SCHOPENHAUER: PERCHÈ PIANGIAMO?

Arthur Schopenhauer

Fonte: Il mondo come volontà e rappresentazione

Traduzione di: SavjLopez, Paolo e De Lorenzo, Giuseppe

Qui è pure il luogo di spiegare un’altra delle più sorprendenti proprietà dell’umana natura, il pianto, il quale, come il riso, appartiene alle manifestazioni ond’è l’uomo distinto dall’animale. Il piangere non è punto, senz’altro, espressione del dolore: imperocché i dolori pei quali si piange sono i meno. Anzi, secondo me, non si piange mai direttamente per un dolore provato, ma bensì sempre per il riprodursi di esso nella riflessione. Cioè, dal dolore provato, pur quand’è corporale, si passa a una pura rappresentazione di esso, e si trova allora sì compassionevole il proprio stato, che, se altri fosse a soffrire, siamo fermamente e sinceramente persuasi che l’aiuteremmo con tutta pietà e amore. Ma intanto siamo noi stessi l’oggetto di quella nostra sincera pietà: col più soccorrevole animo sentiamo d’essere proprio noi i bisognosi d’aiuto; si sente di patir più di quanto potremmo resistere a veder patire un altro; e in tal situazione singolarmente complessa, in cui il dolore direttamente sentito ritorna alla percezione sol con un doppio rigiro, rappresentandocisi come estraneo, come tale compassionato, e quindi immediatamente ripercepito come nostro, la natura si da sollievo mediante quella strana convulsione corporea. Il pianto è adunque pietà di se stesso, ossia pietà che torna indietro al suo punto di partenza.

Perciò esso ha per condizione la capacità dell’amore e della compassione, e la fantasia; quindi né uomini duri di cuore né uomini privi di fantasia piangono facilmente, ed il pianto vien’anzi ognora considerato come segno d’un certo grado di bontà del carattere, e disarma l’ira, perché si sente, che chi può ancora piangere, deve per necessità essere anche capace d’amore, ossia di pietà verso altri; questo essendo che ci mette, nella maniera descritta, in quella disposizione la quale al pianto conduce. Affatto conforme a questa spiegazione, è il modo come Petrarca, esprimendo spontaneo e vero il proprio sentimento, descrive l’origine delle sue lagrime: I’ vo pensando: e nel pensar m’assale Una pietà sì forte di me stesso, Che mi conduce spesso Ad alto lagrimar, ch’i’ non soleva. Quanto abbiam detto trova conferma nel fatto che bambini, i quali abbian patito un dolore, si mettono di solito a piangere solo quando li si compassiona; ossia non per il dolore, ma per la rappresentazione di esso.


Quando noi non siam mossi al pianto da nostri, bensì da altrui dolori, ciò accade perché vivacemente ci mettiamo con la fantasia al posto di chi soffre, oppure nel suo destino scorgiamo la sorte dell’umanità intera e quindi principalmente di noi stessi; e così per un ampio giro pur sempre veniamo a piangere su di noi, di noi abbiam pietà. Questo sembra anche essere il motivo principale del comune, e quindi naturale, pianto nei casi di morte.

Chi piange un morto non piange ciò che ha perduto; che si vergognerebbe di lagrime sì egoiste; mentre invece a volte si vergogna di non piangere. Piange in primo luogo invero la sorte del defunto: nondimeno piange anche quando in seguito a lunghe, gravi e insanabili sofferenze la morte è per quegli una desiderabile liberazione. Principalmente lo stringe adunque compassione per il desti-no dell’umanità intera, la quale è in potere d’un fato di morte, in cui ogni vita per quanto attiva e spesso ricca d’azioni dovrà spegnersi e ridursi al nulla.

E in questo fato dell’umanità egli vede soprattutto il fato proprio: tanto più, quanto più vicino era a lui il morto: più che mai, quanto il morto era suo padre. Fosse pure a quest’ultimo per età e malattia divenuta un tormento la vita, fosse pure il padre nel suo stato d’impotenza ridotto un carico grave per il figlio, questi piange pur sempre viva-mente la sua morte: per il motivo che s’è detto.

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LA STORIA E IL RUOLO DELL’INTELLETTUALE

Edoardo Gagliardi

Bisogna dirlo con chiarezza cristallina: da tempo ormai molti intellettuali sono una palla al piede per il popolo, anziché produttori di teorie e visioni del mondo. Questo fatto ha ragioni storiche molto addietro nel passato; l’intellettuale di oggi, sempre pronto a comparsate televisive per piazzare la sua merce, non nasce con il capitalismo, suo terreno di coltura/cultura, ma al contrario con l’intellettuale-militante di sinistra.

Già Antonio Gramsci intuisce la centralità della cultura come arma indispensabile per conquistare le masse. Non più la repressione o la violenza fisica, ma la penna e la persuasione delle parole sono elementi necessari per portare il popolo dalla propria parte. Gramsci certamente aveva grandi ambizioni e non dubitiamo della sua buona fede, tuttavia quello che da Gramsci in poi sarà l’intellettuale (e non solo a sinistra) sarà una figura in buona parte nociva, per la società e per la gente.

In un certo senso l’intellettuale esisteva anche prima di Gramsci e dell’ascesa dei grandi partiti di massa, tuttavia il suo impatto era limitato in termini di fruizione pubblica: l’Europa del XVIII e del XIX secolo ad esempio era un luogo in cui coloro che sapevano leggere e scrivere erano una minoranza rispetto alla massa incolta delle persone. Questo fatto si risolveva in una circolazione del lavoro intellettuale solo presso le corti aristocratiche e un ristretto numero di persone alfabetizzate.

Accanto a questo la società Europea del tempo non aveva ancora visto la nascita dei partiti politici, grandi abbastanza da essere chiamati “di massa”, non esisteva l’opinione pubblica.

Una situazione del genere è stata spesso dipinta come negativa, illiberale, oscurantista, in realtà – come si capirà – era una società che, pur nella sua ignoranza diffusa, ha fatto – intellettualmente parlando – molti meno danni rispetto a quella successiva e a quella che viviamo oggi.

Ad un certo punto della storia, come ci racconta bene Gustave Le Bon, la massa irrompe sulla scena politica, sociale e culturale. Fin da subito molti comprendono che questa massa è un qualcosa di cui approfittare: c’è chi lo fa per motivi meramente ideologici e chi lo fa perché intuisce che la massa è pronta a consumare, senza una massa popolare non vi può essere consumismo. Inizialmente però i tempi erano fortemente politicizzati, si tende quindi a vedere la massa come potenzialmente esplosiva, la si vuole utilizzare per fini rivoluzionari. Nella mente di molti intellettuali e teorici campeggia il mito della Rivoluzione bolscevica come appunto evento di massa, azione reale e al tempo stesso simbolica in cui il popolo-massa agisce per prendere il potere.

A questi intellettuali non sovviene nemmeno per un momento che la rivoluzione bolscevica possa essere stata in realtà un fenomeno portato a termine da una (piuttosto piccola) fazione politico-militare, o che essa sia stata ampiamente sostenuta economicamente e politicamente dall’esterno. Quello che agli intellettuali interessa è che la grande massa è strumentalizzabile, utilizzabile a proprio piacimento e necessità.

Il pericolo che l’intellettuale possa scadere nel delirio di onnipotenza egoistica era ben presente a Gramsci, il quale avverte che l’intellettuale è una parte importante del partito politico; egli infatti lavora per formare la coscienza di classe del popolo, ma deve attenersi alla disciplina ed alle direttive del partito. Qui ancora non ci sentiamo di dubitare della buona fede del filosofo italiano.

L’intellettuale organico al partito però funzionò in un certo senso soltanto in quei Paesi che avevano un regime socialista e comunista, ben altra cosa accadde nei Paesi occidentali in cui la forma di governo non era socialista e in cui i comunisti, seppur numerosi, erano sempre all’opposizione. Ci limiteremo qui ad analizzare questi Paesi, visto che questo discorso riguarda anche l’Italia.

Nei Paesi in cui i partiti comunisti non andarono al potere si realizzò tuttavia l’assunto gramsciano di conquistare il popolo attraverso la cultura: la sinistra infatti dal dopoguerra in poi, riuscì ad impossessarsi del cinema, della letteratura, delle università, di tutti quei luoghi dove si produce cultura. A differenza di oggi allora si pensava che la cultura dovesse essere di massa, dovesse influenzare il popolo, in un certo senso elevarlo. Ad onor del vero bisogna dire che dall’altro lato, la destra, profondamente colpita dopo la fine del conflitto mondiale, non trovò di meglio che ripiegarsi in uno sterile conservatorismo atlantista, oppure a supportare partiti il cui principale obiettivo era quello di avvantaggiare in tutti i modi i ricchi a scapito dei poveri.

Foraggiato da denari del partito o di provenienza sovietica, l’intellettuale “di sinistra” diventa militante, ma non nel senso che milita per il partito o per il popolo, ma perché milita per sé stesso. Egli si allontana progressivamente dall’assunto gramsciano di intellettuale organico, per diventare un soggetto che, con la pretesa di essere il portavoce del popolo-massa, non fa che riversare le proprie paranoie nella società, facendole passare per “cultura”.

È singolare e in apparenza paradossale – ma non deve stupire – che una larga parte di intellettuali di quegli anni fosse composta da persone che alla vita dello studio e della ricerca si dedicavano molto poco, preferendo il trambusto delle manifestazioni e il “6 politico” alle letture e al tempo passato sui libri.

Qui bisogna chiarire un equivoco duro a scomparire, e cioè che l’intellettuale abbia a cuore i problemi e la vita delle persone. Niente di più lontano dalla realtà. Salvo casi rari e lodevoli, la gran parte degli intellettuali, come già accennato, ha come scopo quello di utilizzare la massa come strumento consumistico-ideologico: più è larga la massa, più sarà grande il riscontro economico della mercanzia che vuole piazzare. Una buona parte di intellettuali, di fatto, odia il popolo. Si tratta di un odio derivante da una consapevolezza dei propri mezzi. Come non si può odiare un popolo che acquista i prodotti di un affabulatore credendoli originali e sinceri? L’intellettuale questo lo sa e come ogni buon borghese vive la scissione tra l’essere il megafono del popolo e al tempo stesso il sacerdote di una casta pseudoaristocratica.

Eppure fino al 1989 c’era il comunismo che costringeva l’intellettuale a rimanere sui binari di quello che il partito e l’Unione Sovieta imponevano. Ma nell’aria c’era già il cambiamento, cosa che molti intellettuali avevano già compreso con un decennio di anticipo, quando capirono che era più conveniente per la loro sete di potere e prebende passare dalla rivoluzione bolscevica ad una versione più soft del socialismo, una sbiadita socialdemocrazia. Non è un caso che il successo dei partiti socialisti in Europa arrivi proprio negli anni ’80 del XX secolo, quando inizia il declino del comunismo.

Il cambio di casacca, ancora nell’alveo della sinistra, permette all’intellettuale di continuare a vivere in agiatezze economiche e ad emanciparsi dalle ristrettezze del dogma politico sovietico.

Dopo l’implosione del sistema sovietico per l’intellettuale si aprono praterie infinite: ora è finalmente libero di saltare da sinistra a destra, passando per il centro e viceversa, senza che nessun partito, Stato o dogma politico possa impedirglielo. L’era dei partiti di plastica arriva come una manna dal cielo per l’intellettuale: in un partito dove il nulla regna sovrano, l’intellettuale è libero di sguazzare in quel nulla a dispetto di ogni logica, etica professionale e rispetto per la gente.

L’onnipotenza non finisce qui ovviamente, l’intellettuale oggi crea partiti e movimenti sui social network, si presenta come sacerdote di un nuovo pensiero sincretico, spesso frutto di una mistura di pensieri di autori precedenti, attentamente filtrati per evitare di disturbare questo o quel potere di turno. L’autocensura è essenziale, altrimenti non potrebbe essere invitato un giorno sì e l’altro pure nelle trasmissioni TV, dove curiosamente si parla di tutto tranne che di lavoro intellettuale.

Ci teniamo a precisarlo bene: l’intellettuale di oggi non ha colore o credo politico, si raccoglie laddove si crea uno spazio di consenso politico-consumistico e cerca di sfruttare tale spazio fino a che può. Poi, una volta disseccata tale area, si rivolge ad un’altra, adducendo come motivazione l’elaborazione di un pensiero nuovo.

L’intellettuale odierno è una contraddizione vivente: egli indica e invoca dei paradisi in terra in cui lui non vivrebbe mai; parla di redistribuzione della ricchezza, che però è sempre degli altri mai la sua; parla di meritocrazia, quando spesso i criteri di selezione che lo hanno portato nelle posizioni che occupa sono quanto di più antimeritocratico ci possa essere. E il popolo continua ad acquistare la sua mercanzia, credendo – spesso in buona fede – di essere di fronte ad un faro che saprà indicargli la strada da percorrere.

Il meno intellettuale tra gli intellettuali è forse quello che ha compreso nel migliore dei modi quello che abbiamo detto ad inizio capitolo: che l’intellettuale è un freno all’emancipazione mentale, fisica, economica e spirituale di un popolo. Parliamo di Georges Sorel, il quale ci ricorda che gli intellettuali «dopo aver risolto tutti i problemi cosmologici, amano considerarsi come capaci di risolvere tutte le difficoltà quotidiane. Da questo stato mentale deriva la stupida fiducia nelle soluzioni degli “uomini illuminati”»1.

Sorel vedeva una contraddizione insanabile in una casta di soggetti, gli intellettuali che dall’alto dei loro privilegi borghesi, economici e politici, avrebbero dovuto interpretare i bisogni del popolo e tramutarli in azione politica. Non possiamo non chiederci come possa convenire oggi ad un intellettuale – qualunque sia il credo e colore politico professato e inserito pienamente nel sistema – il cambiamento di sistema? Una gabbia per il popolo dal quale egli trae i maggiori benefici.

La risposta la affidiamo ancora a Sorel: «gli intellettuali vogliono persuadere i lavoratori che il loro interesse è portare essi stessi (gli intellettuali) al potere e accettare la gerarchia delle capacità, che subordina i lavoratori ai politici».2

In questo senso l’intellettuale è un parassita che vive grazie alle necessità e ai bisogni della massa, sempre pronto a sfruttare tale bisogni per la propria sopravvivenza. Al tempo stesso l’intellettuale sfrutta la politica per i propri vantaggi personali. Per Sorel nella società «non c’è posto per sociologi, per persone alla moda favorevoli al riformismo e per gli intellettuali che hanno abbracciato la professione del pensare per il proletariato».3

Il punto è che Sorel rimane ancora un uomo del suo tempo, possiamo solo immaginare quanto il disprezzo per questa classe di privilegiati potrebbe aumentare qualora egli vedesse la condizione dell’intellettuale oggi. Eppure, nonostante i suoi limiti, il pensiero di Sorel sugli intellettuali coglie nel segno, nel senso che ci fa comprendere come prima ci svegliamo dalla grande presa per i fondelli degli intellettuali e meglio sarà per il genere umano.

In conclusione è doveroso rimarcare un concetto: l’analisi fin qui proposta non vuole affato screditare il lavoro di tante persone che fanno un lavoro di intelletto, e crediamo fermamente che queste persone, in quanto intelligenti, non amerebbero essere annoverate nella categoria di intellettuali. Al contrario lo scopo di questo capitolo è quello di narrare la traiettoria dell’intellettuale nella società moderna e contemporanea, in particolare di metterne in evidenza le degenerazioni e l’intima essenza.

1 Carl Boggs, Intellectuals and the Crisis of Modernity, New York, NY, State University of New York Press, 1993, p.47.

2 Ibidem, p.48.

3 Ibidem, p.48.

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