L’IDENTITÀ DEI POPOLI È UNA QUESTIONE METAPOLITICA

Edoardo Gagliardi

Il prefisso meta applicato alla parola politica sta ad indicare un concetto che va oltre la politica, oppure la precede. Si potrebbe anche dire che la metapolitica è un qualcosa di prepolitico, nel senso che viene prima di qualunque discorso sulla politica.

Che cosa si intende quindi quando si afferma che l’identità etnico-razziale dei popoli è qualcosa di metapolitico anziché di politico? Lo si spiegherà con un esempio.

Nel mondo esistono numerosi partiti indipendentisti, queste formazioni hanno per la gran parte l’obiettivo di conquistare l’indipendenza per un territorio, una comunità, una nazione. L’indipendentismo si batte contro il dominio coloniale di una forza occupante. Ora, riprendendo quanto detto sopra, l’indipendentismo è un concetto metapolitico. L’indipendenza di una nazione è alla base di qualunque discorso politico successivo. Rendiamolo con parole ancora più semplici. All’indipendentista, grosso modo, non interessa tanto essere di destra, sinistra o centro; e non interessa nemmeno che tipo di ideologia abbia un governo (sinistra, destra, centro); egli si batte per l’indipendenza, un concetto metapolitico, in quanto è alla base di qualunque scelta successiva. Per questo una volta ottenuta l’indipendenza sarà quel popolo reso libero a scegliere i partiti che dovranno governare, e chi mandare al governo.

Certamente esistono partiti indipendentisti caratterizzati ideologicamente e collocati in una parte determinata dello spettro politico, tuttavia tale scelta viene spesso fatta per avere maggiore identificazione con un certo elettorato e, di fondo, non cambia l’obiettivo: l’indipendenza.

Detto questo, possiamo spostare il discorso sull’ambito identitario, nel senso di difesa delle caratteristiche etnico-razziali di un popolo.

Una forza che si batte per preservare tali caratteristiche dovrebbe essere una forza metapolitica e non strettamente politica. Ciò significa che in prima istanza quello che conta è che la società etnicamente e razzialmente determinata conservi la propria omogeneità. Senza questo aspetto il discorso politico non ha molto senso, perché monco alla base.

Come si può costruire una casa senza solide fondamenta? Certo, la si può costruire su fondamenta fragili ed è quello che fanno coloro che invertono l’ordine degli elementi, ma questo lo illustreremo tra poco.

Dunque l’aspetto etnico-razziale dovrebbe collocarsi su un piano assolutamente prepolitico, perché qui non si tratta di votare questo o quel partito e nemmeno di costituire un governo, si tratta di una visione del mondo, la weltanschauung di un popolo, la concezione del mondo che si vuole adottare per la propria civiltà.

L’obiettivo di una strategia politica che sappia difendere, preservare e promuovere le differenze e le identità dovrebbe partire dal presupposto che senza mantenere l’omogeneità etnico-razziale (almeno alla percentuale più alta possibile) un Paese è destinato a dissolversi e a quel punto ci sarà poco da difendere, promuovere e preservare.

Qui conviene dirlo chiaramente: l’omogeneità di una comunità non può essere perseguita per via politica, non è materia di un partito politico, ma è un obiettivo di una forza metapolitica, è qualcosa che va al di là della politica.

Infatti, come detto poco sopra, la politica oggi adotta un ragionamento che è l’esatto opposto di quello descritto in questo capitolo. Per la gran parte dei partiti e movimenti politici quello che conta è la collocazione politica, il colore partitico, le ideologie, la religione. Intendiamoci, questi elementi sono importanti, non lo si vuole negare. Quello che qui si vuole rimarcare è che questi elementi – politici appunto – vengono dopo il concetto metapolitico.

Poniamo una domanda riguardo il tema sensibile dell’immigrazione, di cui spesso se ne fa una questione religiosa. Orbene, se un giorno ci dovessero essere 10 milioni di africani cristiani (cattolici o protestanti) pronti a sbarcare sulle nostre coste, sarebbe diverso dall’avere 10 milioni di africani di cui non si conosce l’affiliazione religiosa, pronti comunque ad approdare nel nostro paese?

La risposta a questa domanda è no, non ci sarebbe nessuna differenza. Il motivo è che lo scenario descritto sopra va inquadrato da un punto di vista metapolitico e non religioso.

Se un giorno ci dovessero essere 10 milioni di mediorientali che si dichiarano dello stesso credo politico di un partito al governo di un paese occidentale, avrebbero questi diritto a soggiornare per sempre in quel paese rispetto a 10 milioni di mediorientali di cui non si conosce il credo politico, pronti comunque a muoversi in massa in quel paese?

Anche qui la risposta deve essere ancora no, non ci sarebbe nessuna differenza.

La questione quindi non è politica o religiosa, tantomeno partitica, è metapolitica. Ma si badi bene, non si sta dicendo che le ideologie politiche o le fedi religiose non siano necessarie, al contrario! Esse sono fondamentali. Ma è il contesto, la base, lo sfondo su cui tali ideologie e religioni vengono collocate che è importante.

Converrà fare un altro esempio per chiarire questo punto.

La Svezia in questi ultimi anni sta conoscendo un cambiamento traumatico e radicale della sua componente etnica e razziale. Le autorità politiche fanno fatica a non parlare dell’aumento della criminalità che è cresciuta costantemente da quando nel paese vengono riversati migliaia di immigrati. Eppure la Svezia non è sempre stata il luogo sfortunato di cui si parla oggi nelle cronache dei media.

Fino a buona parte degli anni ’80 del XX secolo la Svezia è stata un paese per la gran parte etnicamente omogeneo. Le autorità svedesi, socialdemocratiche, misero in atto alcune leggi sull’immigrazione che ridussero per esempio l’afflusso di immigrati non-nordici; se nel paese vi erano disoccupati in grado di fare lavori di cui c’era necessità, non si sarebbero concessi permessi per stranieri.

Nonostante l’ideologia che poi avrebbe operato la mutazione del tessuto etnico-razziale della Svezia come la vediamo oggi fosse già presente, tuttavia il paese si manteneva etnicamente omogeneo.

Questo esempio ci dimostra due cose essenziali:

  1. Che il colore politico o la fede religiosa di chi detiene il potere non ha fondamentale importanza se la struttura e l’essenza della società si mantiene etnicamente omogenea, almeno in un’alta percentuale.
  2. Che il colore politico e la fede religiosa non hanno importanza fino a che non vanno a colpire il concetto metapolitico di identità etnico-razziale dei popoli. In altre parole non vanno a nullificare la base e la struttura di una società omogenea.

Il problema sorge nel momento in cui le ideologie politiche e le fedi religiose lavorano, singolarmente o di concerto, per distruggere l’essenza metapolitica di una comunità, rimuovendo l’omogeneità etnica e razziale. In sostanza sostituiscono l’ordine degli elementi: facendo questo portano le società e i popoli allo scontro, all’intolleranza e all’estinzione.

Per questo diciamo: quando la casa ha solide fondamenta, lo stile con cui viene costruita l’abitazione può essere diverso, può essere scelto in base alle esigenze di un popolo, può essere l’espressione consapevole di una comunità unita. A patto però che la varietà degli stili non vada contro e metta in pericolo le fondamenta dell’abitazione.

Il concetto qui espresso è anche dettato da una necessità storica. In un mondo che ha perso i concetti di solidarietà e di comunanza tra le persone; in una società sempre più atomizzata e individualista, non si può contare più sulle masse, ormai scomparse. Quello che è importante fare oggi è cercare di unire le persone attorno a delle idee metapolitiche che sappiano andare al di là delle mere divisioni ideologiche e religiose. L’essere parte di una comunità etnico-razziale consapevole e unita dovrebbe avere la priorità sulle divergenze politiche e religiose.

Tuttavia oggi si assiste al contrario, ci si accanisce sulle differenze politiche e religiose e si sorvola su quelle etniche e razziali. La realtà di questa tendenza è palese: i popoli stanno scomparendo, le identità si dimenticano, il melting pot cresce a dismisura. Per ironia della sorte, tentando di salvare le ideologie politiche e la religione rifiutando l’omogeneità etnico-razziale, si porta alla distruzione proprio della politica e della religione.

È singolare notare che proprio coloro che dicono di voler difendere le identità poi cadono in questo tranello (il)logico, scambiare l’ordine dei concetti, producendo un cortocircuito insanabile. Poco importa che lo facciano consapevolmente o in maniera ingenua.

Lasciamo parlare gli esempi delle nazioni poco distanti dalla nostra. La Francia ha una lunga tradizione di immigrazione, cominciata dopo la scellerata colonizzazione dell’Algeria. I nazionalisti francesi, una buona parte di essi, hanno messo la religione e il colore politico davanti all’identità etnico-razziale. Ebbene oggi ne vediamo le conseguenze con una drammaticità cristallina: in Francia i musulmani stanno diventando sempre di più e i cattolici sempre meno; i partiti che dovrebbero difendere l’identità del popolo francese non sono altro che gruppi di interesse economico-politico dediti alla propaganda, che certamente può aiutare a raccattare qualche voto in più, ma condanna il popolo francese alla sparizione. I dati francesi sulla demografia dimostrano che, pur volendo mettere al primo posto l’ideologia e la religione, non si è riuscito a conservare né l’una né l’altra, dando il colpo di grazia all’identità etnico-razziale.

In Francia oggi ci sono oltre 8,000,000 milioni1 di stranieri (persone nate all’estero), bisogna contarne almeno il doppio se si includono i cittadini francesi non etnici o persone che sono nate in Francia da genitori stranieri. Forse tutto questo si sarebbe potuto evitare se non si fossero invertiti gli elementi da considerare nel loro proprio e logico ordine; forse oggi staremmo parlando di una Francia diversa. Il destino della Francia potrebbe toccare anche ad altre nazioni, visto che la tendenza sembra essere quella, accanto all’incapacità (o alla mancanza di volontà) delle classi dirigenti e intellettuali.

1 https://www.statista.com/statistics/548869/foreign-born-population-of-france/

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PER UN APPROCCIO REALISTICO ALL’IMMIGRAZIONE

Edoardo Gagliardi

Quando si parla di immigrazione lo si fa in maniera errata. L’errore deriva sostanzialmente dall’approccio istintivo e sentimentale alla questione. Da un lato vi sono quelli che vorrebbero l’apertura di ogni confine, l’annullamento di ogni differenza, il meticciato mondiale. Dall’altro quelli che, credendo di opporsi ai primi, vorrebbero “sparare” sulle carrette del mare per fermare l’immigrazione. Inutile dire che entrambe le impostazioni sono sbagliate e controproducenti. Lo sono perché non puntano ad affrontare il problema nella sua totalità, al contrario si basano su una visione istintuale della questione.

Quello che si vuole proporre in questo capitolo è invece un approccio che chiameremo realistico all’immigrazione. In molti Paesi il nodo della questione non è solo come impedire l’arrivo in massa di milioni di allogeni, ma anche il modo in cui gestire la questione degli allogeni già presenti all’interno di quei Paesi. Dobbiamo immaginare che una comunità umana assomiglia in molti aspetti ad un organismo, un corpo che funziona in maniera armoniosa e con regole sue proprie. Che cosa accade quando all’interno di un organismo è presente un corpo estraneo? In molti casi l’organismo si ammala. Vi è dunque la necessità di ridurre e rimuovere la causa dello stato patologico.

Ora, i modi per raggiungere tale obiettivo sono sostanzialmente due: 1) l’eliminazione e 2) la segregazione. Non se ne vedono altri e, se ci sono, sono il frutto di proposte dettate da un modo sentimentale di risolvere la questione. Vediamo di analizzarli entrambi in maniera più dettagliata.

L’eliminazione di un corpo allogeno può avvenire in tre modalità: A) eliminazione attraverso la distruzione; B) eliminazione attraverso l’espulsione; C) eliminazione attraverso l’assimilazione.

A) Eliminazione attraverso la distruzione. Questo metodo prevede l’annichilimento totale del corpo estraneo, la storia dell’umanità ci mostra numerosi esempi di questo approccio. Si è detto sopra che la nostra analisi ha carattere realistico, per questo motivo l’eliminazione tramite distruzione non è una via praticabile, oltre ad essere moralmente deprecabile, non tanto per ragioni religiose, quanto per motivi legati ad un rispetto intrinseco della vita umana. Oltre a questo, la distruzione non può che portare ad altra distruzione, l’assoluto contrario dell’obiettivo che ci si vuole porre: la salvaguardia dell’organismo. La motivazione che deve muovere una risoluzione concreta del problema immigrazione deve essere la protezione e la salvaguardia della comunità umana, per tale motivo uno scontro frontale non porterebbe a nulla di positivo.

B) Eliminazione tramite espulsione. In questo caso il corpo estraneo viene rimosso spingendolo il più lontano possibile dall’organismo. Il risultato finale dell’espulsione dovrà essere quindi la riduzione a significativa minoranza di un corpo estraneo, oppure alla rimozione totale del corpo estraneo dall’organismo. Torneremo più avanti su questo punto.

C) Eliminazione tramite assimilazione. Questa modalità prevede che il corpo estraneo, nel tempo, si assimili all’organismo ospitante, in modo da attenuare tutte le differenze e rendere il corpo estraneo simile a quello che ospita.

Questo approccio è supportato da molti di coloro che si propongono di risolvere il problema immigrazione evitando le derive immigrazioniste. Le problematicità dell’assimilazione si trovano nel fatto che molti elementi allogeni non si assimilano, fanno finta di assimilarsi o si assimilano in maniera molto parziale. La storia è piena di esempi in cui popoli ospiti, spesso sotto costrizione, hanno ritenuto opportuno optare per l’assimilazione, salvo poi mantenere di nascosto i propri costumi e le proprie peculiarità. Si vede quindi che questa strada non è praticabile.

Per quanto concerne la segregazione, essa si divide in due modalità: A) segregazione senza riconoscimento; B) segregazione con riconoscimento.

A) La segregazione senza riconoscimento consiste nell’isolare un corpo estraneo in una parte ben definita dell’organismo ospitante, senza però né riconoscerlo né garantire dei diritti basilari. Qui si comprende benissimo come si possa presentare il problema delle continue frizioni violente tra l’organismo e gli allogeni. La vita nell’organismo principale diverrebbe quindi impossibile e metterebbe in pericolo entrambe le comunità, tanto quella nativa che quella ospite. L’idea che si possa segregare un corpo estraneo all’interno di un organismo e, ancora di più, tenerlo soggiogato, è una chimera. Allo stesso tempo si tratta di un dispendio di energie che l’organismo utilizza per tentare di controllare e stabilizzare il corpo estraneo.

B) La segregazione con riconoscimento. Si tratta di una forma soft della segregazione sopradescritta, in cui al corpo estraneo viene garantito un riconoscimento e certi diritti, tuttavia senza che questo possa venire in contatto con l’organismo ospitante. Gli Stati Uniti fino agli anni ’60 del XX secolo hanno sperimentato questa forma di segregazionismo, ma con scarsi risultati. Il segregazionismo è una forma di maquillage che può far apparire un corpo gradevole, ma non ne elimina i problemi all’interno. Nonostante il riconoscimento ed alcuni diritti, il segregazionismo implica comunque la permanenza del corpo estraneo all’interno di quello principale. Gli allogeni segregati tenderanno sempre a voler mutare la propria condizione, a cercare di allargare il territorio a loro disposizione, con conseguenti conflitti più o meno violenti. Fatta questa breve esposizione delle modalità con cui affrontare il problema dell’immigrazione, appare evidente che l’unica soluzione auspicabile e realistica sia quella dell’espulsione. Qui però conviene rispondere ad alcune obiezioni che possono essere mosse a questo approccio e che sono certamente legittime. Il corpo estraneo espulso potrebbe ritornare a minacciare l’esistenza dell’organismo. Questo è sicuramente vero, ma spetta all’organismo dotarsi degli anticorpi teorici e pratici per scoraggiare il ritorno del corpo estraneo. Se un estraneo vuole entrare nella nostra abitazione, la prima cosa da fare è chiudere la porta principale e poi le finestre. E se tutto questo non bastasse, si potrebbe invocare l’intervento di forze che sono preposte ad impedire che estranei entrino all’interno di un’abitazione. Vi è poi la questione dei costi: l’allogeno che prova a ritornare deve pagare per spostarsi dal luogo in cui si trova a quello in cui vuole rientrare. Più elevate sono le distanze più il viaggio costa. Ad un certo punto diviene sconveniente, quando non impossibile, spostarsi. L’espulsione poi permetterebbe al corpo estraneo di allocarsi in un’area geografica – e in una dimensione antropologica – in cui vivere la propria vita, sviluppare i propri costumi, senza l’eventualità di continue frizioni con l’organismo principale. Anche in questo caso la storia è “maestra di vita”. Numerosi sono stati i casi in cui un organismo ha espulso corpi estranei dal proprio interno con un certo successo. L’errore è stato quello però di reintegrare i corpi estranei dopo qualche tempo, vanificando tutto quello fatto in precedenza. L’espulsione non può essere una scelta temporanea, al contrario essa deve essere definitiva e poggiare su un punto cardine fondamentale: la salvezza dell’organismo come priorità esistenziale e identitaria. Inquadrata in questo modo l’espulsione ha una sua ragion d’essere metapolitica oltre che semplicemente politica. Altra obiezione all’espulsione è l’argomentazione secondo la quale il corpo estraneo potrebbe continuare ad influenzare negativamente l’organismo principale anche a distanza. In una società interconnessa come quella contemporanea, in cui le comunicazioni telematiche sono addirittura più importanti di quelle reali, questo problema esiste e non lo si può negare. Ma qui ancora una volta giova ricordare che spetta all’organismo di sviluppare quegli strumenti-anticorpi per evitare influenze destabilizzanti dall’esterno. Un organismo con forti e durevoli anticorpi non solo è in grado di prevenire le patologie, ma è altrettanto in grado di irrobustire la propria identità. L’espulsione risulta quindi come una delle modalità più realistiche per affrontare l’immigrazione e le questioni da essa sollevate. Lo vogliamo chiarire: l’immigrazione va affrontata in modo realistico e razionale, senza cedimenti a sentimentalismi che, tra l’altro, non sono che strumentalizzazioni che non hanno assolutamente a cuore né i locali né gli allogeni.

L’approccio che abbiamo definito realista permette quindi di inquadrare il problema senza cedimenti all’istinto; ci aiuta altresì a capire quale metodo può essere più efficace per garantire ad una comunità la propria sopravvivenza come organismo specifico. Qui però si pone un problema di natura anche politica: non possiamo aspettarci nessun passo in avanti, nessuna prospettiva realista all’immigrazione con i regimi liberali e progressisti al potere da un lato e le forze conservatrici e populiste dall’altro, che spesso fanno finta opposizione. Entrambi si dimostrano incapaci di affrontare il problema per varie ragioni, alcune delle quali sono:

  • Negazione del problema.
  • Sottovalutazione del problema.
  • Non volontà di affrontare il problema
  • Strumentalizzazione del problema

L’aspetto più perverso è senza dubbio la strumentalizzazione del problema immigrazione. Da una parte l’immigrazionista liberale e progressista ha una precisa agenda che è quella di cancellare qualsiasi identità di popolo, rimpiazzandola con un’indefinibile mescolanza utopistica; dall’altro i conservatori e populisti strumentalizzano il malcontento della gente proponendo soluzioni buone per le campagne elettorali, ma totalmente inapplicabili una volta giunti al governo. La questione è che, per gli uni e per gli altri, l’allogeno è uno strumento per realizzare i loro fini ideologici, elettorali e di potere politico-economico. Fino a quando l’approccio all’immigrazione sarà basato su questi presupposti, non vedremo mai una chiara e realistica soluzione. Se dagli immigrazionisti ovviamente non ci si può aspettare diversamente, quello che spiace è che anche da coloro che si dicono contrari all’immigrazione non si riesce ad andare oltre gli slogan e l’uso strumentale-propagandistico della questione.

Per questo motivo noi ribadiamo l’assoluta necessità che l’immigrazione sia inquadrata innanzitutto come problema e che poi sia analizzata in maniera realistica, proprio per evitare che venga risucchiata nel grande calderone politico-mediatico della strumentalizzazione. L’immigrazione è un problema “reale” che non può essere trattato con gli strumenti della retorica. Noi ci proponiamo di parlare senza cadere nel politically correct, bisogna iniziare a mettere sul tavolo i problemi e a guardarli in faccia.

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