sette anni, fino al 2058.

Dal momento che le minoranze nel loro insieme sono più giovani della popolazione bianca, il punto di svolta arriverà prima per i gruppi di età più giovane. Come mostrato nel terzo grafico, le nuove previsioni indicano che, per i giovani minori di 18 anni di età – la cosiddetta popolazione “post-millennial” – le minoranze supereranno quantitativamente i bianchi già nel 2020. Nella fascia di età compresa fra i 18 ed i 29 anni – i componenti più giovani dell’elettorato e della forza lavoro – la svolta si verificherà nel 2027.

Il verificarsi di questi punti di svolta è previsto soltanto per una fase successiva nel caso delle fasce di età più anziane, con ciò significando che i sessantenni e gli ultra-sessantenni rimarranno a maggioranza bianca anche dopo il 2060. La motivazione di questa differente evoluzione del fenomeno è riconducibile nel breve periodo al persistere dell’influenza del largamente bianco baby boom. Infatti, negli anni che decorrono fra il 2018 ed il 2060, l’unico gruppo di età della popolazione bianca a non subire riduzioni quantitative è proprio quello dei sessantenni e degli ultra-sessantenni, un gruppo che – nel suo complesso – seguita a crescere più rapidamente di ogni altro.

In tutta evidenza, è l’incremento delle giovani e fresche minoranze – attribuibile ad una combinazione di fattori, dall’immigrazione passata e presente al più elevato tasso di natalità fra i più giovani – ad impedire al Paese di invecchiare ancora più velocemente.

Il grafico 4 mostra chiaramente quanto le minoranze diverranno parte preponderante della gioventù americana attraverso il 2060. Allora, i censimenti prospettano che i bianchi costituiranno solamente il 36 % della popolazione di età inferiore ai 18 anni, con gli ispanici attestantisi intorno al 32%. Tali dati contrastano drasticamente con il contributo delle minoranze alla popolazione più anziana, che quantomeno per la sua metà continuerà saldamente a rimanere bianca.

Dal momento che le minoranze razziali costituiranno lo stimolo principale alla crescita della popolazione giovane nel Paese nel corso dei prossimi 42 anni, esse contribuiranno anche a decelerare drasticamente l’invecchiamento della Nazione. Già sin dal 2018, si conteranno fra i bianchi più vecchi che bambini e più decessi che nascite, stando alle attuali stime. Le dinamiche nell’ambito delle combinate minoranze, invece, si manterranno assai differenti fra il 2018 ed il 2060.

Le minoranze costituiranno – nel futuro che ci è dato di intravedere – la scaturigine di tutta la crescita della fetta più giovane della Nazione e della sua forza lavoro, come anche di gran parte di quella dell’elettorato, e di buona parte di quella del bacino dei consumatori e dei contribuenti. Pertanto, la sempre più rapidamente crescente popolazione anziana – largamente bianca – sarà sempre più dipendente dai contributi delle minoranze, sia dal punto di vista economico che assistenziale. Ciò suggerisce più che mai la necessità di persistenti investimenti nella giovane popolazione multirazziale del Paese, laddove il continuo invecchiamento della popolazione stessa appare, in caso contrario, un fenomeno non altrimenti contrastabile.

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SEMINARISTI BRITANNICI AFFERMANO DI VERGOGNARSI E SENTIRE IL “PESO” DELLA COLPA PER ESSERE BIANCHI.

Jack Montgomery

SESSIONI DI AUTOCRITICA: PARTECIPANTI AD UN SEMINARIO ORGANIZZATO DAL SISTEMA SANITARIO BRITANNICO ACCUSANO CON “VERGOGNA” E “SENSO DI COLPA” IL “ PESO” DEL PROPRIO ESSERE BIANCHI.

Fonte: Breitbart

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Un video recentemente emerso relativo ad un seminario organizzato dal Servizio Sanitario Nazionale britannico sul “problema” di “essere bianchi” mostra una discussione al termine della prolusione evolversi in qualcosa di assai simile a una sessione di autocritica di stampo maoista, con tanto di testimonianze dei partecipanti bianchi riguardanti la propria “white-guilt” e gli sforzi compiuti per liberarsi dal “peso” di essere bianchi.

Il Tavistock and Portman National Health Service Foundation Trust, meglio noto per essere, nell’ambito del sistema sanitario statale britannico, uno degli enti principali nel settore delle pratiche di cambiamento di sesso in pazienti minorenni, ha inaugurato in Novembre il seminario virtuale “Whiteness – a problem for our time”, ripetendo tale seminario il successivo 14 Gennaio, dopo che la prima data aveva visto prendervi parte il notevole numero di 700 iscritti.

La fondazione ha postato lunedì, sul proprio canale YouTube, un video integrale del seminario di Gennaio, inclusa una discussione successiva alla prolusione principale nella quale i partecipanti bianchi, la maggior parte dei quali apparivano essere a vario titolo afferenti al campo della psicoterapia, venivano esortati dall’oratrice Helen Morgan a confrontarsi con il proprio “privilegio interiorizzato”, ottenendone in risposta vere e proprie auto-accuse.

Nel video è possibile osservare un oratore venire elogiato per aver rivelato di aver provato “paura” nel dover lavorare con due individui di origine afro-caraibica, ciò nonostante le obiezioni a lui successivamente rivolte da una donna nera per aver utilizzato il termine “afro-caraibici” invece di un probabilmente più corretto “caraibici di origine africana”.

Un altro oratore, invece, confessa di aver provato a ridurre la supposta sperequazione di potere fra lui stesso ed i colleghi di colore chiedendo loro, ad esempio: “Io sono un uomo bianco, e tu una donna nera: è tutto OK per te? Pensi che saremo in grado di collaborare?”

Noi bianchi, in quanto bianchi… dobbiamo lavorare su noi stessi”, afferma un altro partecipante, rammaricandosi che un numero maggiore di bianchi ancora non si risolvano a farsi avanti per sottolineare quanto sia importante che i bianchi stessi “condividano le proprie esperienze ed il proprio razzismo”.

Mi vergogno così tanto, mi sento così colpevole di essere una sudafricana bianca”, ammette una donna particolarmente provata a livello emotivo, rivelando di aver deciso di lavorare per l’African National Congress (ANC) nella propria madrepatria considerandolo una via per “liberarsi dell’opprimente peso della propria bianchezza”, e di essersi “rifiutata di socializzare” con altri sudafricani dopo essersi trasferita nel Regno Unito.

Nel prosieguo del video, vediamo la medesima partecipante rassicurare gli altri iscritti di stare adesso lavorando per “riconoscere” le conseguenze del proprio essere bianca, rivelando comunque non aver senso “sentirsi in colpa per essere bianchi se non si fa poi niente per agire in concreto su ciò che questo comporta”.

Andrew Cooper, responsabile del seminario e membro della fondazione Tavistock, nel corso del suo intervento è chiarissimo nell’individuare nel movimento Black Lives Matter le ragioni ispiratrici del seminario stesso, palesemente su base razziale, e l’oratrice Helen Morgan si mostra altrettanto adamantina nel definire quali siano i destinatari dell’iniziativa e cosa si aspetti da essi, spiegando che “persino noi che ci auto-definiamo bianchi progressisti” ancora seguitiamo ad essere razzisti, “seppur in modo gentile”.

Come prova esemplare del persistente privilegio razziale dei bianchi, vediamo Morgan evidenziare come siano ben più numerose le donne nere che muoiono durante dando alla luce i propri figli rispetto alle partorienti bianche, anche se, denota la stessa Morgan, “la razza è un concetto costruito a tavolino assolutamente privo di fondamenti biologici.”

Con parole nette, Helen Morgan chiarisce però che la “whiteness” è comunque ancora qualcosa di sin troppo reale, anche se la cosiddetta “colour-blindness”, l’approccio che vorrebbe postulare una totale indifferenza relativamente alla questione razziale, non solo si mostra come una soluzione inadeguata, bensì un attivamente nocivo meccanismo difensivo di quello stesso privilegio bianco che a parole si suppone di combattere.

Nel corso del video, ad esempio, ci è possibile ascoltare una donna, presentatasi come un membro del consiglio direttivo dell’organizzazione di psicoterapia a cui appartiene, concordare come la “colour-blindness” di alcune pratiche di formazione sia qualcosa di “decisamente spaventoso, addirittura quasi letale”, poiché costringe le minoranze etniche a sentirsi “maltrattate” e “traumatizzate”, non riconoscendo fenomeni quali le “micro-aggressioni”, da esse regolarmente subite.

Il Tavistock and Portman National Health Service Foundation Trust ha organizzato entrambi i seminari con il patrocinio della British Psychotherapy Foundation, del British Psychoanalytic Council, e della Società di Psicoterapia di Tavistock.

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