Bild, quotidiano ritenuto il più apprezzato dai lettori tedeschi, ha analizzato i risultati di uno studio condotto dal Brottsførebyggande rådet, il Comitato Svedese per la Prevenzione del Crimine, sulla violenza legata alle armi da fuoco. Collegando gli esiti della ricerca ad altre note tendenze che interessano il Paese scandinavo, quali le gang ed il narcotraffico, la giornalista di Bild Ingrid Raagaard ha concluso che “le cose non possono più andare avanti così”.
“Nell’Unione Europea, una media di otto persone per milione cade ogni anno vittima di crimini violenti. In Svezia, tale dato si attestava intorno ai dodici morti assassinati ogni milione di abitanti. Concentrandosi sulle vittime di armi da fuoco, la differenza fra l’Europa e la Svezia si fa ancor più ampia. Se l’Unione Europea conta infatti una media di 1,6 uccisi con armi da fuoco ogni milione di abitanti, in Svezia se ne contano 4, quasi tre volte di più”, scrive Raagaard.
“Il divario aumenta ancor di più focalizzandosi sulla fascia d’età 20-29 anni. Nella maggior parte dei Paesi europei, il dato si attesta fra gli zero ed i quattro morti assassinati per milione; in Svezia, invece, ammontano addirittura a 18. In seconda posizione si attesta l’Olanda, che conta ‘solamente’ sei morti nel menzionato range anagrafico.
Raagaard colloca la preoccupante svolta intorno all’anno 2005, e da allora la situazione non ha fatto che peggiorare. Adesso, infatti, si contano circa 60 no-go zones in tutta la Svezia, situate perlopiù negli hinterland delle grandi città quali Stoccolma, Malmö, Göteborg, aree in cui il crimine allogeno regna incontrastato, e le forze dell’ordine non osano addentrarsi.
I media mainstream si ostinano cocciutamente ad insistere che non vi siano ‘no-go zones’ di immigrati in Svezia, preferendo piuttosto parlare di ‘aree vulnerabili’. “Sempre più svedesi temono per le proprie vite, poiché spesso sono proprio semplici innocenti passanti a cader per primi vittime delle guerre fra gang”, continua Raagaard.
InfoWars Europe documenta con regolarità il dilagare del crimine in Svezia ed i preoccupanti eventi che la interessano, ancor più angosciante se si pensa che il Paese scandinavo – sino a non molto tempo fa – era considerata una delle nazioni più sicure e progredite del mondo.
Ecco le aree di Londra dove il 50% dei residenti è nato all’estero, mentre la popolazione della capitale raggiunge la cifra record di 8,6 milioni.
Questa mappa colorata della città di Londra mostra con chiarezza come vaste aree della Capitale siano ormai dominate da una serie di determinate nazionalità, in una città in cui un residente su tre è nato all’estero. La bandiera indiana sventola su dieci dei trentadue quartieri in cui la Capitale è divisa, mentre londinesi nati in Nigeria, Polonia, Turchia e Bangladesh sono già maggioranza in almeno tre aree urbane per gruppo. In alcuni quartieri – Westminster, Kensington, Chelsea e Brent, fra gli altri – più della metà della popolazione è nata fuori dai confini nazionali, stando alle cifre comunicate dall’Ufficio Statistiche del Sindaco.
Quest’anno, Londra ha raggiunto la quota record di 8,6 milioni di abitanti, con altri due milioni trasferitisi in città nel corso degli ultimi venti anni, la maggior parte dei quali dall’estero. Tali ragguardevoli cifre costituiscono un vero record dopo il precedente del 1939, precedente alle devastazioni occorse durante la Seconda Guerra Mondiale, ma a decorrere da allora, circa 2,2 milioni di londinesi hanno lasciato la città natale nel successivo mezzo secolo, per iniziare una nuova vita nelle contee vicine o in periferia.
Ecco i più rilevanti gruppi demografici stranieri a Londra suddivisi per distretto. La nazionalità indiana appare dominante in dieci aree.
Le statistiche mostrano inoltre come i quartieri centrali contino un tasso di popolazione immigrata assai più elevato rispetto alle zone più periferiche, con i nuovi arrivati inclini a stabilirsi in aree già densamente abitate da connazionali. Con il 53,3%, Brent e Haringey presentano la più alta percentuale di residenti forestieri, seguiti da Kensington, Chelsea e Westminster, oscillanti fra il 50,9% ed il 51,8%.
Fra il 1939 ed il 1991, Londra ha perduto un quarto della sua popolazione totale; oggi, circa 267.000 londinesi sono nati in India, 135.000 in Polonia, 113.000 in Pakistan, 126.000 in Bangladesh, 112.000 in Irlanda. Dei totali tre milioni di residenti non britannici, il 40% è europeo, il 30% asiatico o mediorientale, 20% africano, 10% americano o caraibico.
Illustrando le dinamiche di crescita della popolazione cittadina, il professor Michael Batty, dell’University College London, ha spiegato alla BBC: “In un periodo di trent’anni, il totale della popolazione è calato dagli originari 8 milioni a 6,6 circa, ciò a causa del fenomeno chiamato suburbanization – crescita delle periferie, aumento dell’acquisto di automobili, cambiamento dei trasporti e sgomberi dei bassifondi.” Quanto all’enorme crescita registrata nell’ultimo decennio, essa “va ricondotta essenzialmente alle migrazioni internazionali.”
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Gli esperti ritengono che entro il 2031 il numero di forestieri residenti a Londra supererà quello dei britannici autoctoni, basandosi su quanto si può desumere dal censimento del 2011. La popolazione immigrata della Capitale ammonterà in quell’anno ad almeno 5 milioni, dopo essere più che raddoppiata fra il 1971 ed il 2011 – anno dell’ultimo censimento – salendo da 1 a 3 milioni. Il numero dei londinesi non britannici condurrà il totale della popolazione cittadina a raggiungere e superare i 10 milioni di abitanti nel 2031, e gli 11 dieci anni dopo.
Tuttavia, laddove gli stranieri continueranno ad aumentare esponenzialmente nei prossimi decenni, i britannici autoctoni seguiteranno senza posa a diminuire. Analizzando l’ultimo censimento, si scopre che oltre 600.000 londinesi bianchi e britannici hanno abbandonato la capitale nel corso di circa un decennio – precisamente 620.000, fra il 2001 ed il 2011. Sarebbe come se una città delle dimensioni di Glasgow, abitata interamente da autoctoni, si trasferisse lontano dalla Capitale, lasciando i bianchi in minoranza nella città più grande dell’intero Paese. Se, infatti, nel 2001 i britannici bianchi ammontavano a circa il 58% della popolazione di Londra, oggi sono scesi a comporre appena il 45% del totale.
Il 3 agosto dell’anno 387, ad Adrianopoli – città dell’allora Tracia, oggi parte della provincia turca di Edirne – si incrociarono le armi in una battaglia che Sant’Ambrogio ebbe a definire: “fine del mondo e dell’intera umanità”.
L’Imperatore Romano d’Oriente Flavio Giulio Valente Augusto – conosciuto più semplicemente come Valente, e soprannominato “Ultimus Romanorum” (l’ultimo vero Romano) – guidò le sue truppe contro i Goti – una popolazione germanica reputata “barbarica” dai Romani – ed il loro comandante Fritigerno. Valente, che aveva scelto di non attendere l’aiuto militare di suo nipote Graziano, Imperatore Romano d’Occidente, si risolse a scendere in campo alla testa di 40.000 soldati, contro i circa 100.000 di Fritigerno.
Fu un vero massacro: 30.000 soldati romani persero la vita, e l’aquila imperiale ne uscì clamorosamente sconfitta. Quella di Adrianopoli sarebbe stata la prima di molte altre disfatte, ed è considerata dagli storici il punto d’inizio del processo che portò nel 476 alla fine dell’Impero Romano d’Occidente. In quei giorni, i domini di Roma si estendevano su una superficie di circa 600 milioni di ettari – circa due terzi degli odierni Stati Uniti – contando una popolazione superiore al mezzo miliardo.
La sconfitta di Adrianopoli non fu causata dalla cocciuta brama di potere di Valente, o dalla sua grossolana sottovalutazione della forza belligerante del nemico. La disfatta probabilmente più rilevante dell’intera storia di Roma affonda le sue radici in qualcosa di ben diverso, ovvero una crisi migratoria.
Due anni prima, i Goti erano discesi in massa verso i territori romani in cerca di rifugio, e la cattiva gestione di un tale fenomeno diede inizio ad una catena di eventi che condussero al collasso di uno dei più grandi colossi politici e militari che l’umanità abbia mai conosciuto. Le similitudini con quando va accadendo oggi in Europa sono davvero inquietanti, e dovrebbero servire all’osservatore contemporaneo come monito assolutamente degno di attenzione.
Stando al resoconto dello storico Ammiano Marcellino, nel 376 i Goti furono costretti ad abbandonare i propri territori – localizzati nell’attuale Europa orientale – sotto la spinta degli Unni diretti a sud, Unni che lo stesso Marcellino non esitò a definire “una razza selvaggia senza pari”. “Gli Unni”, prosegue Marcellino, “si abbatterono dai picchi montuosi come turbini di vento scaturiti dai più remoti anfratti della Terra, procedendo a saccheggiare e distruggere tutto ciò che si parasse loro davanti nel cammino.”
Ciò risultò in un succedersi di terrificanti bagni di sangue, ed in un esodo di massa delle popolazioni gote, similmente a quanto oggi accade ai Siriani, ed a chiunque si trovi afflitto dalla piaga bellica. Queste optarono per stabilirsi in Tracia, giusto oltre il Danubio: la terra era in quei luoghi fertile, ed il fiume pareva costituire una valida difesa naturale dagli assalti unni.
Tuttavia, altri già governavano quelle latitudini – i Romani, sotto l’egida di Valente – e Fritigerno volle in un primo momento offrire a quest’ultimo la sua sottomissione, annunciando che lui e la sua gente “avrebbero vissuto in pace, rifornendo i ranghi romani di truppe ausiliarie se la necessità lo avesse richiesto.” Roma aveva senza dubbio molto da guadagnarci. Quelle terre, infatti, necessitavano di qualcuno che le coltivasse, ed una buona quantità di forze fresche non sarebbe stata certamente sgradita al potere imperiale. “Combinando la forza del suo popolo con questi nuovi innesti”, scrive Marcellino, “Valente ritenne di potersi costruire un esercito assolutamente invincibile.” Come segno di gratitudine all’Imperatore, Fritigerno si mostrò persino disposto a convertirsi al cristianesimo.
Tutto ebbe inizio piuttosto pacificamente. I Romani si adoperarono in un’attività di ricerca e salvataggio assai simile alle operazioni analoghe condotte dai nostri contemporanei. Riporta Marcellino che “nessuno fu lasciato indietro, neppure i malati in fin di vita.” I Goti “attraversavano la corrente notte e giorno, senza sosta, imbarcandosi in grandi gruppi su chiatte, canoe e zattere di legno.” Marcellino osserva che “in tanti annegarono, dal momento che in molti, troppo numerosi per trovar posto sulle imbarcazioni, tentarono faticosamente di guadare il fiume a nuoto, finendo tuttavia per venir trascinati lontano dalla corrente.”
Si trattò di un flusso migratorio inaspettato e senza precedenti, che alcuni affermano aver riguardato addirittura 200.000 persone. Le autorità militari incaricate di occuparsi dei profughi provarono a stimarne il numero, ma si rivelò un’impresa del tutto infruttuosa.
Tradizionalmente, l’atteggiamento romano nei confronti dei “barbari”, per quanto dispotico si era sempre rivelato decisamente lungimirante. I gruppi di profughi venivano dislocati dove potevano essere più utili all’Impero, curandosi poco o niente dei loro desiderata; comunque, il processo solitamente sfociava in una assimilazione, che portava gli individui un tempo stranieri a farsi cittadini. Non era difficile incontrare discendenti di immigrati nei ranghi più elevati dell’esercito o della pubblica amministrazione. Lo schema che si riteneva poter mantenere l’Impero al sicuro dagli attacchi esterni era molto semplice: permettere a chi stava fuori di varcare i confini e diventare romano.
Tuttavia, questo meccanismo apparentemente fruttifero finì per incepparsi. Fra le autorità militari incaricate di provvedere vitto ed alloggio ai Goti – una versione antica dell’assistenza oggi offerta ai migranti al loro sbarco in Grecia o Italia – prese a dilagare la corruzione, ed in molti cercarono di trarre un illecito profitto dall’emergenza. I Goti, deprivati di ciò che era stato loro promesso, si trovarono costretti ad acquistare carne di cane dai Romani per sostentarsi. Marcellino non ha dubbi: “la proditoria avidità di costoro fu causa di infiniti disastri per Roma.”
Il rapporto di fiducia fra i Romani ed i Goti, soli e maltrattati, si era incrinato già svariate volte prima di Adrianopoli, e questi ultimi finirono per passare da un desiderio di integrazione ad un impeto distruttivo nei confronti di Roma. Meno di due anni dopo, Marcellino ebbe a scrivere: “con occhi rilucenti di rabbia, i barbari si diedero all’inseguimento dei nostri uomini.” Ad un simile scenario, la caduta dell’Impero ebbe a seguirne di lì a poco.
I migranti che tentano di entrare nell’Europa odierna non si trovano sul punto di sollevarsi in armi, e fortunatamente l’Europa d’oggi non è l’Impero Romano. Tuttavia gli accadimenti che riguardarono i Goti mostrano assai bene che le migrazioni sono state e sempre saranno parte integrante del nostro mondo. Vi sono due modi di rapportarsi ai rifugiati: promuovendo con essi dialogo ed inclusione, o facendoli sentire sgraditi e trascurati. La seconda via ha già condotto al disastro una volta, ed in un modo o nell’altro, non tarderà sicuramente a farsi causa di nuove disgrazie.
Dalla finestra del suo appartamento che si affaccia sul canale in un sobborgo di Dewsbury nello Yorkshire, una donna bionda guarda due figure femminili che passano mentre chiacchierano in una lingua straniera.
Entrambe le passanti sono coperte da abiti islamici neri, solo uno scorcio dei loro occhi si intravede dall’apertura di due centimetri nei veli che coprono i loro volti.
Loro, come molte donne musulmane che vivono qui, parlano poco o niente inglese. Molte di loro non avranno alcun contatto con persone di un’altra religione o cultura. Molte, immagino, sono state portate nel Regno Unito per sposare gli uomini britannici di origine sud asiatica che hanno fatto di questa zona la loro casa.
Le mogli hanno vite limitate: crescono i bambini, cucinano per le famiglie, o vanno agli eventi per sole donne nell’enorme moschea locale gestita dai Deobandi, una potente setta dell’Islam i cui predicatori più espliciti hanno esortato i seguaci a non mescolarsi con cristiani, ebrei o indù.
Siamo a Savile Town, una delle parti più razzialmente omogenee della Gran Bretagna: non perché tutti sono uomini o donne indigeni dello Yorkshire, ma esattamente il contrario.
Infatti non ci sono quasi residenti bianchi a Savile Town. Sorprendentemente, una ripartizione dettagliata dell’ultimo censimento del 2011 ha registrato che solo 48 delle 4.033 persone che vivono qui erano bianchi britannici.
Questo non sorprenderebbe la bionda Lorraine Matthews, che guarda le signore in burka dalla sua finestra. Lei è una receptionist dentista di 53 anni, una delle poche inglesi bianche rimaste nel reticolo di strade a terrazza di Savile Town. Quasi tutti gli altri residenti, secondo il censimento, hanno origini pakistane o indiane.
I loro antenati furono attirati a Savile Town come manodopera a basso costo per i lavori massacranti nelle fabbriche di lana che avevano reso Dewsbury una rinomata città tessile.
Questi laboriosi nuovi arrivati comprarono le loro case e aprirono negozi all’angolo che vendevano burka, tappetini per la preghiera e profumi che non contenevano alcol, in linea con le restrizioni del Corano.
Presto i nuovi arrivati hanno costruito la moschea che è progettata per ospitare 4.000 fedeli. Oggi, un tribunale della Sharia nelle vicinanze – criticato in un rapporto della Camera dei Lord per la discriminazione contro le donne nel divorzio e nelle controversie matrimoniali – fa ottimi affari sposando il rigido codice di giustizia islamica.
Anche la signora che vende gelati da un furgone durante l’estate indossa un burqa, e il macellaio che gira per le strade offre solo capra, agnello e struzzo halal.
State a Savile Town, come ho fatto io, e vedrete decine di ragazzi in abiti islamici che vanno e vengono dalle lezioni alla scuola madrasa della moschea, dove per ore e ore imparano a memoria il Corano.
E, in modo angosciante, ogni ragazza che ho visto – anche quelle di sei e sette anni che giocavano nel parco – era avvolta in un hijab da una spalla all’altra dell’abito per evitare che un uomo intraveda la sua carne.
Savile Town fu lasciata diventare un’enclave etnica. E sembra che questo distacco dalla società principale abbia avuto ripercussioni inquietanti. Perché questa piccola area ha prodotto diversi giovani jihadisti che sono scomparsi per combattere – e morire come attentatori suicidi – per lo Stato Islamico in Medio Oriente.
(Mohammed Sidique Khan, il leader degli attentatori che attaccarono Londra il 7 luglio 2005, era cresciuto nelle vicinanze. Ha dato l’addio alla moglie incinta nella loro casa a schiera prima di guidare i suoi compagni di attacco nella capitale per reclamare 52 vite innocenti in esplosioni su treni della metropolitana e autobus).
La vita a Savile Town è stata indagata all’inizio di quest’anno da Owen Bennett-Jones, l’ex corrispondente della BBC in Pakistan, che ha fatto luce sull’influenza del movimento Deobandi sulla popolazione musulmana qui.
Intervistato per il programma di Radio 4 era Mufti Mohammed Pandor, un funzionario civile e portavoce dei Deobandi. È arrivato dal Gujarat, in India, nel 1964, da bambino, con la sua famiglia.
Vive vicino a Savile Town, e si definirebbe un musulmano britannico. Eppure si è rifiutato di lasciare che l’intervistatore Bennett-Jones vedesse sua moglie quando il reporter ha visitato la casa della coppia, anche se le è stato permesso di fare il thè in cucina.
Pandor insiste che lei è completamente coperta quasi sempre, permettendole solo di sollevare il velo per i controlli dei passaporti negli aeroporti. La sua famiglia guarda raramente la televisione britannica e dice che tutta la musica non è islamica.
Nonostante sia consigliere religioso di due università – Bradford e Huddersfield – ha detto alla BBC che agli uomini musulmani dovrebbe essere permesso di entrare negli istituti di istruzione superiore solo per studiare e pregare, e “non per guardare le donne”.
“Se Maometto non l’ha fatto, noi non lo facciamo”, ha detto Pandor alla BBC, dicendo che i Deobandi sono un movimento “back to basics” i cui seguaci vivono nello stile di vita del Profeta, di 14 secoli fa.
Si potrebbe liquidare un pensiero così disperatamente arretrato come appannaggio di una piccola setta stravagante, ma i Deobandi gestiscono quasi la metà delle 1.600 moschee registrate nel Regno Unito, e formano l’80% di tutti i chierici islamici nazionali che, a loro volta, giocano un ruolo enorme nell’influenzare la crescente popolazione di musulmani britannici.
Forse non è una sorpresa che i pochi indigeni dello Yorkshire rimasti a Savile Town si sentano in qualche modo assediati.
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Lorraine Matthews, nella casa vicino al canale, è schietta nei suoi commenti sulla comunità in cui ora vive: “Non uscirei di notte da sola perché è pericoloso se non sei della comunità musulmana. Non è ragionevole per una donna camminare lì dopo il tramonto. I ragazzi asiatici si radunano agli angoli, ti fanno sentire intimidita perché non rispettano le donne bianche”.
Quando io stessa ho camminato lungo South Street verso la moschea, figure in burka hanno sbirciato fuori dalle loro finestre con le tende di pizzo con sorpresa nel vedere il volto di una donna scoperta.
Ho chiesto a un adolescente alto, che indossava un berretto islamico e abiti bianchi sui jeans, indicazioni per l’ingresso della moschea. La sua risposta è stata sputarmi addosso e gridare: “Vattene, non dovresti essere qui. Non tornare”.
È deprimente trovarsi di fronte a una tale aggressione. E non ho dubbi che anche molti musulmani si sentiranno angosciati da un tale comportamento. Non tutti i seguaci britannici dell’Islam desiderano vivere in aree dove persone di altre fedi o culture potrebbero temere di camminare.
Eppure, in luoghi come Savile Town, i presagi non sono buoni.
Per quanto poco piacevole possa essere per i liberali britannici, il fatto è che molti musulmani qui vogliono vivere solo con quelli della loro stessa cultura.
Infatti, alcuni dei pochi residenti non musulmani rimasti dicono di essere regolarmente presi di mira dai membri della comunità islamica locale che vogliono comprare le loro case.
Alcuni persino bussano alla porta in abiti religiosi che offrono mazzette di denaro in sacchetti di plastica per acquistare le loro case.
Jean Wood, 76 anni, nata nello Yorkshire e frequentatrice della chiesa, è una residente di lunga data che si sente tagliata fuori. I suoi figli la pregano di trasferirsi in una zona dove possa condividere la sua pensione con il tipo di persone con cui è cresciuta.
Nella sua casa ordinata ai margini di Savile Town, mi ha raccontato cosa è successo il giorno dopo che suo marito è morto improvvisamente mentre era seduto al tavolo della cucina.
“Non se n’era andato neanche da 24 ore quando una vicina musulmana spinse un biglietto attraverso la porta dicendo che voleva comprare questa casa”, ricorda. “Avevamo vissuto qui tutta la nostra vita da sposati”. Ero addolorata, anche se il biglietto non menzionava la mia perdita.
“Ma ho raccolto le mie forze. Ho telefonato al numero sul pezzo di carta e ho detto che la mia casa non era in vendita e che non lo sarebbe mai stata durante la mia vita”.
Erano parole coraggiose, ma – inevitabilmente – il portavoce dei Deobandi, Mufti Pandor, la vede diversamente.
Ha descritto, su Radio 4, come la ‘white flight’ sia avvenuta quando la sua famiglia è arrivata a Savile Town. “Chi avrebbe comprato la casa accanto alla nostra?” ha detto Pandor. “Certamente non sarebbe stato un bianco… così mio zio la comprò. Allora eravamo in due. Allora indovina cosa è successo? Il tizio di fronte ha detto: ‘Fanculo, me ne vado’ – e se n’è andato”.
Non è difficile capire perché, con i sospetti che corrono in profondità su entrambi i lati della divisione culturale, Savile Town sta, nel bene e nel male, cambiando per sempre.
L’uomo moderno anatomicamente è il Cro-Magnon, che circa 35.000 anni fa, dopo la sua calata in Europa, avrebbe rapidamente soppiantato il Neanderthal, la cui scomparsa rimane ancora uno dei grandi misteri dell’antropologia. Alcune teorie propendono per un genocidio da parte dei Cro-Magnon(sapiens moderni), altre per un mescolamento delle due specie, la più probabile è che i Neanderthal non fossero capaci di competere con i Cro-Magnon per le risorse per la sopravvivenza e fossero andati estinguendosi. Qualche mescolamento è probabile, ma non su larga scala.
Arriviamo velocemente al Neolitico, tra 7500 a.C. e 3000 a.C. in Europa. Qui tratteremo più dell’Italia neolitica. Sappiamo che soprattutto nel Sud della penisola, in maggioranza arrivarono agricoltori provenienti dalla penisola anatolica, i quali, SPECIFICHIAMO, Anatolia NON significa “Turchia” e soprattutto NON significa “levantinismo-arabismo”. Erano popolazioni autoctone CAUCASICHE(EUROPIDI)stanziate lì da millenni. Invece, il Nord della penisola si riempì più di popolazioni alpine(il fenotipo alpino è uno dei più antichi d’Europa).
In ogni caso, queste popolazioni neolitiche furono soppiantate, con la guerra o la sottomissione forzata, dall’arrivo degli Indoeuropei. Chi erano gli Indoeuropei? Secondo la teoria kurganica di Maria Gimbùtas, gli Indoeuropei erano una popolazione caucasica(europide) sviluppatasi nelle steppe dell’odierna Russia meridionale ed ucraina.
Tutti gli europei moderni, oggigiorno, discendono anche dagli Indoeuropei che, in un periodo compreso tra il 3500 a.C. e il 1000 a.C. colonizzarono l’Europa ed anche l’altopiano Iranico(oltre all’India settentrionale) a più ondate: coloro che presero la via del Nord Europa oggi li definiamo “Germanici”, indo-iranici coloro che presero la via dell’odierno Iran, chi invece andò verso ovest furono coloro che definiamo “Italo-celti”: i ceppi poi si sarebbero separati, i Celti avrebbero colonizzato l’area della Gallia, gli Italici, appunto l’Italia, a più ondate: la prima sarebbe stata quella degli osco-umbri detti propri, composti da popoli quali i Sabini, i Marsi, gli Umbri, gli Osci e altre tribù di lingua osca, stabilitisi al centro appenninico e al Sud fino alla Calabria. Successivamente sarebbero saliti alla ribalta i latino-falisci, commisti alle popolazioni neolitiche dell’area dell’odierno Lazio. Per lungo tempo queste due stirpi avrebbero convissuto e si sarebbero influenzate a vicenda nell’Italia pre-romana, finché una città, appunto Roma, nel corso del I millennio a.C. avrebbe lentamente iniziato a predominare e ad imporre, alla fine del millennio, attraverso guerre e diplomazia, la romanizzazione culturale a tutti i popoli italici. I Veneti erano i “fratelli” e fedeli alleati dei Romani, che parlavano una lingua molto simile a quella latina, appartenente al ceppo latino-falisco.
Impossibili da non menzionare sono gli Etruschi, stanziati nell’odierna Toscana ove fiorì anche la civiltà villanoviana, e probabilmente gli stessi Etruschi sono una naturale continuazione di essa, al di là delle continue, ed a volte anche strampalate teorie “esotiche” che vengono per essi preposte, quali anatolici, medio-orientali o addirittura turchi, e tra il serio e il faceto(amerindi). Molto probabilmente gli Etruschi, organizzati in città-stato e mai in una singola nazione, sono il frutto dell’unione di villanoviani, piccoli gruppi di italici (che si riscontrano anche a livello linguistico e genetico: la Toscana è una delle regioni italiane con più alta concentrazione di DNA italo-celtico) e influenze greche, queste perlopiù provenienti dalle coste meridionali della penisola ove già coloni greci avevano fondato importanti città (tra cui, menzioniamo, la famosissima “fase orientalizzante”). Quando si parla di Etruschi, poi, non si possono non menzionare i Reti e i Camuni dell’arco alpino e prealpino, popolazioni appartenenti allo stesso ceppo autoctono alpino-tirrenico e affini agli Etruschi per lingua e cultura.
Sempre nel Nord, oltre ai già citati Galli di stirpe indoeuropea italo-celtica e di lingua celtica (il cui sostrato si ritrova ancora oggi nelle lingue gallo-italiche), troviamo anche gli autoctoni Liguri, che secondo alcuni sarebbero una popolazione atlanto-mediterranea parlante una forma arcaica di osco-umbro, che in seguito avrebbero assimilato la cultura celtica.
L’Italia sotto il dominio romano era essenzialmente popolata da italici romanizzati nella cultura, avendola lentamente perduta anche per la stessa cittadinanza romana che avevano richiesto all’inizio del I secolo a.C., anche se iscrizioni in lingua osca sono state ritrovate a Pompei risalenti al I secolo d.C.; il quadro genetico delle popolazioni da cui discendono gli italiani moderni è pressoché invariato dall’epoca preromana.
Qui serve un chiarimento riguardo chi pensa che gli schiavi dell’Impero, provenienti da ogni angolo, avrebbero “levantinizzato” l’Italia e l’Europa: sono affermazioni superficiali che lasciano il tempo che trovano. Anzitutto, gli schiavi provenivano appunto da ogni angolo dell’Impero e non solo dal Medio Oriente o dall’Egitto. C’era la Grecia, la Macedonia, l’Illirico, l’Anatolia, l’Iberia, la Gallia, la Britannia. E la popolazione servile, nel massimo periodo di splendore, non costituiva più del 35% della popolazione totale dell’intero Impero.
L’Italia rimase essenzialmente indoeuropea, ma allora come oggi, nel Sud rimase una discreta concentrazione neolitica, frammista ad influenze greche e osche, sia genetiche che culturali, sulle coste, che sarebbero continuate anche dopo la caduta dell’Impero con i domini bizantini(Impero romano d’Oriente). La calata dei Longobardi in Italia nel 568 è l’ultima da 1500 anni a questa parte che abbia un po’ rimescolato il patrimonio genetico degli abitanti della penisola, ma SOLO in zone precise. Sappiamo che al termine delle guerre gotiche del VI secolo la popolazione era ridotta a 4-5 milioni di abitanti, la metà rispetto a quella del Tardo Impero. I Longobardi, (in numero di 150.000-200.000) inizialmente oppressivi dominatori, col tempo si mitigarono e iniziarono a mescolarsi agli autoctoni italici(Romanici) nel Nord Italia, nella Tuscia(Toscana) e nel Sannio Beneventano(oltre al Molise). In queste zone si riscontra un discreto contributo longobardo, a livello linguistico ma in piccole proporzioni anche a livello genetico, mentre nella Riviera adriatica, in Sicilia e nel cosiddetto “corridoio bizantino” si ritrovano influenze greco-bizantine. Ma nonostante tutto questo, ancora oggi il corpus genetico degli italiani moderni, in generale, non è mutato di molto, se si eccettuano alcune aree specifiche. Franchi, Normanni e successive dominazioni, specie al sud, francesi e spagnole, erano costituite da gruppi di potere d’èlite, assolutamente irrilevanti dal punto di vista genetico, tutt’al più linguistiche, visto il discreto numero di termini napoletani in prestito da francese e spagnolo.
Quanto alle influenze germaniche, slave e franco-provenzali nelle vallate alpine, si tratta di minoranze giunte da oltralpe nel Medioevo e che tuttora conservano gelosamente la loro identità linguistica e culturale, ma che a nostro parere non giustificano le istanze secessioniste degli autoctoni.
Spesso, ultimamente, si sente parlare di “Medioevo multietnico”, secondo il quale i fitti scambi commerciali tra Mediterraneo e Nord Europa, tra Occidente e Oriente (tra cui, la via della seta che giungeva fino in Cina), le Crociate in Medio Oriente e la presenza di mercanti e viaggiatori stranieri nelle più importanti città portuali europee, giustificherebbero una “mescolanza” di popoli su larga scala, quasi come se fosse legittimo immaginarsi, in città come Marsiglia, Venezia o Costantinopoli, situazioni multietniche simili a quelle delle nostre metropoli attuali come la “cosmopolita” Londra( e non è un complimento). È un falso storico, forse dettato dall’esigenza di veicolare una visione “politicamente corretta della storia”, ma che di sicuro non corrisponde a verità: dopo le cosiddette “migrazioni di popoli” o “invasioni barbariche” che dir si voglia, che coinvolsero comunque popoli europei, l’Europa non ha più visto, nel corso dei secoli, migrazioni di massa di popoli provenienti dall’esterno, tanto che perfino la Turchia, che prende il nome dalle popolazioni dell’Asia centrale turche e turcofone del ceppo uralo-altaico (Ottomani) che la invasero nel XIV secolo e le più recenti migrazioni dal Medio Oriente, rimane nella sua parte occidentale un paese di retaggio indoeuropeo greco-anatolico.
Le altre nazioni dell’Europa occidentale, analogamente all’Italia, hanno conservato fino a tempi recenti la fisionomia che le caratterizzava fin dai tempi antichi: così come i Franchi non hanno reso la Francia un paese germanico, l’invasione islamica in Spagna non ha distrutto l’eredità celtiberica e latina, l’Inghilterra, nonostante le invasioni franco-normanne, romane e anglosassoni abbiano alterato il quadro linguistico e mitigato quello genetico, non ha subito influssi extraeuropei (se non ai tempi dell’imperialismo britannico, in età moderna), i paesi germanici, pressoché inalterati fin dall’età preromana, hanno subito grandi mutamenti genetici e sociali solo in seguito alle grandi migrazioni extraeuropee dell’ultimo secolo (escludendo ovviamente le minoranze ebraiche, fisicamente indistinguibili dagli europei).
L’est Europa invece andrebbe analizzato in separata sede in quanto ha subìto anche le invasioni di popoli turcofoni quali Avari, Bulgari e Cumani(in turco Kipcak), questi ultimi spesso in guerra poco dopo l’anno 1000 con i Variaghi-Slavi della Rus’ di Kiev. Il ceppo est europeo rimane comunque in maggioranza slavo, come pure la cultura e la lingua sono di natura slava.
Discorso a parte merita la presunta influenza araba in Sicilia o addirittura nel Meridione continentale della penisola. Quante volte sentite parlare di “Sud arabo”? Quante volte vi viene fatto credere che le “caratteristiche espressioni” dei meridionali siano araboidi? Tantissime. In realtà si tratta di percezioni distorte e di luoghi comuni passati nell’immaginario collettivo.
Iniziamo specificando che il Meridione italico MAI è stato sotto dominio arabo, tutt’al più i saraceni(berberi di solito) effettuavano scorrerie contro le coste tirreniche e adriatiche(dove per 40 anni in Puglia vi fu un califfato), ma a parte alcuni deportati dalla Sicilia dopo la calata dei Normanni in Sicilia, il Sud Italia ha sempre dovuto difendersi dai pirati saraceni e MAI è esistita una presunta commistione di arabi ed autoctoni. Solo alcuni sovrani longobardi del ducato di Benevento usarono truppe saracene per i loro fini.
La Sicilia, invece spesso additata come “araba” a prescindere, anche a causa della cattiva influenza di Michele Amari, autore ottocentesco, è forse la regione italiana più particolare di tutte. Di carattere prevalentemente neolitico, greco, italico(i Siculi erano un popolo italico, latino-falisco, proveniente dal Lazio), in età bizantina si arricchì di nuovi elementi greci, la conquista islamica fu sempre avversata dalle popolazioni autoctone che spesso soffrirono eccidi(a Palermo su 70.000 abitanti ne sopravvissero solo 3.000 in seguito alla conquista arabo-berbera), e durò meno di 200 anni, e in alcune zone della Sicilia orientale addirittura 90. I Normanni, corpo d’élite proveniente dal Nord-Europa(ma non Vichinghi puri come si è solito dipingerli) erano francesi di lingua e di cultura latina, misti a popolazioni germaniche. Il loro dominio sul Sud, a partire dalla metà del XI secolo, fu repentino. In Sicilia essi scacciarono rapidamente i berberi e gli arabi, e coloro che sopravvissero o non furono scacciati, nei secoli successivi, divenirono tristemente oggetto di persecuzioni e stermini. I Normanni stessi portarono popolazioni dal Nord Italia per ripopolare l’isola in alcune zone specifiche, le stesse dove oggi si parla il gallo-italico di Sicilia.
Detto ciò, anche nella stessa isola oggigiorno l’elemento genetico “arabo” tanto paventato è così irrisorio da non esser degno di menzione. Essa rimane di cultura greco-latina e geneticamente greco-italica.
Questo è quanto: le migrazioni recenti non possono e non devono essere usate come “modello” per descrivere il nostro passato. Non bisogna credere che gli italiani moderni siano araboidi-africani subsahariani imbastarditi da secoli e secoli di mescolanze. Semmai, quello è il destino che ci vogliono riservare in questi prossimi decenni, viste le invasioni di allogeni scaricati da mafie e barconi e ONG, e contro il quale ogni vero identitario deve sempre combattere.
A Groruddalen, vasto quartiere della capitale norvegese, i limiti del multiculturalismo sono messi a dura prova da una pesante immigrazione islamica.
Con una popolazione che supera le 600.000 unità, Oslo è divisa in due parti da Akerselva, un modesto ruscello che dalle montagne del nord scende sino al fiordo. La metà occidentale è di livello più elevato, caratterizzata da numerose residenze alla moda nei pressi del centro cittadino, e – più in là – da eleganti vicinati, colmi di belle case spaziose e giardini ampi e ben tenuti. La metà orientale è più sudicia: nella parte centrale si trovano aree che tanto ricordano l’East Village newyorchese, con bar e club stilosi, giovanili e pieni di graffiti, oltre ad un paio di zone ad alta densità musulmana, Tøyen e Grønland; ancora più ad est, invece, abbiamo Groruddalen.
Una grande, piatta, anonima valle (dal significa appunto ‘valle’ in norvegese), Groruddalen ospita più di un quarto della popolazione di Oslo. Immaginate San Fernando Valley, e ci sarete quasi. Per alcuni decenni adesso, nella mente del norvegese medio la valle si è trovata associata all’Islam. Il 28 agosto del 2017, Rita Karlsen di Human Rights Service (HRS) – think-thank con base ad Oslo – ha osservato come siano trascorsi ormai sedici anni dal giorno in cui il politico laburista Thorbjørn Berntsen dichiarò: “Esiste un limite al numero di immigrati che Groruddalen può accettare. Questo limite si appresta ormai ad essere alle porte. So di persone che vogliono andarsene perché la città di Oslo seguita a riempire palazzi e palazzi con rifugiati e richiedenti asilo… Dobbiamo semplicemente ammettere che i conflitti culturali cominciano ad essere evidenti. “ Altri politici respinsero le preoccupazioni di Berntsen. L’allora capo del Partito Laburista di Oslo, Bjørgulv Froyn, insistette – ad esempio – che i problemi di Groruddalen nulla avessero a che fare con l’immigrazione. Il leader dei conservatori di Oslo, Per-Kristian Foss, accusò addirittura Berntsen di “stigmatizzare un intero quartiere ed un’intera popolazione”. Foss, apertamente omosessuale, decise di sorvolare sul fatto che la vita per un omosessuale in certe parti di Groruddalen fosse ormai divenuta problematica.
Gli ammonimenti di Berntsen – risalenti al 2001 – si sono rivelati profetici. Fra il 2008 ed il 2010, più di 6000 norvegesi autoctoni hanno lasciato Groruddalen, mentre un numero quasi doppio di immigrati – perlopiù musulmani – ha preso il loro posto. Nel 2009, un buon 67 per cento dei bambini nati a Stovner, un distretto amministrativo situato all’estremo est della valle, avevano madri non-Occidentali. Nel 2010, gli immigrati componevano più del 40 per cento della popolazione di Groruddalen, tanto da condurre Lars Østby, demografo capo presso l’Istituto Norvegese di Statistica (SSB) – l’agenzia ufficiale nazionale di statistiche – a predire che – entro non molto – la maggioranza della popolazione della valle sarebbe stata formata da immigrati e relativi figli. Østby non vedeva in ciò un problema – ciò nonostante la cupa realtà di determinate aree urbane nella vicina Svezia, quali Rinkeby a Stoccolma e Rosengård a Malmö, divenute ormai enclave islamiche: società parallele dove la sharia ha soverchiato la legge svedese, e imam, gang e capetti locali assortiti hanno largamente spodestato l’autorità del governo svedese, della polizia e dei tribunali.
Nel 2011, il giornale Aftenposten infranse il massiccio silenzio mediatico riguardante le esperienze di vita vissuta dei norvegesi autoctoni residenti a Groruddalen. “E’ stato difficile essere norvegese a Groruddalen”, ammise al giornale Patrick Åserud, un insegnante che nella valle aveva trascorso tutta la sua vita. “Si è trattato di enormi problemi linguistici, oltre ad una costante pressione a doversi adattare ad una normalità totalmente aliena a chi di noi teneva a mantenere uno stile di vita ed una mentalità occidentali.” Åserud rivelò che in alcune scuole della valle “i bambini rischiavano le botte nel caso si fossero portati nel cestino un panino al salame. Le ragazze bionde erano regolarmente tormentate, e per non avere problemi erano costrette a tingersi i capelli. Non si poteva essere gay a scuola, o ebreo, o ateo… Una famiglia indiana di mia conoscenza era obbligata a vivere islamicamente motivo del loro incarnato scuro.” Su diciotto incontri fra insegnanti e genitori recentemente tenuti da Åserud, dieci necessitavano di interpreti. Le condizioni di vita nella valle erano peggiorate nel corso degli ultimi tre anni, spiegò, così tanto da condurlo a decidersi – con gran riluttanza – a togliere le tende: “Non voglio che i miei figli crescano qui.” Il giornalista di Aftenposten suggerì che Åserud fosse “troppo suscettibile”, e “fuori contatto rispetto alla nuova normalità norvegese.” L’insegnante replicò che se questo fosse stato il caso, tanti norvegesi di Groruddalen lo erano altrettanto.
Due anni dopo, nel 2013, un rapporto dell’Istituto Norvegese di Statistica commendevolmente sincero riconobbe che 1000 norvegesi autoctoni lasciavano Groruddalen ogni anno, con un numero equivalente di immigrati extra-europei pronti a rimpiazzarli. Durante quell’anno soltanto, il numero degli scippi a Groruddalen crebbe di quasi 80 punti percentuali. La grande maggioranza dei responsabili tratti in arresto erano adolescenti, con nomi islamici ed origini alloctone; quasi nessuno dei loro genitori si degnò di assistere ai loro processi (un padre in realtà si recò in aula, ma solamente per intimidire le vittime affinché ritrattassero le loro testimonianze). Nonostante ciò, i politici e la polizia seguitava ad ostinarsi a ribadire che a Groruddalen tutto andava bene. Citavano, in proposito, statistiche relative a reati differenti dai piccoli crimini di strada, che sembravano – almeno superficialmente – suffragare le loro tesi. In realtà, molti dei crimini commessi nella valle – se non praticamente tutti – non erano semplicemente mai stati denunciati. Le vittime musulmane di reati commessi da altri musulmani sapevano fin troppo bene di non interpellare le autorità: le famiglie, gli imam, gli altri correligionari avrebbero considerato la denuncia un tradimento, un tradimento da punire adeguatamente. I panni sporchi – ne erano consapevoli – avrebbero dovuto essere lavati esclusivamente all’interno delle comunità. Molte vittime non islamiche – da parte loro – avevano a loro volta paura di parlare con gli agenti di polizia, perché sapevano che le vendette che le avrebbero aspettate da parte dei propri vicini immigrati avrebbero fatto senz’altro impallidire il crimine originariamente subito.
Nel 2015, il sociologo Halvor Fosli pubblicò Fremmed i eget land (“Uno straniero a casa propria”), un libro basato su venti interviste a norvegesi autoctoni residenti a Groruddalen. Fosli scelse deliberatamente individui in qualche modo coinvolti nella vita delle proprie comunità – chi aveva figli a scuola, ad esempio, o chi sedeva nei consigli direttivi delle stesse. Come ci si sentiva, veniva chiesto loro, ad esser diventati minoranza nella terra dei propri padri? Le risposte furono semplicemente disturbanti. Gli studenti non islamici vivevano nella paura costante di finire nel mirino delle gang islamiche, ma non riuscivano a comprendere davvero cosa avrebbero dovuto evitare di dire o fare per non avere grane, perché i compagni musulmani giudicavano la loro condotta basandosi su codici di comportamento completamente estranei alla società norvegese. Per quanto concerneva le ragazze e le donne non islamiche, solamente uscire di casa da sole – recandosi al supermercato, ad esempio – guadagnava loro occhiatacce furiose di barbuti maschi musulmani, convinti che costoro non avrebbero dovuto neppure lasciare la propria abitazione se non accompagnate da un uomo e con il capo coperto. Per gli ebrei, poi, la situazione era ancor più dura. Per gli omosessuali? Lasciamo perdere. In breve, un posto dove un tempo le persone vivevano senza paura, e trattavano le une le altre rispettosamente ed amichevolmente, si era trasformato in un covo di tensioni, paura, odio – non odio anti-islamico, si badi bene, bensì anti-norvegese.
Il libro di Fosli scatenò una prevedibile ondata di condanne sui media mainstream. La sinistra multiculturale definì Fosli un bugiardo. In un articolo di Aftenposten intitolato “No, non sono uno straniero a casa mia”, Inger Sønderland riferì di essersi trasferita nella valle tre anni prima, e di essersi sentita immediatamente benvenuta. “Mi sento a casa qui!”, queste le sue parole. “In questo ambiente dove tutti siamo così diversi, mi sento libera. Posso rilassarmi, essere me stessa… Amo questa commistione di genti.” Anche Øyvind Holen, già collaboratore dei principali quotidiani norvegesi, autore di diversi libri sulla musica hip-hop, oltre che di una sua propria cronaca da Groruddalen di dieci anni precedente, ritenne di dire la sua, affermando su Dagbladet che Fosli e le sue interviste erano “ossessionate dall’Islam”, e che si erano dispiegate in un “attacco ossessivo contro le minoranze pakistane e somale”. Con un’attenzione mediatica benevola, il libro di Fosli avrebbe potuto mettere la politica, la polizia e le autorità migratorie dinanzi alle proprie responsabilità; invece, gli sforzi rabbiosi per screditarlo fecero sì che il suo libro non avesse alcun impatto sulle policy locali o nazionali. La vita andò avanti come se nulla fosse stato: nel 2016, le autorità scolastiche ricevettero le denunce di quasi 2000 casi di violenza contro gli insegnanti di Oslo, ma non ne riferirono alla polizia neppure una; nel mese di gennaio del 2017, un rapporto descrisse il crimine giovanile a Groruddalen come in ascesa vertiginosa.
Nel febbraio del 2017, Forskning.no – un sito Internet che affermava di fornire notizie affidabili sulla scienza e il suo progresso in tutto il mondo – ribadì che stando ad un nuovo rapporto del NOVA – un istituto di ricerca norvegese – fra i giovani di Groruddalen tutto andava alla grande. “Vanno bene a scuola, hanno relazioni positive con i propri genitori, sono soddisfatti della realtà in cui si trovano a vivere, e bevono meno alcool degli altri giovani di Oslo.” Ma quando Nina Hjerpset-Østlie dell’HRS ebbe a leggere il rapporto NOVA, si rese conto che ad esser presi in esame erano stati soprattutto i ragazzi musulmani, per molti dei quali la valle veniva ad essere senza dubbio un vero parco divertimenti. Il rapporto stesso non poteva negare che per le ragazze ed i non islamici risiedere a Groruddalen non fosse così esaltante, e l’insicurezza era causata proprio dal comportamento aggressivo e predatorio di quei giovani musulmani che a Groruddalen vivevano felici e contenti. Un giovane su cinque nella valle – perlopiù ragazzi non islamici – si erano trovati ad essere soggetti a violenza, o minacce di violenza. Le ragazze islamiche, da parte loro, di violenza ne subivano meno, quantomeno fuori dalle loro case – probabilmente, suggerì Hjerpset-Østlie, perché era la loro stessa opportunità di essere esposte ad una tale routine di violenza ad essere minore, dal momento che i loro movimenti nel mondo esterno, in aderenza alle norme della cultura islamica dell’onore, erano strettamente controllati e monitorati dalle famiglie.
L’11 marzo 2017, per la sorpresa di molti spettatori, il notiziario notturno sulla rete televisiva pubblica NRK mandò in onda un onesto spaccato del drammatico dilagare del crimine nella parte est della città di Oslo, concentrandosi principalmente su Groruddalen – dove, come riportato dal giornalista Anders Magnus, circa la metà della popolazione aveva origini extra-europee. Dodicenni spacciavano droga; quindicenni giravano con pistole, coltelli e mazze da baseball addosso; gang di giovani islamici aggredivano adulti in pieno giorno, ed i loro genitori, islamici anch’essi, con poche eccezioni mostravano una completa indifferenza alle attività delinquenziali dei propri figli. In tutto ciò, non distaccandosi neppure in un tale caos da una inveterata usanza norvegese, gli agenti di polizia seguitavano a rimanere disarmati. Magnus intervistò un allenatore di hockey che riferì come alcuni dei suoi giocatori avessero deciso di smettere, nel terrore di essere picchiati sulla strada per il campo di allenamento. Un giovane del luogo spiegò come i musulmani della valle avessero instaurato una vera e propria “società parallela”, nella quale i ragazzi semplicemente non avevano più alcun timore della polizia. Fedele a sé stesso, il giornale Aftenposten condusse un furibondo attacco al servizio di Magnus: Øystein E. Søreide e Mobashar Banaras, due influenti politici di Groruddalen, accusarono la NRK di dar luogo ad un’”impropria stigmatizzazione” degli abitanti della valle, e di fomentare ingiuste divisioni fra “noi” e “loro”.
Quindi, a maggio, per tre notti consecutive, dozzine di adolescenti musulmani misero a ferro e fuoco Vestli, all’estremo est di Groruddalen, tirando pietre, appiccando incendi, ed accoltellando persone. Solamente tre dimostranti furono arrestati, e rapidamente rilasciati. La durezza della vita nella valle diveniva sempre più difficile da negare – per quanto, come osservato da Rita Karlsen del HRS, i media mainstream ed i portavoce della polizia si ostinassero ad insabbiare le notizie ed a negare risolutamente che Groruddalen scivolasse verso una “deriva svedese”, negando e negando ancora persino dopo quello che era accaduto – una vita la cui realtà era scandita ormai da un crimine fuori controllo, e da una completa sudditanza delle autorità ai leader delle comunità musulmane. Fonti interne di polizia rivelarono però che la polizia, lontano da occhi esterni, riconosceva eccome la gravità dei problemi presenti nella valle. In numeri enormi, giovani islamici minacciavano insegnanti, guardie di sicurezza, gestori di esercizi commerciali, poliziotti, pompieri, paramedici, e molti altri ancora; sempre più incendi venivano appiccati, esattamente come già accadeva nelle periferie di Stoccolma e di Parigi.
Negli ultimi anni, gli sforzi della polizia per riportare l’ordine a Groruddalen si sono risolti in un vero fallimento. Un problema è rappresentato dalla difficoltà di ottenere per gli agenti un’abilitazione ufficiale a portare armi da fuoco – un cambiamento di policy vigorosamente osteggiato da politici e giornalisti. Un altro è invece l’incapacità degli alti papaveri della polizia di Oslo di confrontarsi sinceramente con la situazione nella valle – non devono esser stati felici quando un poliziotto di Stovner ammise, nel corso di un’intervista con una rete locale, che gli agenti evitavano per paura di entrare in certe zone di Groruddalen, descrivendo addirittura come “impensabile” un ingresso della polizia in tali aree. Il problema fondamentale rimane però il tradizionale approccio scandinavo al crimine: darsi da fare per rintracciare questa o quella causa primaria, trattare i rei come vittime della società, e considerare la compassione un rimedio per la criminalità. Un simile approccio può funzionare con alcuni ragazzotti norvegesi un po’ ribelli, ma rimane totalmente inutile dinanzi alla condotta dei loro coetanei musulmani, portati dall’humus culturale in cui sono cresciuti a reputare un tale trattamento con i guanti di velluto un segno di debolezza, e cavalcarlo.
Ad agosto un nuovo anno scolastico ha visto il suo inizio. Il 28 di settembre, il quotidiano norvegese VG ha riferito che, dal suono della prima campanella, così tanti episodi di violenza avevano avuto luogo in una scuola superiore di Stovner – uno addirittura con un’ascia ed una spranga di mezzo – da spingere il preside, Terje Wold, a dichiarare di non essere più in grado di garantire la sicurezza di insegnanti e studenti. In risposta, il ministro dell’istruzione Henrik Asheim ha ritenuto di convocare una riunione d’emergenza; a seguito del meeting, una pattuglia di agenti è stata permanentemente dislocata a guardia quotidiana della scuola. VG in quella occasione osservò Stovner non essere un caso isolato: la violenza in altre scuole di Groruddalen si era egualmente intensificata nel corso degli anni più recenti, portando allo sviluppo di quella che in norvegese è definita con il termine ukultur, letteralmente una “a-cultura” – caratterizzata da una mancanza di cultura – una non-cultura violenta, anarchica, selvaggia.
Avanti così, arriviamo ad oggi. Groruddalen continua a riempirsi senza posa di islamici, e gli autoctoni continuano ad andarsene. La fertilità delle famiglie musulmane fa arrossire di vergogna quelle norvegesi. In alcune classi, solamente uno o due bambini parlano norvegese. Rapporti presenti sul sito ufficiale del HRS e su document.no (che parla di temi legati all’Islam con una schiettezza raramente riscontrabile nell’universo mediatico) chiariscono che la violenza nella valle è in crescita e si fa sempre più intensa, con sempre più megarisse fra gang e roghi di auto in stile banlieu parigina. Circolano sempre più voci di norvegesi che si uniscono in ronde per perlustrare e preservare i propri vicinati. Se Groruddalen non è ancora integralmente una no-go zone, sul modello di Rinkeby o Rosengård, poco ci manca. Non manca molto a che si possa parlare della valle come di un dominio islamico in terra secolare; nonostante ciò, politici e giornalisti persistono cocciutamente a dipingerla come un paradiso di integrazione ed arricchimento multiculturale.
Nell’agosto del 2017, Hege Storhaug del HRS prese nota di un manifesto promozionale per una nuova libreria a Stovner. Ritraeva tre ragazze dalla pelle scura, due delle quali indossanti uno hijab, intente a leggere insieme alcuni libri con aria felice. “Questo è il futuro”, commentò Storhaug. Thorbjørn Berntsen riconobbe questo futuro già sedici anni fa; non solo lui, ma gli altri scelsero il silenzio. Anche adesso, mentre Groruddalen sprofonda nell’anarchia ed in una completa islamizzazione, pochi osano aprir bocca, e nel mentre, oltre le colline e le montagne che circondano la valle, la cappa oscura calata su di essa già si estende lentamente al resto della Norvegia.
Il verbo isolare sta ad indicare una separazione di uno o più elementi da altri o da un ambiente, modo tale che non vi siano contatti o comunicazioni di sorta.
Nel mondo animale e umano quando un corpo avverte una minaccia tende ad isolarsi, per proteggere la propria esistenza. Il senso dell’isolazionismo politico è esattamente in questo: per preservare la propria esistenza una comunità deve avere il diritto di potersi isolare, se necessario anche chiudersi completamente al mondo esterno.
Fa impressione constatare che, mentre il verbo isolare è assolutamente accettato in medicina, biologia e scienze naturali, non lo è altrettanto nel mondo della politica e della vita sociale degli individui. Di solito si tende a giudicare un essere umano isolato come un outsider, una persona che rifugge il mondo. Allo stesso tempo, in campo politico, domina il paradigma multiculturale: le società non possono isolarsi, perché il loro obiettivo sarebbe quello di promuovere il meticciato e la mescolanza di culture.
Eppure la storia – e in molti casi anche la cronaca – ci mostrano benissimo dove si annida la verità. Laddove si adotta un sano isolazionismo i popoli si mantengono, si preservano, conservano la loro identità; al contrario, le società multiculturali stanno portando all’estinzione i popoli europei e non solo.
L’isolazionismo come tale è uno dei nemici fondamentali dell’immigrazionismo, perché impedisce ad una comunità di venire in contatto con altre in maniera indiscriminata, prevenendo così il rimpiazzo di un popolo con un altro. Ciò che deve spingerci ad adottare un realistico isolazionismo oggi è la consapevolezza che esso è una necessità strategica per i popoli. Non viviamo più all’inizio del XX secolo, momento in cui la potenza delle nazioni veniva misurata su quanta terra riuscivano a conquestare; un periodo quello caratterizzato da una marcata omogeneità etnico-razziale. In tal senso i paesi degli inizi del ‘900 potevano impostare la loro politica su un imperialismo aggressivo ed espansionistico.
Oggi non c’è più nulla di tutto questo, allo sviluppo orizzontale si è sostituito quello verticale, nel senso che la tecnologia ha permesso di fare importanti passi in avanti nei settori produttivi. Le nazioni potenti non sono ormai solo individuate in quelle che hanno un numero elevato di popolazione o con una grande vastità di territori; le nazioni forti sono quelle che sanno tradurre in produttività l’intelligenza del popolo. Tra le virtù di una comunità vi è anche quella di capire che più un popolo si mantiene omogeneo e più ha possibilità di garantire sviluppo e benessere alla propria gente.
Questo cambio radicale di prospettiva ha portato quindi ad una diversa impostazione delle necessità di una comunità e di un popolo: oggi l’obiettivo è la difesa dei valori comuni e degli elementi etno-razziali della comunità. I popoli europei rischiano l’estinzione, anzi, si può dire che in alcune parti d’Europa il processo di rimpiazzo si è già da tempo innescato. Non è più questione di se ma di quando.
La peculiare situazione storico-sociale impone quindi la ripresa di un sincero isolazionismo, non certo per snobismo, ma per concreta necessità storica.
Ogni giorno sulle coste europee sbarcano migliaia di migranti, profughi, immigrati; una marea umana che non ha precedenti nella storia. Questa massa di persone proviene principalmente dall’Africa e dal Medioriente. Ci viene detto dalla propaganda immigrazionista che queste persone “scappano dalla guerra”, non tenendo in considerazione che una grande porzione di questi non ha mai né vissuto né combattuto una guerra.
Ma seguiamo per un momento il ragionamento immigrazionista: i popoli europei hanno il dovere di accogliere gente che scappa dalla guerra. Anche se ciò fosse vero, dobbiamo chiederci: perché accogliere persone che scappano da guerre con cui i popoli europei (o comunque buona parte di essi) non hanno nulla a che fare? Guerre provocate da chi? Che giovano a quale potere?
Non si è ancora visto un conflitto recente che giovasse al benessere economico e sociale dei popoli europei, anzi è l’esatto opposto! Ogni guerra è pronta a far muovere una massa umana di proporzioni colossali per creare il caos nelle vite di milioni di europei, a cui in ultima istanza non viene mai chiesto 1) se sia giusto partecipare ad una guerra e 2) se accettare sulla propria terra milioni di allogeni.
Questo stato di cose è intollerabile perché è divenuto una costante di tutti i conflitti della contemporaneità. Ogni volta che scoppia un conflitto decine, se non centinaia, di migliaia di soggetti sono pronti a salpare per paesi di cui non sanno nulla e in cui i popoli che li abitano devono accettarli in nome di un astratto concetto di diritto umano a senso unico.
Ma non è tutto. Accanto a questo il comportamento spregiudicato di certi governi fa in modo che i paesi di provenienza si liberino volentieri di popolazione in surplus, uomini in eccesso e criminali, da spedire tranquillamente in occidente, ben sapendo che esso non potrà opporsi.
Risulta più facile quindi capire che per rispondere a situazioni del genere una delle strade è quella di applicare una visione del mondo, della comunità e della politica che contempli l’isolazionismo. L’isolazionismo che preserva l’identità dei popoli, la loro cultura, la loro esistenza come entità organica e metafisica.
Uno degli esempi storici di isolazionismo più riusciti è indubbiamente il periodo Edo in Giappone, dal 1603 al 1868. Per oltre 250 anni il Giappone ha vissuto in quello che è la forma di isolazionismo più radicale: i giapponesi cacciarono dal loro territorio tutti gli stranieri, i mercanti, gli avventurieri, i missionari cristiani accusati di voler diffondere una religione aliena, i colonizzatori. Per due secoli e mezzo riuscirono a ridurre al minimo i contatti con l’esterno e dell’esterno con il paese.
Il risultato fu sorprendente: non solo il Giappone riuscì a porre le basi della nazione, ma riuscì anche a conservare l’omogeneità della popolazione. Si è già detto altrove, se il Giappone non avesse avuto il periodo Edo, oggi non conosceremmo il paese per come esso è, ma sarebbe molto probabilmente un paese più simile al Sudamerica.
Ma questo non è tutto, il periodo Edo fu un momento do grande sviluppo culturale, artistico e letterario. L’impronta che questo periodo storico lascerà sul Giappone e i giapponesi è innegabile. Eppure gli storici liberali e progressisti spesso preferiscono colpevolmente sorvolare sul Giappone di quei secoli. Il motivo è in quello che si diceva prima: non si può accettare il fatto che una comunità possa fiorire e progredire in un contesto di isolamento; non si può far conoscere ai popoli europei che isolarsi è spesso l’unica – e ultima – possibilità di preservare la loro identità. Per questo la propaganda preferisce tacere.
A questo punto comprendiamo l’obiezione di coloro che potrebbero dire: bene, l’isolazionismo del Giappone è avvenuto tra il 1603 e il 1868, un tempo in cui era difficile viaggiare, le comunicazioni erano ridotte al minimo e il Giappone, in quanto isola, era avvantaggiato nel potersi isolare. L’obiezione ha le sue ragioni, ed infatti qui non si sta proponendo un isolazionismo in cui si ponga il divieto di viaggiare o di comunicare con altri paesi, luoghi e comunità. L’isolazionismo qui deve intendersi come una strategia politico-sociale-culturale il cui obiettivo è il mantenimento e la preservazione della popolazione autoctona, etnicamente e razzialmente determinata.
Significa inoltre che una comunità non ha il dovere di pagare il prezzo delle conseguenze di guerre e conflitti che si combattono a migliaia di chilometri di distanza e di cui non trarrà nessun vantaggio; al contrario ne subirà le conseguenze in primis demografiche (che poi significa anche crisi economica, sociale e culturale).
L’isolazionismo va inquadrato in questa precisa ottica e gli esempi storici ci possono venire di grande aiuto. Se si accetta il fatto che la storia può ripetersi, potremmo accogliere anche la possibilità che ciò che è stato fatto nel passato, opportunamente e realisticamente rimodulato per il tempo presente, possa essere applicato ai problemi contemporanei.
L’altro esempio di isolazionismo degno di nota è quello che ha trovato spazio negli Stati Uniti negli anni ’30, e ancora di più nella primi anni ’40 del XX secolo. I due conflitti mondiali giocano un ruolo fondamentale per capire l’isolazionismo americano. L’esperienza tragica della primo e i rischi del secondo, portarono vasti strati della popolazione a pensare che il paese non avesse nulla da guadagnare nell’immischiarsi negli affari di nazioni lontane migliaia di chilometri.
Si deve notare che l’isolazionismo negli USA coincise anche con il periodo in cui fu attivo l’Immigration Act del 1924, la legge che limitava fortemente l’ingresso degli Stati Uniti di immigrati dall’Europa sud-orientale. Il periodo della Grande depressione fece addirittura, per alcuni anni, invertire la tendenza: vi erano più emigranti che immigrati.
Uno dei maggiori rappresentati dell’isolazionismo negli Stati Uniti fu Charles Lindbergh, famoso aviatore di orgini svedesi, forte oppositore dell’entrata in guerra degli USA contro la Germania nazionalsocialista. Il movimento America First, di cui Lindbergh fu portavoce, e che si batteva per il non intervento in guerra, arrivò a contare 800 mila membri nel 1941. America First adottava un’ideologia isolazionista, laddove per isolazionismo si intendeva proprio il non coinvolgimento degli USA in guerre, conflitti e affari che non avevano nulla a che fare con gli americani e da cui il popolo americano non avrebbe tratto nessun vantaggio.
L’isolazionismo è quindi per sua natura in opposizione totale ai famelici poteri che traggono enormi profitti dalle guerre, dall’immigrazione e dal multiculturalismo.
Questi poteri non possono sfruttare i popoli per il proprio tornaconto, ecco perché non amano e non possono sostenere l’isolazionismo; lo sfruttamento deve essere per forza senza confini, per la mescolanza dei popoli, per il conflitto tra le comunità.
Tuttavia l’obiettivo dell’isolazionismo non può ridursi semplicemente a ripudiare le guerre; l’aspetto fondamentale è quello di difendere l’identità etnico-razziale del popolo, la propria identità. Se l’isolazionismo non ha questo aspetto all’interno non riuscirà mai nel proprio intento: la guerra che non si vorrà combattere all’esterno sarà portata all’interno se non si comprende che la funzione dell’isolamento è quella di salvaguardare l’identità bioculturale di un popolo.
Oggi più che mai si impone l’emergenza di adottare un isolazionismo che non sia un puro e semplice aspetto di politica amministrativa, al contrario isolare deve essere una visione del mondo a medio e lungo termine.
Il tempo che viviamo lo impone, il declino dei popoli europei lo reclama, è una necessità che non può essere più rimandata. Bisogna essere pronti a capire che l’opposizione a questa visione del mondo è agguerrita e lo sarà sempre di più, per questo è essenziale una presa di coscienza della situazione attuale. La storia è dalla nostra parte e i dati parlano chiaro: se si ha il coraggio di adottare certe misure non ci può essere che un futuro positivo, se si continua a cedere sotto i colpi della propaganda non potremo che abbandonarci ad un destino di sparizione.
Signore e signori. Mi chiamo Ingrid Carlqvist e sono nata in Svezia nel 1960, quando i Socialdemocratici stavano per prendere il controllo in perpetuo e la nostra nazione era la più bella, la più sicura e la più avanzata nel mondo. Ora io vivo in Absurdistan, una nazione che ha le statistiche più alte di stupri nel mondo, centinaia di cosiddette “aree di esclusione” in cui le persone vivono al di fuori della società svedese, e con i quotidiani che nascondono alla gente tutti questi orribili fatti.
Mi sento proprio come Dorothy Gale ne Il Mago di Oz, un tornado è arrivato e mi ha portato molti chilometri lontana da casa, facendomi precipitare in una nazione che non conosco. Ora mi sento come se non fossi più in Svezia. Come Dorothy sto cercando un modo per trovare la mia casa, ma nel mio percorso incontro solo leoni senza coraggio, spaventapasseri senza cervello e uomini di latta senza cuore. Quando sono cresciuta il nostro primo ministro era Tage Erlander, un socialdemocratico. Nel 1965 disse in parlamento, dopo le violente rivolte razziali in America. “Noi svedesi viviamo in una situazione decisamente migliore. La popolazione della nostra nazione è omogenea, non solo per quanto riguarda la razza ma anche in molti altri aspetti”. Ora vivo in una nazione che non è omogenea in nessun aspetto. Olof Palme, che gli succedette, decise che l’omogeneità era una cosa negativa e aprì i confini a persone da tutto il mondo. E da destra a sinistra i politici ci dicevano che non esistevano cose come una cultura Svedese, delle tradizioni Svedesi meritevoli di essere menzionate e che noi svedesi dovevamo essere grati che così tante persone con una VERA cultura e delle VERE tradizioni venivano da noi.
Mona Sahlin, una leader successiva dei Socialdemocratici, in un’intervista del 2002 al giornale Euroturk, ad una domanda sulla cultura svedese risposte:
“Ho avuto spesso questa domanda, ma non riesco a pensare a cosa sia la cultura Svedese. Credo che è questo che rende noi svedesi così invidiosi verso gli immigrati. Voi avete una cultura, un’identità, qualcosa che vi lega gli uni agli altri. Noi cos’abbiamo? Abbiamo la vigilia del giorno di San Giovanni Battista e cose banali di questo tipo”.
Ha detto anche: “Gli svedesi si devono integrare nella nuova Svezia. La vecchia Svezia non torna più”.
Nella nuova Svezia vengono riportati più stupri che in qualunque altra nazione dell’UE, secondo uno studio del professore inglese Liz Kelly. Più di 5.000 stupri o tentati stupri sono stati registrati nel 2008 (l’anno prima erano oltre 6.000). Nel 2010 un altro studio ha affermato che solo una nazione nel mondo ha più stupri della Svezia, ovvero il Lesotho, nell’Africa meridionale… Per ogni 100.000 abitanti il Lesotho ha 92 stupri registrati, la Svezia 53, gli USA 29, la Norvegia 20 e la Danimarca 7.
Nel 1990 le autorità hanno conteggiato 3 aree di esclusione in Svezia, sobborghi in cui vivono la maggior parte degli immigrati, dove solo pochissimi lavorano, quasi tutti vivono di sussidi ed i loro figli non passano gli esami. Nel 2002 ne hanno conteggiate 128, nel 2006 ne avevamo 156 e poi hanno smesso di conteggiarle. In alcune città, come Malmö, dove vivo, un terzo degli abitanti vivono in una area di esclusione.
Cosa voleva dire Tage Erlander quando diceva che la popolazione svedese era omogenea non solo dal punto di vista razziale ma anche in molti altri aspetti? Penso intendesse cose come regole, valori, cultura e tradizioni. Un sentimento di sodalizio. Che tutti noi, nella Vecchia Svezia, avevamo una visione simile di ciò che era una buona società e di come risolvere i conflitti. CONOSCEVA la cultura svedese, a differenza di Mona Sahlin.
Nella Nuova Svezia abbiamo bisogno di poliziotti armati nei nostri ospedali perché le famiglie rivali si combattono nelle stanze degli ospedali. Si sparano l’un l’altro per strada, derubano e picchiano i vecchi. Il tasso di criminalità cresce ogni minuto, ma i politici e i giornalisti svedesi ci dicono che questo non ha assolutamente niente da fare con l’immigrazione. Il fatto che le nostre prigioni siano piene di stranieri è solo una coincidenza o è spiegato da fattori socio-economici.
Per molti anni sono stata una giornalista nei media mainstream. Ma sono stata sempre una sorta di piantagrane, sempre dubbiosa del fatto che ciò che mi dicevano le persone fosse LA VERITA’. Quando tutti andavano in una direzione, io giravo verso l’altra direzione per vedere cosa c’era lì.
Nel Gennaio 2011 era successo qualcosa che mi ha fatto perdere le ultime speranze nei giornalisti svedesi. Ero vicepresidente della Società dei Pubblicisti di Malmö ed avevo invitato il giornalista danese Mikael Jalving a parlare del suo libro in uscita “La Svezia senza filtri – Un viaggio nella Nazione del Silenzio”. Un giorno il presidente mi ha chiamato e mi ha detto “dobbiamo cancellare la presenza di Mikael Javing perché parlerà ad una riunione organizzata da un giornale chiamato “National Today”.
Non gli interessava, né interessava a nessun altro nel board d questa società di giornalisti che Jalving stava andando a parlare del suo libro. Andando a questa riunione sarebbe stato infettato da idee nazionaliste e probabilmente sarebbe diventato un nazi. Vedete, in Svezia tutti quelli con opinioni diverse sono dei nazi!
È così che funziona la Nuova Svezia, la nazione che chiamo Absurdistan. La nazione del silenzio.
Ero furiosa e ho lasciato il board di questa società. Questo mi ha portato ad essere invitata dalla Danish Free Press Society (ndt, società danese per la libera stampa) per parlare della strana nazione della Svezia e questo mi ha portato a fondare la Swedish Free Press Society (ndt, società svedese per la libera stampa).
È così che io e Lars Hedegaard ci siamo trovati. Ma non ci siamo accontentati di una sola Free Press Society per uno, dal momento che entrambi abbiamo un solido background di giornalisti abbiamo deciso di iniziare un giornale. Un buon giornale stampato vecchia scuola. Abbiamo deciso di chiamarlo Dispatch International (messaggio internazionale) perché la nostra intenzione è diffondere questo giornale in tutto il mondo prima o poi. Ma per prima cosa prendiamo Manhattan, poi Berlino. O piuttosto, prima ci prendiamo la Scandinavia e poi ci prendiamo il mondo!
Dispatch sarà stampato in due versioni, una in Danese e una in Svedese, ma tutti gli articoli saranno gli stessi. Su internet potrete leggerli anche in Inglese e Tedesco. Scriveremo di politica nelle nostre nazioni e nel mondo. Scriveremo di tutte queste cose che i media mainstream vi nascondono da così tanti anni. Distingueremo fra notizie e commenti ed il tono sarà attenuato. Lasceremo parlare i fatti, i fatti che i giornalisti mainstream nascondono alle persone.
La situazione in Svezia è molto peggio che in Danimarca. In Svezia NESSUNO parla dei problemi dell’immigrazione, della morte del progetto multiculturale o dell’islamizzazione/arabizzazione dell’Europa. Se lo fai sarai subito apostrofato come razzista, islamofobo o nazi. Questo è il mondo in cui sono stata chiamata fin da quando ho fondato la Free Press Society in Svezia. Il mio nome è stato infangato su grandi testate come Sydsvenskan, Svenska Dagbladet, e persino dal mio giornale sindacale, The Journalist.
Quindi ho bisogno che tutti voi siate la mia Glinda, la Strega Buona del Nord, e mi aiutate a ritrovare la mia casa! Non penso che funzionerà battere i talloni delle mie pantofole di rubino tre volte come Dorothy ha fatto per risvegliarsi nella sua camera da letto nel Kansas. Ma se supportate Dispatch iscrivendovi o diventando un azionista, o anche solo donandoci denaro, mi porterete un passo più vicino a casa. Alla Svezia com’era una volta, la Svezia che rivoglio indietro.
Recensione del libro in due volumi “Il tramonto dell’Europa” e “Il tramonto degli Stati Uniti d’America”.
Le proteste dei Black Lives Matter scaturite dalla morte di George Floyd hanno assunto una portata globale, mostrando al mondo l’utopia del modello multiculturale proiettato verso l’abisso tra tensioni etniche, e meccanismi di mercato. A questo punto c’è da farsi una domanda che cosa accade al “mondo bianco”? Afflitto dal declino demografico e sottoposto e immigrazione di massa dal Terzo Mondo, l’Occidente si avvia al tramonto della propria civiltà. Tra “white guilt”, inginocchiamenti di massa con il pugno alzato, blackwashing della storia europea, cancel culture, il “mondo bianco” diventa sempre più una civiltà fantasma. Questo saggio affronta il suo declino alla radice, riportando ciò che i mass-media mainstream non dicono: un viaggio nell’Europa che verrà, dove alla disgregazione delle identità si accompagna la terzomondizzazione del Continente.