LA NECESSITÀ DI ADOTTARE L’ISOLAZIONISMO

Edoardo Gagliardi

Il verbo isolare sta ad indicare una separazione di uno o più elementi da altri o da un ambiente, modo tale che non vi siano contatti o comunicazioni di sorta.

Nel mondo animale e umano quando un corpo avverte una minaccia tende ad isolarsi, per proteggere la propria esistenza. Il senso dell’isolazionismo politico è esattamente in questo: per preservare la propria esistenza una comunità deve avere il diritto di potersi isolare, se necessario anche chiudersi completamente al mondo esterno.

Fa impressione constatare che, mentre il verbo isolare è assolutamente accettato in medicina, biologia e scienze naturali, non lo è altrettanto nel mondo della politica e della vita sociale degli individui. Di solito si tende a giudicare un essere umano isolato come un outsider, una persona che rifugge il mondo. Allo stesso tempo, in campo politico, domina il paradigma multiculturale: le società non possono isolarsi, perché il loro obiettivo sarebbe quello di promuovere il meticciato e la mescolanza di culture.

Eppure la storia – e in molti casi anche la cronaca – ci mostrano benissimo dove si annida la verità. Laddove si adotta un sano isolazionismo i popoli si mantengono, si preservano, conservano la loro identità; al contrario, le società multiculturali stanno portando all’estinzione i popoli europei e non solo.

L’isolazionismo come tale è uno dei nemici fondamentali dell’immigrazionismo, perché impedisce ad una comunità di venire in contatto con altre in maniera indiscriminata, prevenendo così il rimpiazzo di un popolo con un altro. Ciò che deve spingerci ad adottare un realistico isolazionismo oggi è la consapevolezza che esso è una necessità strategica per i popoli. Non viviamo più all’inizio del XX secolo, momento in cui la potenza delle nazioni veniva misurata su quanta terra riuscivano a conquestare; un periodo quello caratterizzato da una marcata omogeneità etnico-razziale. In tal senso i paesi degli inizi del ‘900 potevano impostare la loro politica su un imperialismo aggressivo ed espansionistico.

Oggi non c’è più nulla di tutto questo, allo sviluppo orizzontale si è sostituito quello verticale, nel senso che la tecnologia ha permesso di fare importanti passi in avanti nei settori produttivi. Le nazioni potenti non sono ormai solo individuate in quelle che hanno un numero elevato di popolazione o con una grande vastità di territori; le nazioni forti sono quelle che sanno tradurre in produttività l’intelligenza del popolo. Tra le virtù di una comunità vi è anche quella di capire che più un popolo si mantiene omogeneo e più ha possibilità di garantire sviluppo e benessere alla propria gente.

Questo cambio radicale di prospettiva ha portato quindi ad una diversa impostazione delle necessità di una comunità e di un popolo: oggi l’obiettivo è la difesa dei valori comuni e degli elementi etno-razziali della comunità. I popoli europei rischiano l’estinzione, anzi, si può dire che in alcune parti d’Europa il processo di rimpiazzo si è già da tempo innescato. Non è più questione di se ma di quando.

La peculiare situazione storico-sociale impone quindi la ripresa di un sincero isolazionismo, non certo per snobismo, ma per concreta necessità storica.

Ogni giorno sulle coste europee sbarcano migliaia di migranti, profughi, immigrati; una marea umana che non ha precedenti nella storia. Questa massa di persone proviene principalmente dall’Africa e dal Medioriente. Ci viene detto dalla propaganda immigrazionista che queste persone “scappano dalla guerra”, non tenendo in considerazione che una grande porzione di questi non ha mai né vissuto né combattuto una guerra.

Ma seguiamo per un momento il ragionamento immigrazionista: i popoli europei hanno il dovere di accogliere gente che scappa dalla guerra. Anche se ciò fosse vero, dobbiamo chiederci: perché accogliere persone che scappano da guerre con cui i popoli europei (o comunque buona parte di essi) non hanno nulla a che fare? Guerre provocate da chi? Che giovano a quale potere?

Non si è ancora visto un conflitto recente che giovasse al benessere economico e sociale dei popoli europei, anzi è l’esatto opposto! Ogni guerra è pronta a far muovere una massa umana di proporzioni colossali per creare il caos nelle vite di milioni di europei, a cui in ultima istanza non viene mai chiesto 1) se sia giusto partecipare ad una guerra e 2) se accettare sulla propria terra milioni di allogeni.

Questo stato di cose è intollerabile perché è divenuto una costante di tutti i conflitti della contemporaneità. Ogni volta che scoppia un conflitto decine, se non centinaia, di migliaia di soggetti sono pronti a salpare per paesi di cui non sanno nulla e in cui i popoli che li abitano devono accettarli in nome di un astratto concetto di diritto umano a senso unico.

Ma non è tutto. Accanto a questo il comportamento spregiudicato di certi governi fa in modo che i paesi di provenienza si liberino volentieri di popolazione in surplus, uomini in eccesso e criminali, da spedire tranquillamente in occidente, ben sapendo che esso non potrà opporsi.

Risulta più facile quindi capire che per rispondere a situazioni del genere una delle strade è quella di applicare una visione del mondo, della comunità e della politica che contempli l’isolazionismo. L’isolazionismo che preserva l’identità dei popoli, la loro cultura, la loro esistenza come entità organica e metafisica.

Uno degli esempi storici di isolazionismo più riusciti è indubbiamente il periodo Edo in Giappone, dal 1603 al 1868. Per oltre 250 anni il Giappone ha vissuto in quello che è la forma di isolazionismo più radicale: i giapponesi cacciarono dal loro territorio tutti gli stranieri, i mercanti, gli avventurieri, i missionari cristiani accusati di voler diffondere una religione aliena, i colonizzatori. Per due secoli e mezzo riuscirono a ridurre al minimo i contatti con l’esterno e dell’esterno con il paese.

Il risultato fu sorprendente: non solo il Giappone riuscì a porre le basi della nazione, ma riuscì anche a conservare l’omogeneità della popolazione. Si è già detto altrove, se il Giappone non avesse avuto il periodo Edo, oggi non conosceremmo il paese per come esso è, ma sarebbe molto probabilmente un paese più simile al Sudamerica.

Ma questo non è tutto, il periodo Edo fu un momento do grande sviluppo culturale, artistico e letterario. L’impronta che questo periodo storico lascerà sul Giappone e i giapponesi è innegabile. Eppure gli storici liberali e progressisti spesso preferiscono colpevolmente sorvolare sul Giappone di quei secoli. Il motivo è in quello che si diceva prima: non si può accettare il fatto che una comunità possa fiorire e progredire in un contesto di isolamento; non si può far conoscere ai popoli europei che isolarsi è spesso l’unica – e ultima – possibilità di preservare la loro identità. Per questo la propaganda preferisce tacere.

A questo punto comprendiamo l’obiezione di coloro che potrebbero dire: bene, l’isolazionismo del Giappone è avvenuto tra il 1603 e il 1868, un tempo in cui era difficile viaggiare, le comunicazioni erano ridotte al minimo e il Giappone, in quanto isola, era avvantaggiato nel potersi isolare. L’obiezione ha le sue ragioni, ed infatti qui non si sta proponendo un isolazionismo in cui si ponga il divieto di viaggiare o di comunicare con altri paesi, luoghi e comunità. L’isolazionismo qui deve intendersi come una strategia politico-sociale-culturale il cui obiettivo è il mantenimento e la preservazione della popolazione autoctona, etnicamente e razzialmente determinata.

Significa inoltre che una comunità non ha il dovere di pagare il prezzo delle conseguenze di guerre e conflitti che si combattono a migliaia di chilometri di distanza e di cui non trarrà nessun vantaggio; al contrario ne subirà le conseguenze in primis demografiche (che poi significa anche crisi economica, sociale e culturale).

L’isolazionismo va inquadrato in questa precisa ottica e gli esempi storici ci possono venire di grande aiuto. Se si accetta il fatto che la storia può ripetersi, potremmo accogliere anche la possibilità che ciò che è stato fatto nel passato, opportunamente e realisticamente rimodulato per il tempo presente, possa essere applicato ai problemi contemporanei.

L’altro esempio di isolazionismo degno di nota è quello che ha trovato spazio negli Stati Uniti negli anni ’30, e ancora di più nella primi anni ’40 del XX secolo. I due conflitti mondiali giocano un ruolo fondamentale per capire l’isolazionismo americano. L’esperienza tragica della primo e i rischi del secondo, portarono vasti strati della popolazione a pensare che il paese non avesse nulla da guadagnare nell’immischiarsi negli affari di nazioni lontane migliaia di chilometri.

Si deve notare che l’isolazionismo negli USA coincise anche con il periodo in cui fu attivo l’Immigration Act del 1924, la legge che limitava fortemente l’ingresso degli Stati Uniti di immigrati dall’Europa sud-orientale. Il periodo della Grande depressione fece addirittura, per alcuni anni, invertire la tendenza: vi erano più emigranti che immigrati.

Uno dei maggiori rappresentati dell’isolazionismo negli Stati Uniti fu Charles Lindbergh, famoso aviatore di orgini svedesi, forte oppositore dell’entrata in guerra degli USA contro la Germania nazionalsocialista. Il movimento America First, di cui Lindbergh fu portavoce, e che si batteva per il non intervento in guerra, arrivò a contare 800 mila membri nel 1941. America First adottava un’ideologia isolazionista, laddove per isolazionismo si intendeva proprio il non coinvolgimento degli USA in guerre, conflitti e affari che non avevano nulla a che fare con gli americani e da cui il popolo americano non avrebbe tratto nessun vantaggio.

L’isolazionismo è quindi per sua natura in opposizione totale ai famelici poteri che traggono enormi profitti dalle guerre, dall’immigrazione e dal multiculturalismo.

Questi poteri non possono sfruttare i popoli per il proprio tornaconto, ecco perché non amano e non possono sostenere l’isolazionismo; lo sfruttamento deve essere per forza senza confini, per la mescolanza dei popoli, per il conflitto tra le comunità.

Tuttavia l’obiettivo dell’isolazionismo non può ridursi semplicemente a ripudiare le guerre; l’aspetto fondamentale è quello di difendere l’identità etnico-razziale del popolo, la propria identità. Se l’isolazionismo non ha questo aspetto all’interno non riuscirà mai nel proprio intento: la guerra che non si vorrà combattere all’esterno sarà portata all’interno se non si comprende che la funzione dell’isolamento è quella di salvaguardare l’identità bioculturale di un popolo.

Oggi più che mai si impone l’emergenza di adottare un isolazionismo che non sia un puro e semplice aspetto di politica amministrativa, al contrario isolare deve essere una visione del mondo a medio e lungo termine.

Il tempo che viviamo lo impone, il declino dei popoli europei lo reclama, è una necessità che non può essere più rimandata. Bisogna essere pronti a capire che l’opposizione a questa visione del mondo è agguerrita e lo sarà sempre di più, per questo è essenziale una presa di coscienza della situazione attuale. La storia è dalla nostra parte e i dati parlano chiaro: se si ha il coraggio di adottare certe misure non ci può essere che un futuro positivo, se si continua a cedere sotto i colpi della propaganda non potremo che abbandonarci ad un destino di sparizione.

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CHE COSA POSSIAMO IMPARARE DAL GIAPPONE

Edoardo Gagliardi

Sarebbe un errore pensare che solo l’Occidente sia in pericolo estinzione per quanto concerne la propria identità etnica, razziale e culturale. Anche l’Asia è finita sotto il mirino degli immigrazionisti che, seppur in misura minore rispetto all’Occidente, non mancano mai di sottolineare come ad esempio il Giappone abbia bisogno di una bella iniezione di immigrati, perché “la popolazione giapponese invecchia”. Non si fermeranno fino a quando non avranno portato a compimento il loro progetto, quello cioè di multiculturalizzare anche il Paese nipponico.

In questo articolo si tenterà di fare due cose: 1) mostrare al lettore che le preoccupazioni degli immigrazionisti sono infondate e 2) che noi Occidentali potremmo imparare davvero molto dalla storia del Giappone e di come esso si sia comportato nei riguardi dell’immigrazione e influenze straniere.

La popolazione totale del Giappone è stimata intorno ai 126 milioni (previsione aprile 2020)1, per una superficie di 377.975 km², nello specifico 343 ab./km². Considerando questi numeri non si può certo dire che la popolazione del Giappone sia poca, anzi, forse potrebbe apparire anche troppa vista la densità abitativa. Ora, se anche il Paese dovesse perdere qualche milione di abitanti, questo non comporterebbe nessun problema e non significherebbe nemmeno che vi sia la necessità di importare milioni di allogeni.

Ma guardiamo alla storia del Giappone, anche per comprendere come si possa imparare da questo Paese a gestire l’immigrazione. Gli storici occidentali imbevuti di marxismo culturale ignorano (volutamente) che il Giappone ha vissuto un periodo lungo oltre 250 anni, conosciuto con il nome di periodo Edo (1603-1868). Gli storici che non lo ignorano, liquidano questo periodo come uno dei momenti più bassi della civiltà giapponese, un periodo di “chiusura” al mondo esterno. Ebbene, se di chiusura si può parlare, bisogna dirlo forte: mai periodo fu più fecondo e prezioso per un popolo come quello Edo in Giappone.

In questo periodo non solo vi fu una fioritura culturale mai vista prima, ma si contribuì alla costruzione dell’identità nazionale. Il Giappone del periodo Edo chiuse le porte a tutte quelle forze politiche, economiche, culturali che volevano penetrare nel Paese per colonizzarlo, svuotarlo dall’interno. Se non si fosse avuto il periodo Edo, noi oggi probabilmente conosceremmo un Giappone diverso, nell’anima e nello spirito. Per usare un linguaggio occidentale si potrebbe dire che il Giappone ha adottato un saggo isolazionismo e protezionismo, non solo economico e politico, ma anche – e soprattutto – etnico-razziale. Questo non vuol dire affatto che gli stranieri non erano ammessi in Giappone, lo erano nella misura in cui il Giappone decideva che lo potevano essere. In altre parole, l’ingresso nel Paese era fortemente regolato e ristretto, ed era vietata qualsiasi libertà di movimento al suo interno.

Il popolo per formarsi ha bisogno di tempo e, nella sua fase di crescita ha bisogno di costruire un’identità che poi sarà alla base della formazione di una comunità, sia essa statale o nazionale. Il periodo Edo corrisponde ad un’età in cui il Giappone si andava formando come popolo e come identità nazionale, ed è per questo che i giapponesi intelligentemente compresero come la necessità di isolarsi fosse il prerequisito fondamentale. Il popolo al posto dell’economia; la costruzione dell’identità etnico-razziale al posto dell’estinzione multiculturale.

Il termine giapponese per indicare la chiusura al mondo esterno e la politica intrapresa nel periodo Edo è Sakoku (Paese chiuso). Come già detto, le influenze esterne, politiche, religiose ed economiche vennero quasi completamente annullate. Il Sakoku ci dimostra una grande verità: per preservare un popolo e costruire l’identità di una nazione l’isolamento è una fase necessaria, soprattutto quando il Paese è ancora in una fase embrionale, di costruzione della propria identità politica, culturale e spirituale. Nel mondo contemporaneo l’educazione e la propaganda inculcano l’esatto opposto: l’apertura e il mescolamento sono la via principale per lo sviluppo di un popolo e di una nazione. I fatti parlano più forte della propaganda: il giappone è rimasto giapponese, il mondo occidentale sta scomparendo, come popoli, come culture, come identità storica e politica. Per quanto tempo ancora vogliamo ignorare la realtà? E soprattutto, non sarebbe il caso, come europei, di guardare a modelli costruttivi di società anziché a modelli distruttivi?

Una delle più grandi operazioni culturali del periodo fu il Kokugaku, ovvero lo “studio nazionale”. Ci si accorse che vi era tutto un patrimonio di letteratura antica, leggende, miti, folklore, da riscoprire. Grazie ad esso si poteva costruire la nazione e l’identità di popolo. Questo movimento di riscoperta partiva da un presupposto basilare: ristabilire la purezza giapponese, il vero spirito del Giappone, non intaccato da influenze straniere.

In questo modo la cultura giapponese avrebbe acquistato una sua centralità nella costruzione dell’identità etnico-razziale. Infatti giapponese non è semplicemente colui che conosce la lingua, i costumi e che vive in Giappone, ma è colui che ha un legame di sangue con il resto della comunità, in maniera orizzontale e verticale: il vertice sta negli antichi, nella sorgente sacra da dove tutto nasce e scorre. Preservare la purezza significa conservare il legame con l’antichità. Si capisce allora il perché dell’isolazionismo giapponese.

Non ci si faccia ingannare, la fine del periodo Edo, non significa che il Giappone si apra completamente al mondo. Qui entra in gioco un altro modo di fare che l’Occidente dovrebbe imparare: il Giappone apprendeva dal mondo, ma rielaborava a modo suo, filtrando gli insegnamenti e le influenze del mondo attraverso il proprio sistema di valori e la propria visione del mondo. Questa peculiarità ha permesso al Giappone, pur distrutto dal II conflitto mondiale, di diventare una potenza mondiale.

Nel XX secolo il Giappone è divenuto una potenza militare e politica prima e poi, risorto dalle ceneri della guerra, ha saputo riconquistare un posto nel mondo delle potenze che contano. Ed è per questo che il visitatore occidentale si trova a volte spiazzato nel vedere come in terra nipponica si trovino le più moderne tecnologie accanto a tradizioni spirituali e di popoli antichissimi, ancora fortemente sentite dalle persone. Ma se questo è possibile, se l’economia, il consumismo (che pure esiste), l’immigrazionismo, non hanno (ancora) distrutto il Giappone, lo si deve anche – e forse soprattutto – al fatto che il Paese ha saputo mantenere per secoli l’omogeneità etnica e razziale. Mantenendo ferma quella, i sistemi politici ed economici sono potuti anche mutare, ma ciò non ha estinto il popolo.

Lo sanno bene gli immigrazionisti, che infatti battono sulla teoria dell’invecchiamento della popolazione per far digerire ai giapponesi milioni di immigrati sul proprio territorio. Che la saggezza della loro storia non li abbandoni ai tentacoli di questo pensiero velenoso!

In Occidente poi si tace colpevolmente sul fatto che, appunto, il Giappone ha saputo creare dal nulla una potenza economica senza importare un migrante di troppo (quelli che ci sono sono per la maggior parte coreani e cinesi). Ci viene detto che un Paese non può crescere senza l’apporto dei migranti, niente di più falso. Non solo il Giappone è cresciuto, ma è anche sopravvissuto. Avesse scelto un’altra strada oggi avremmo un Brasile al posto del Giappone.

Gli occidentali, in particolare un certo tipo di europei e statunitensi, dovrebbero anche comprendere che per un giapponese il termine etnia e razza non creano un senso di repulsione. Al contrario questi termini sono associati alla comunità. Quando si elogia il rigore, il rispetto per le regole, l’ordine della società giapponese, si ignora il fatto che questi elementi sono esattamente il frutto di una comunità compatta e coesa, che l’omogeneità etnico-razziale contribuisce a formare. Laddove manca questa omogeneità le energia di un popolo si perdono per affrontare i continui scontri con altre comunità, nella speranza di un’integrazione/assimilazione che non avverrà mai.

Sentirsi parte di un’identità etnico-razziale determinata è una caratteristica che va al di là delle formazioni politiche e delle scelte spirituali, è qualcosa di prepolitico e prespirituale.

Oggi, nel XXI secolo, il Giappone sta dimostrando ancora una volta la propria volontà di preservare l’identità del suo popolo. Basti soltanto raccontare di come in Giappone si stanno introducendo dei robot per accudire le persone anziane. Non quindi colf e badanti a migliaia, ma robot che sono prodotti in Giappone, progettati e assemblati da giapponesi. Invece di importare immigrati, si punta sulla tecnologia che offre lavoro ai locali. Esattamente l’opposto delle politiche che si mettono in atto in Europa. Il tasso di disoccupazione in Giappone è al 2,5%2, nell’area Euro è del 7,4%3, inondata da immigranti spesso non qualificati provenienti dall’Africa e dal Medioriente. Di qui la questione, davvero al Giappone servono altri milioni di abitanti? Innanzitutto se si volesse, basterebbe applicare serie politiche per stimolare la natalità, ma al netto di tutto questo, la domanda è: a che serve aumentare la popolazione se non è autoctona? Se ha perso completamente la propria identità etnica e razziale? Riteniamo non solo che non serva, ma sia anche controproducente. Non ci vuole molto per prendere un libro di storia, anche di quelli revisionisti, per rendersi conto che tutti gli esperimenti di società multiculturali (ovvero multietniche e multirazziali) hanno fallito. Laddove non hanno fallito mostrano profonde ferite dovute alle costanti tensioni tra le comunità costrette a vivere sullo stesso territorio.

Bisogna certamente essere sanamente realisti ed evidenziare due cose: 1) il Giappone non merita affatto apologie, non è un Paese senza problemi, tuttavia il fatto che abbia alcuni problemi non vuol dire che abbia i problemi che affliggono l’Europa. L’estinzione dei popoli europei è in atto, quella del popolo giapponese ancora no. Questo ci fa comprendere già come da quel popolo si può imparare molto. 2) I popoli sono composti da un aspetto biologico e uno culturale, uniti insieme a formare un’unità bioculturale che è alla base della differenziazione con altri popoli. Con questo si vuole dire che non si può semplicemente prendere un modello di popolo e calarlo dall’alto su un altro. Non funzionerebbe. Quello che si può fare però è iniziare a costruire un modello di società e di popolo basato su alti valori e questi valori possono venire anche da altre tradizioni, altre storie nazionali, per poi essere adattati e riapplicati. Si tratta di un processo che prende tempo, richiede sforzo ed energie, il tempo non è molto, ma l’obiettivo è la salvezza e il rilancio di quello che rimane dei popoli europei e della loro identità etnico-razziale.

1 https://www.stat.go.jp/english/data/jinsui/tsuki/index.html

2 https://www.stat.go.jp/english/data/roudou/results/month/index.html

3 https://www.statista.com/statistics/268830/unemployment-rate-in-eu-countries/

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