LA SVEZIA È LA MENO SICURA NAZIONE D’EUROPA

Dan Lyman

Fonte: InfoWars Europe

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Bild, quotidiano ritenuto il più apprezzato dai lettori tedeschi, ha analizzato i risultati di uno studio condotto dal Brottsførebyggande rådet, il Comitato Svedese per la Prevenzione del Crimine, sulla violenza legata alle armi da fuoco. Collegando gli esiti della ricerca ad altre note tendenze che interessano il Paese scandinavo, quali le gang ed il narcotraffico, la giornalista di Bild Ingrid Raagaard ha concluso che “le cose non possono più andare avanti così”.

“Nell’Unione Europea, una media di otto persone per milione cade ogni anno vittima di crimini violenti. In Svezia, tale dato si attestava intorno ai dodici morti assassinati ogni milione di abitanti. Concentrandosi sulle vittime di armi da fuoco, la differenza fra l’Europa e la Svezia si fa ancor più ampia. Se l’Unione Europea conta infatti una media di 1,6 uccisi con armi da fuoco ogni milione di abitanti, in Svezia se ne contano 4, quasi tre volte di più”, scrive Raagaard.

“Il divario aumenta ancor di più focalizzandosi sulla fascia d’età 20-29 anni. Nella maggior parte dei Paesi europei, il dato si attesta fra gli zero ed i quattro morti assassinati per milione; in Svezia, invece, ammontano addirittura a 18. In seconda posizione si attesta l’Olanda, che conta ‘solamente’ sei morti nel menzionato range anagrafico.

Raagaard colloca la preoccupante svolta intorno all’anno 2005, e da allora la situazione non ha fatto che peggiorare. Adesso, infatti, si contano circa 60 no-go zones in tutta la Svezia, situate perlopiù negli hinterland delle grandi città quali Stoccolma, Malmö, Göteborg, aree in cui il crimine allogeno regna incontrastato, e le forze dell’ordine non osano addentrarsi.

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I media mainstream si ostinano cocciutamente ad insistere che non vi siano ‘no-go zones’ di immigrati in Svezia, preferendo piuttosto parlare di ‘aree vulnerabili’. “Sempre più svedesi temono per le proprie vite, poiché spesso sono proprio semplici innocenti passanti a cader per primi vittime delle guerre fra gang”, continua Raagaard.

InfoWars Europe documenta con regolarità il dilagare del crimine in Svezia ed i preoccupanti eventi che la interessano, ancor più angosciante se si pensa che il Paese scandinavo – sino a non molto tempo fa – era considerata una delle nazioni più sicure e progredite del mondo.

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LONDRA, DOVE IN ALCUNE AREE IL 50% DEI RESIDENTI È NATO ALL’ESTERO

Martin Robinson

Fonte: Daily Mail

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Ecco le aree di Londra dove il 50% dei residenti è nato all’estero, mentre la popolazione della capitale raggiunge la cifra record di 8,6 milioni.

Questa mappa colorata della città di Londra mostra con chiarezza come vaste aree della Capitale siano ormai dominate da una serie di determinate nazionalità, in una città in cui un residente su tre è nato all’estero. La bandiera indiana sventola su dieci dei trentadue quartieri in cui la Capitale è divisa, mentre londinesi nati in Nigeria, Polonia, Turchia e Bangladesh sono già maggioranza in almeno tre aree urbane per gruppo. In alcuni quartieri – Westminster, Kensington, Chelsea e Brent, fra gli altri – più della metà della popolazione è nata fuori dai confini nazionali, stando alle cifre comunicate dall’Ufficio Statistiche del Sindaco.

Quest’anno, Londra ha raggiunto la quota record di 8,6 milioni di abitanti, con altri due milioni trasferitisi in città nel corso degli ultimi venti anni, la maggior parte dei quali dall’estero. Tali ragguardevoli cifre costituiscono un vero record dopo il precedente del 1939, precedente alle devastazioni occorse durante la Seconda Guerra Mondiale, ma a decorrere da allora, circa 2,2 milioni di londinesi hanno lasciato la città natale nel successivo mezzo secolo, per iniziare una nuova vita nelle contee vicine o in periferia.

Ecco i più rilevanti gruppi demografici stranieri a Londra suddivisi per distretto. La nazionalità indiana appare dominante in dieci aree.

Le statistiche mostrano inoltre come i quartieri centrali contino un tasso di popolazione immigrata assai più elevato rispetto alle zone più periferiche, con i nuovi arrivati inclini a stabilirsi in aree già densamente abitate da connazionali. Con il 53,3%, Brent e Haringey presentano la più alta percentuale di residenti forestieri, seguiti da Kensington, Chelsea e Westminster, oscillanti fra il 50,9% ed il 51,8%.

Fra il 1939 ed il 1991, Londra ha perduto un quarto della sua popolazione totale; oggi, circa 267.000 londinesi sono nati in India, 135.000 in Polonia, 113.000 in Pakistan, 126.000 in Bangladesh, 112.000 in Irlanda. Dei totali tre milioni di residenti non britannici, il 40% è europeo, il 30% asiatico o mediorientale, 20% africano, 10% americano o caraibico.

Illustrando le dinamiche di crescita della popolazione cittadina, il professor Michael Batty, dell’University College London, ha spiegato alla BBC: “In un periodo di trent’anni, il totale della popolazione è calato dagli originari 8 milioni a 6,6 circa, ciò a causa del fenomeno chiamato suburbanization – crescita delle periferie, aumento dell’acquisto di automobili, cambiamento dei trasporti e sgomberi dei bassifondi.” Quanto all’enorme crescita registrata nell’ultimo decennio, essa “va ricondotta essenzialmente alle migrazioni internazionali.”

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Gli esperti ritengono che entro il 2031 il numero di forestieri residenti a Londra supererà quello dei britannici autoctoni, basandosi su quanto si può desumere dal censimento del 2011. La popolazione immigrata della Capitale ammonterà in quell’anno ad almeno 5 milioni, dopo essere più che raddoppiata fra il 1971 ed il 2011 – anno dell’ultimo censimento – salendo da 1 a 3 milioni. Il numero dei londinesi non britannici condurrà il totale della popolazione cittadina a raggiungere e superare i 10 milioni di abitanti nel 2031, e gli 11 dieci anni dopo.

Tuttavia, laddove gli stranieri continueranno ad aumentare esponenzialmente nei prossimi decenni, i britannici autoctoni seguiteranno senza posa a diminuire. Analizzando l’ultimo censimento, si scopre che oltre 600.000 londinesi bianchi e britannici hanno abbandonato la capitale nel corso di circa un decennio – precisamente 620.000, fra il 2001 ed il 2011. Sarebbe come se una città delle dimensioni di Glasgow, abitata interamente da autoctoni, si trasferisse lontano dalla Capitale, lasciando i bianchi in minoranza nella città più grande dell’intero Paese. Se, infatti, nel 2001 i britannici bianchi ammontavano a circa il 58% della popolazione di Londra, oggi sono scesi a comporre appena il 45% del totale.

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SAVILE TOWN È QUESTO IL FUTURO DELLE PICCOLE CITTÀ EUROPEE?

Sue Reid

FONTE: Daily Mail

Dalla finestra del suo appartamento che si affaccia sul canale in un sobborgo di Dewsbury nello Yorkshire, una donna bionda guarda due figure femminili che passano mentre chiacchierano in una lingua straniera.

Entrambe le passanti sono coperte da abiti islamici neri, solo uno scorcio dei loro occhi si intravede dall’apertura di due centimetri nei veli che coprono i loro volti.

Loro, come molte donne musulmane che vivono qui, parlano poco o niente inglese. Molte di loro non avranno alcun contatto con persone di un’altra religione o cultura. Molte, immagino, sono state portate nel Regno Unito per sposare gli uomini britannici di origine sud asiatica che hanno fatto di questa zona la loro casa.

Le mogli hanno vite limitate: crescono i bambini, cucinano per le famiglie, o vanno agli eventi per sole donne nell’enorme moschea locale gestita dai Deobandi, una potente setta dell’Islam i cui predicatori più espliciti hanno esortato i seguaci a non mescolarsi con cristiani, ebrei o indù.

Siamo a Savile Town, una delle parti più razzialmente omogenee della Gran Bretagna: non perché tutti sono uomini o donne indigeni dello Yorkshire, ma esattamente il contrario.

Infatti non ci sono quasi residenti bianchi a Savile Town. Sorprendentemente, una ripartizione dettagliata dell’ultimo censimento del 2011 ha registrato che solo 48 delle 4.033 persone che vivono qui erano bianchi britannici.

Questo non sorprenderebbe la bionda Lorraine Matthews, che guarda le signore in burka dalla sua finestra. Lei è una receptionist dentista di 53 anni, una delle poche inglesi bianche rimaste nel reticolo di strade a terrazza di Savile Town. Quasi tutti gli altri residenti, secondo il censimento, hanno origini pakistane o indiane.

I loro antenati furono attirati a Savile Town come manodopera a basso costo per i lavori massacranti nelle fabbriche di lana che avevano reso Dewsbury una rinomata città tessile.

Questi laboriosi nuovi arrivati comprarono le loro case e aprirono negozi all’angolo che vendevano burka, tappetini per la preghiera e profumi che non contenevano alcol, in linea con le restrizioni del Corano.

Presto i nuovi arrivati hanno costruito la moschea che è progettata per ospitare 4.000 fedeli. Oggi, un tribunale della Sharia nelle vicinanze – criticato in un rapporto della Camera dei Lord per la discriminazione contro le donne nel divorzio e nelle controversie matrimoniali – fa ottimi affari sposando il rigido codice di giustizia islamica.

Anche la signora che vende gelati da un furgone durante l’estate indossa un burqa, e il macellaio che gira per le strade offre solo capra, agnello e struzzo halal.

State a Savile Town, come ho fatto io, e vedrete decine di ragazzi in abiti islamici che vanno e vengono dalle lezioni alla scuola madrasa della moschea, dove per ore e ore imparano a memoria il Corano.

E, in modo angosciante, ogni ragazza che ho visto – anche quelle di sei e sette anni che giocavano nel parco – era avvolta in un hijab da una spalla all’altra dell’abito per evitare che un uomo intraveda la sua carne.

Savile Town fu lasciata diventare un’enclave etnica. E sembra che questo distacco dalla società principale abbia avuto ripercussioni inquietanti. Perché questa piccola area ha prodotto diversi giovani jihadisti che sono scomparsi per combattere – e morire come attentatori suicidi – per lo Stato Islamico in Medio Oriente.

(Mohammed Sidique Khan, il leader degli attentatori che attaccarono Londra il 7 luglio 2005, era cresciuto nelle vicinanze. Ha dato l’addio alla moglie incinta nella loro casa a schiera prima di guidare i suoi compagni di attacco nella capitale per reclamare 52 vite innocenti in esplosioni su treni della metropolitana e autobus).

La vita a Savile Town è stata indagata all’inizio di quest’anno da Owen Bennett-Jones, l’ex corrispondente della BBC in Pakistan, che ha fatto luce sull’influenza del movimento Deobandi sulla popolazione musulmana qui.

Intervistato per il programma di Radio 4 era Mufti Mohammed Pandor, un funzionario civile e portavoce dei Deobandi. È arrivato dal Gujarat, in India, nel 1964, da bambino, con la sua famiglia.

Vive vicino a Savile Town, e si definirebbe un musulmano britannico. Eppure si è rifiutato di lasciare che l’intervistatore Bennett-Jones vedesse sua moglie quando il reporter ha visitato la casa della coppia, anche se le è stato permesso di fare il thè in cucina.

Pandor insiste che lei è completamente coperta quasi sempre, permettendole solo di sollevare il velo per i controlli dei passaporti negli aeroporti. La sua famiglia guarda raramente la televisione britannica e dice che tutta la musica non è islamica.

Nonostante sia consigliere religioso di due università – Bradford e Huddersfield – ha detto alla BBC che agli uomini musulmani dovrebbe essere permesso di entrare negli istituti di istruzione superiore solo per studiare e pregare, e “non per guardare le donne”.

“Se Maometto non l’ha fatto, noi non lo facciamo”, ha detto Pandor alla BBC, dicendo che i Deobandi sono un movimento “back to basics” i cui seguaci vivono nello stile di vita del Profeta, di 14 secoli fa.

Si potrebbe liquidare un pensiero così disperatamente arretrato come appannaggio di una piccola setta stravagante, ma i Deobandi gestiscono quasi la metà delle 1.600 moschee registrate nel Regno Unito, e formano l’80% di tutti i chierici islamici nazionali che, a loro volta, giocano un ruolo enorme nell’influenzare la crescente popolazione di musulmani britannici.

Forse non è una sorpresa che i pochi indigeni dello Yorkshire rimasti a Savile Town si sentano in qualche modo assediati.

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Lorraine Matthews, nella casa vicino al canale, è schietta nei suoi commenti sulla comunità in cui ora vive: “Non uscirei di notte da sola perché è pericoloso se non sei della comunità musulmana. Non è ragionevole per una donna camminare lì dopo il tramonto. I ragazzi asiatici si radunano agli angoli, ti fanno sentire intimidita perché non rispettano le donne bianche”.

Quando io stessa ho camminato lungo South Street verso la moschea, figure in burka hanno sbirciato fuori dalle loro finestre con le tende di pizzo con sorpresa nel vedere il volto di una donna scoperta.

Ho chiesto a un adolescente alto, che indossava un berretto islamico e abiti bianchi sui jeans, indicazioni per l’ingresso della moschea. La sua risposta è stata sputarmi addosso e gridare: “Vattene, non dovresti essere qui. Non tornare”.

È deprimente trovarsi di fronte a una tale aggressione. E non ho dubbi che anche molti musulmani si sentiranno angosciati da un tale comportamento. Non tutti i seguaci britannici dell’Islam desiderano vivere in aree dove persone di altre fedi o culture potrebbero temere di camminare.

Eppure, in luoghi come Savile Town, i presagi non sono buoni.

Per quanto poco piacevole possa essere per i liberali britannici, il fatto è che molti musulmani qui vogliono vivere solo con quelli della loro stessa cultura.

Infatti, alcuni dei pochi residenti non musulmani rimasti dicono di essere regolarmente presi di mira dai membri della comunità islamica locale che vogliono comprare le loro case.

Alcuni persino bussano alla porta in abiti religiosi che offrono mazzette di denaro in sacchetti di plastica per acquistare le loro case.

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Jean Wood, 76 anni, nata nello Yorkshire e frequentatrice della chiesa, è una residente di lunga data che si sente tagliata fuori. I suoi figli la pregano di trasferirsi in una zona dove possa condividere la sua pensione con il tipo di persone con cui è cresciuta.

Nella sua casa ordinata ai margini di Savile Town, mi ha raccontato cosa è successo il giorno dopo che suo marito è morto improvvisamente mentre era seduto al tavolo della cucina.

“Non se n’era andato neanche da 24 ore quando una vicina musulmana spinse un biglietto attraverso la porta dicendo che voleva comprare questa casa”, ricorda. “Avevamo vissuto qui tutta la nostra vita da sposati”. Ero addolorata, anche se il biglietto non menzionava la mia perdita.

“Ma ho raccolto le mie forze. Ho telefonato al numero sul pezzo di carta e ho detto che la mia casa non era in vendita e che non lo sarebbe mai stata durante la mia vita”.

Erano parole coraggiose, ma – inevitabilmente – il portavoce dei Deobandi, Mufti Pandor, la vede diversamente.

Ha descritto, su Radio 4, come la ‘white flight’ sia avvenuta quando la sua famiglia è arrivata a Savile Town. “Chi avrebbe comprato la casa accanto alla nostra?” ha detto Pandor. “Certamente non sarebbe stato un bianco… così mio zio la comprò. Allora eravamo in due. Allora indovina cosa è successo? Il tizio di fronte ha detto: ‘Fanculo, me ne vado’ – e se n’è andato”.

Non è difficile capire perché, con i sospetti che corrono in profondità su entrambi i lati della divisione culturale, Savile Town sta, nel bene e nel male, cambiando per sempre.

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LA NECESSITÀ DI ADOTTARE L’ISOLAZIONISMO

Edoardo Gagliardi

Il verbo isolare sta ad indicare una separazione di uno o più elementi da altri o da un ambiente, modo tale che non vi siano contatti o comunicazioni di sorta.

Nel mondo animale e umano quando un corpo avverte una minaccia tende ad isolarsi, per proteggere la propria esistenza. Il senso dell’isolazionismo politico è esattamente in questo: per preservare la propria esistenza una comunità deve avere il diritto di potersi isolare, se necessario anche chiudersi completamente al mondo esterno.

Fa impressione constatare che, mentre il verbo isolare è assolutamente accettato in medicina, biologia e scienze naturali, non lo è altrettanto nel mondo della politica e della vita sociale degli individui. Di solito si tende a giudicare un essere umano isolato come un outsider, una persona che rifugge il mondo. Allo stesso tempo, in campo politico, domina il paradigma multiculturale: le società non possono isolarsi, perché il loro obiettivo sarebbe quello di promuovere il meticciato e la mescolanza di culture.

Eppure la storia – e in molti casi anche la cronaca – ci mostrano benissimo dove si annida la verità. Laddove si adotta un sano isolazionismo i popoli si mantengono, si preservano, conservano la loro identità; al contrario, le società multiculturali stanno portando all’estinzione i popoli europei e non solo.

L’isolazionismo come tale è uno dei nemici fondamentali dell’immigrazionismo, perché impedisce ad una comunità di venire in contatto con altre in maniera indiscriminata, prevenendo così il rimpiazzo di un popolo con un altro. Ciò che deve spingerci ad adottare un realistico isolazionismo oggi è la consapevolezza che esso è una necessità strategica per i popoli. Non viviamo più all’inizio del XX secolo, momento in cui la potenza delle nazioni veniva misurata su quanta terra riuscivano a conquestare; un periodo quello caratterizzato da una marcata omogeneità etnico-razziale. In tal senso i paesi degli inizi del ‘900 potevano impostare la loro politica su un imperialismo aggressivo ed espansionistico.

Oggi non c’è più nulla di tutto questo, allo sviluppo orizzontale si è sostituito quello verticale, nel senso che la tecnologia ha permesso di fare importanti passi in avanti nei settori produttivi. Le nazioni potenti non sono ormai solo individuate in quelle che hanno un numero elevato di popolazione o con una grande vastità di territori; le nazioni forti sono quelle che sanno tradurre in produttività l’intelligenza del popolo. Tra le virtù di una comunità vi è anche quella di capire che più un popolo si mantiene omogeneo e più ha possibilità di garantire sviluppo e benessere alla propria gente.

Questo cambio radicale di prospettiva ha portato quindi ad una diversa impostazione delle necessità di una comunità e di un popolo: oggi l’obiettivo è la difesa dei valori comuni e degli elementi etno-razziali della comunità. I popoli europei rischiano l’estinzione, anzi, si può dire che in alcune parti d’Europa il processo di rimpiazzo si è già da tempo innescato. Non è più questione di se ma di quando.

La peculiare situazione storico-sociale impone quindi la ripresa di un sincero isolazionismo, non certo per snobismo, ma per concreta necessità storica.

Ogni giorno sulle coste europee sbarcano migliaia di migranti, profughi, immigrati; una marea umana che non ha precedenti nella storia. Questa massa di persone proviene principalmente dall’Africa e dal Medioriente. Ci viene detto dalla propaganda immigrazionista che queste persone “scappano dalla guerra”, non tenendo in considerazione che una grande porzione di questi non ha mai né vissuto né combattuto una guerra.

Ma seguiamo per un momento il ragionamento immigrazionista: i popoli europei hanno il dovere di accogliere gente che scappa dalla guerra. Anche se ciò fosse vero, dobbiamo chiederci: perché accogliere persone che scappano da guerre con cui i popoli europei (o comunque buona parte di essi) non hanno nulla a che fare? Guerre provocate da chi? Che giovano a quale potere?

Non si è ancora visto un conflitto recente che giovasse al benessere economico e sociale dei popoli europei, anzi è l’esatto opposto! Ogni guerra è pronta a far muovere una massa umana di proporzioni colossali per creare il caos nelle vite di milioni di europei, a cui in ultima istanza non viene mai chiesto 1) se sia giusto partecipare ad una guerra e 2) se accettare sulla propria terra milioni di allogeni.

Questo stato di cose è intollerabile perché è divenuto una costante di tutti i conflitti della contemporaneità. Ogni volta che scoppia un conflitto decine, se non centinaia, di migliaia di soggetti sono pronti a salpare per paesi di cui non sanno nulla e in cui i popoli che li abitano devono accettarli in nome di un astratto concetto di diritto umano a senso unico.

Ma non è tutto. Accanto a questo il comportamento spregiudicato di certi governi fa in modo che i paesi di provenienza si liberino volentieri di popolazione in surplus, uomini in eccesso e criminali, da spedire tranquillamente in occidente, ben sapendo che esso non potrà opporsi.

Risulta più facile quindi capire che per rispondere a situazioni del genere una delle strade è quella di applicare una visione del mondo, della comunità e della politica che contempli l’isolazionismo. L’isolazionismo che preserva l’identità dei popoli, la loro cultura, la loro esistenza come entità organica e metafisica.

Uno degli esempi storici di isolazionismo più riusciti è indubbiamente il periodo Edo in Giappone, dal 1603 al 1868. Per oltre 250 anni il Giappone ha vissuto in quello che è la forma di isolazionismo più radicale: i giapponesi cacciarono dal loro territorio tutti gli stranieri, i mercanti, gli avventurieri, i missionari cristiani accusati di voler diffondere una religione aliena, i colonizzatori. Per due secoli e mezzo riuscirono a ridurre al minimo i contatti con l’esterno e dell’esterno con il paese.

Il risultato fu sorprendente: non solo il Giappone riuscì a porre le basi della nazione, ma riuscì anche a conservare l’omogeneità della popolazione. Si è già detto altrove, se il Giappone non avesse avuto il periodo Edo, oggi non conosceremmo il paese per come esso è, ma sarebbe molto probabilmente un paese più simile al Sudamerica.

Ma questo non è tutto, il periodo Edo fu un momento do grande sviluppo culturale, artistico e letterario. L’impronta che questo periodo storico lascerà sul Giappone e i giapponesi è innegabile. Eppure gli storici liberali e progressisti spesso preferiscono colpevolmente sorvolare sul Giappone di quei secoli. Il motivo è in quello che si diceva prima: non si può accettare il fatto che una comunità possa fiorire e progredire in un contesto di isolamento; non si può far conoscere ai popoli europei che isolarsi è spesso l’unica – e ultima – possibilità di preservare la loro identità. Per questo la propaganda preferisce tacere.

A questo punto comprendiamo l’obiezione di coloro che potrebbero dire: bene, l’isolazionismo del Giappone è avvenuto tra il 1603 e il 1868, un tempo in cui era difficile viaggiare, le comunicazioni erano ridotte al minimo e il Giappone, in quanto isola, era avvantaggiato nel potersi isolare. L’obiezione ha le sue ragioni, ed infatti qui non si sta proponendo un isolazionismo in cui si ponga il divieto di viaggiare o di comunicare con altri paesi, luoghi e comunità. L’isolazionismo qui deve intendersi come una strategia politico-sociale-culturale il cui obiettivo è il mantenimento e la preservazione della popolazione autoctona, etnicamente e razzialmente determinata.

Significa inoltre che una comunità non ha il dovere di pagare il prezzo delle conseguenze di guerre e conflitti che si combattono a migliaia di chilometri di distanza e di cui non trarrà nessun vantaggio; al contrario ne subirà le conseguenze in primis demografiche (che poi significa anche crisi economica, sociale e culturale).

L’isolazionismo va inquadrato in questa precisa ottica e gli esempi storici ci possono venire di grande aiuto. Se si accetta il fatto che la storia può ripetersi, potremmo accogliere anche la possibilità che ciò che è stato fatto nel passato, opportunamente e realisticamente rimodulato per il tempo presente, possa essere applicato ai problemi contemporanei.

L’altro esempio di isolazionismo degno di nota è quello che ha trovato spazio negli Stati Uniti negli anni ’30, e ancora di più nella primi anni ’40 del XX secolo. I due conflitti mondiali giocano un ruolo fondamentale per capire l’isolazionismo americano. L’esperienza tragica della primo e i rischi del secondo, portarono vasti strati della popolazione a pensare che il paese non avesse nulla da guadagnare nell’immischiarsi negli affari di nazioni lontane migliaia di chilometri.

Si deve notare che l’isolazionismo negli USA coincise anche con il periodo in cui fu attivo l’Immigration Act del 1924, la legge che limitava fortemente l’ingresso degli Stati Uniti di immigrati dall’Europa sud-orientale. Il periodo della Grande depressione fece addirittura, per alcuni anni, invertire la tendenza: vi erano più emigranti che immigrati.

Uno dei maggiori rappresentati dell’isolazionismo negli Stati Uniti fu Charles Lindbergh, famoso aviatore di orgini svedesi, forte oppositore dell’entrata in guerra degli USA contro la Germania nazionalsocialista. Il movimento America First, di cui Lindbergh fu portavoce, e che si batteva per il non intervento in guerra, arrivò a contare 800 mila membri nel 1941. America First adottava un’ideologia isolazionista, laddove per isolazionismo si intendeva proprio il non coinvolgimento degli USA in guerre, conflitti e affari che non avevano nulla a che fare con gli americani e da cui il popolo americano non avrebbe tratto nessun vantaggio.

L’isolazionismo è quindi per sua natura in opposizione totale ai famelici poteri che traggono enormi profitti dalle guerre, dall’immigrazione e dal multiculturalismo.

Questi poteri non possono sfruttare i popoli per il proprio tornaconto, ecco perché non amano e non possono sostenere l’isolazionismo; lo sfruttamento deve essere per forza senza confini, per la mescolanza dei popoli, per il conflitto tra le comunità.

Tuttavia l’obiettivo dell’isolazionismo non può ridursi semplicemente a ripudiare le guerre; l’aspetto fondamentale è quello di difendere l’identità etnico-razziale del popolo, la propria identità. Se l’isolazionismo non ha questo aspetto all’interno non riuscirà mai nel proprio intento: la guerra che non si vorrà combattere all’esterno sarà portata all’interno se non si comprende che la funzione dell’isolamento è quella di salvaguardare l’identità bioculturale di un popolo.

Oggi più che mai si impone l’emergenza di adottare un isolazionismo che non sia un puro e semplice aspetto di politica amministrativa, al contrario isolare deve essere una visione del mondo a medio e lungo termine.

Il tempo che viviamo lo impone, il declino dei popoli europei lo reclama, è una necessità che non può essere più rimandata. Bisogna essere pronti a capire che l’opposizione a questa visione del mondo è agguerrita e lo sarà sempre di più, per questo è essenziale una presa di coscienza della situazione attuale. La storia è dalla nostra parte e i dati parlano chiaro: se si ha il coraggio di adottare certe misure non ci può essere che un futuro positivo, se si continua a cedere sotto i colpi della propaganda non potremo che abbandonarci ad un destino di sparizione.

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LA VERA STORIA DI HAITI

Il massacro dei bianchi sotto il dominio nero.

Bredford Hanson

Fonte: National Vanguard

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Lo stato caraibico di Haiti costituisce un impressionante monito di quanto possa essere devastante la schiavitù. All’alba del 1804, un effetto combinato di tredici anni di sommosse, omicidi e terrorismo avevano distrutto la popolazione bianca di Haiti, insieme con l’intera produzione agricola e l’economia di quella che era stata un tempo la colonia più florida dell’intero emisfero occidentale.

L’isola, originariamente denominata San Domingo, era divenuta il centro delle manovre spagnole sotto Hernando Cortes. Gli spagnoli mantennero una modesta presenza nel settore orientale dell’isola, avamposto oggi noto come Repubblica Dominicana. Il settore occidentale dell’isola, invece, era stato occupato dalle compagnie mercantili francesi nel 1697 e rinominato Saint-Domingue; proprio qui, sul lato est, ebbe luogo la feroce guerra razziale di cui andiamo trattando.

I locali amerindi, soprannominati “canibales” dagli spagnoli a motivo delle loro usanze antropofaghe, erano stati ridotti ad una sostanziale insignificanza dalla forza militare della corona di Spagna, dalla schiavitù, e da numerose malattie aventi origine in Europa, rispetto alle quali il loro organismo non possedeva alcuna difesa immunitaria. Pertanto, i francesi non tardarono ad iniziare ad importare schiavi africani per garantirsi manodopera nella colonia.

Nel 1789, Saint-Domingue era la punta di diamante dell’intero impero coloniale francese. Il suo clima ideale ed il suo suolo naturalmente fertile donava più zucchero, caffè, cotone di tutte le altre colonie nord-americane sommate insieme. La produzione di zucchero di Saint-Domingue non solo soddisfaceva completamente il fabbisogno francese, ma addirittura quello di circa metà continente europeo.

La ricchezza di Saint-Domingue era leggendaria, ed al deflagrare della Rivoluzione Francese, circa 40000 bianchi risiedevano nella colonia. Ciononostante, anche 450000 schiavi neri si trovavano sull’isola, faticando nei campi per garantire la loro prodigiosa resa agricola, ed a questo computo va aggiunta anche la compresenza di circa 27000 mulatti. Questa enorme popolazione non-bianca, perlopiù composta da schiavi, rappresentò la bomba demografica che finì per distruggere la colonia bianca di Saint-Domingue.

La Rivoluzione Francese del 1789 fu la scintilla che incendiò le tensioni razziali che da tempo ribollivano sottotraccia nella colonia. Un decreto dell’Assemblea Nazionale, datato 15 maggio 1791, concesse il diritto di voto sia alla popolazione bianca dell’isola, che a quella mulatta.

I coloni bianchi immediatamente protestarono. Il governatore generale dell’isola Blanchelande – nome appropriatissimo il suo – inviò una missiva a Parigi, avvisando i suoi superiori che l’implementazione di tali nuove norme avrebbe portato ad una “spaventosa guerra civile”, e addirittura alla perdita della colonia.

L’Assemblea Nazionale ritirò pertanto il precedente decreto, e stabilì che sarebbe toccato ai coloni stessi decidere quale forma di governo sarebbe stata più adeguata per la realtà locale, date le peculiari circostanze. Quando la notizia circolò a Saint-Domingue, la tensione crebbe. La popolazione mulatta, in particolare, si infuriò al sapere che solo pochi mesi dopo aver ricevuto il diritto di voto, questo diritto veniva loro revocato.

Un forte gruppo di pressione avverso alla schiavitù, denominato Amis des Noirs (“amici dei neri”), vide la luce in Francia, e divenne sempre più potente nel corso della Rivoluzione. Tale gruppo abolizionista domandava a gran voce l’emancipazione e la totalità dei diritti politici per l’intera popolazione non-bianca di Saint-Domingue, nera e mulatta, e reagì con furioso sdegno al secondo decreto che sottraeva agli individui di razza mista il diritto di eleggere i propri rappresentanti.

Come risultato degli sforzi del gruppo, l’Assemblea Nazionale varò un terzo decreto, volto a restituire ai mulatti ed ai “neri liberi” – i neri sciolti da qualunque legame di schiavitù – la piena cittadinanza politica. Quando la notizia si diffuse a Saint-Domingue, la popolazione nera diede il via ad una violenta rivolta armata, che vide individui bianchi attaccati a vista, piantagioni bruciate e rase al suolo, e l’intera isola sprofondata nel caos. La popolazione mulatta inizialmente parteggiò per i bianchi, ma presto salì sul carro del vincitore, sottomettendosi al nuovo dominio nero.

Al termine della sommossa, l’intero numero dei bianchi ad Haiti – uomini, donne e bambini – era stato trucidato. Dopo aver sterminato i bianchi, la popolazione nera non tardò a riversare la propria ira sui propri alleati mulatti, ed anch’essi furono massacrati senza pietà.

Il caos assoluto regnò fino al 1802, quando un distaccamento di ventimila soldati francesi fu inviato da Napoleone Bonaparte a ripristinare l’ordine sull’isola. Le forze francesi, sotto il comando del cognato di Napoleone, generale Leclerc, schiacciarono poderosamente la ribellione. Gli insorti furono inseguiti in ogni anfratto dove tentarono di rifugiarsi, ed i principali loro leader furono costretti a giurare fedeltà al nuovo governo francese.

Quando la situazione sembrava ormai essersi stabilizzata, si verificarono però due eventi disastrosi. Il primo di essi fu la reintroduzione della schiavitù da parte del governo napoleonico, ed il secondo l’esplosione del contagio epidemico da febbre gialla a Saint-Domingue. La concreta possibilità di un imminente ritorno della schiavitù riattizzò le sommosse nere sull’isola. Nel frattempo, le già assottigliate schiere francesi venivano decimate dalla malattia, capace di uccidere fino a centosessanta soldati al giorno. Entro il mese di agosto del 1802, quattro quinti delle truppe francesi giunte in precedenza quello stesso anno erano già stati annientati dal contagio.

Napoleone si risolse ad inviare ad Haiti forze fresche per rinvigorire la privatissima guarnigione francese. I nuovi soldati – circa diecimila – si trovarono ad essere aggrediti dalla febbre gialla, ed i rivoltosi neri, perlopiù immuni al morbo, ne approfittarono per attaccarli su larga scala. La situazione sull’isola, pertanto, ne risultò una volta ancora deteriorata.

In breve tempo, il conflitto prese una piega ancora più odiosa. Le autorità francesi decisero che l’unico modo per porre fine ad una guerra razziale che perdurava già da dodici anni fosse quello di giustiziare in massa tutti gli abitanti neri di età superiore ai venti anni. La ragione di ciò risiedeva nel fatto che verosimilmente nessun adulto nero, reduce da oltre un decennio di assalti razziali contro i bianchi, si sarebbe docilmente rassegnato a tornare a lavorare nei campi. I francesi ritennero di applicare il medesimo metro di giudizio alle donne nere, dal momento che le femmine di quella razza avevano dato prova di una crudeltà persino più abietta nei confronti dei prigionieri bianchi rispetto ai loro uomini. Con energia spietata, le superstiti truppe francesi eseguirono i nuovi ordini, e numerosi individui di origine africana furono uccisi in una maniera tanto arbitraria, ed entrambi gli schieramenti si trovarono avvinti in una spirale di reciproche atrocità che pareva davvero destinata a non conoscere una fine.

L’eco delle recenti guerre napoleoniche non tardò a giungere fin sull’isola. La Francia si trovò coinvolta in una guerra marittima con l’Inghilterra, ed i possedimenti coloniali di Saint-Domingue finirono sotto attacco. La marina inglese circondò l’isola, tagliò i viveri alla guarnigione francese, e rifornì i rivoltosi neri di armi da fuoco e munizioni.

Il principale capo ribelle nero, Dessalines, lanciò un’elevata quantità di attacchi contro i francesi, sempre più isolati ed asserragliati in alcuni villaggi della costa. Dessalines conquistò in breve villaggio dopo villaggio, e si curò di sterminare metodicamente tutti i bianchi presi prigionieri. Il 10 novembre 1803, gli stremati francesi dichiararono la propria resa alla flotta inglese ancorata alla rada. Dei 50000 soldati francesi inviati sull’isola, soltanto poche migliaia riuscirono a far ritorno alla madrepatria.

Con la partenza dei francesi, il leader nero Dessalines poté istituire, liberamente e senza ostacoli, il proprio regno di terrore, e la sua furia si abbatté su ogni bianco che malauguratamente ancora si trovava sul territorio dello stato. Saint-Domingue fu ufficialmente rinominata Haiti nel mese di dicembre del 1803, e dichiarata indipendente. Il Paese divenne la seconda Nazione indipendente nell’emisfero occidentale (dopo gli Stati Uniti d’America), e la prima guidata da un governo nero in tutti i Caraibi.

Dopo aver eliminato i bianchi, i neri ed i mulatti si scagliarono gli uni contro gli altri in una nuova guerra razziale, e questi ultimi finirono per essere sterminati quasi completamente, con Dessalines che – nell’ottobre del 1804 – dichiarò la vittoria della propria gente e si proclamò “imperatore a vita” di Haiti.

Quello stesso anno, Dessalines domandò ai bianchi che avevano lasciato Haiti di farvi ritorno, affinché contribuissero al rilancio dell’economia. Un numero sorprendentemente alto di ex-coloni accettò l’offerta, ma quando costoro si resero presto conto di aver commesso un gravissimo errore, era ormai troppo tardi.

Nel 1805, infatti, la popolazione nera si sollevò nuovamente contro gli insediamenti bianchi. Dessalines non si mostrò in grado di controllare le folle, nonostante le promesse di aiuto fatte ai bianchi che aveva fatto tornare, e gli europei si trovarono ancora una volta oggetto di una spietata caccia all’uomo. In data 18 marzo 1805, l’ultimo bianco di Haiti fu infine ucciso.

Saint-Domingue, che sotto il dominio francese era una delle terre più ricche di tutti i Caraibi, è oggi un ammasso di macerie da terzo mondo, pervaso da povertà, anarchia e caos. Questo stato dell’arte appare ancora più significativo se si considera che lo stato indipendente di Haiti è di soli trentacinque anni più giovane degli Stati Uniti d’America.

Ciò emerge dunque come un colpo fatale per la teoria “ambientale” dello sviluppo – se il tempo ed il contesto fossero gli unici fattori in grado di influenzare un processo di civilizzazione, Haiti dovrebbe, in quanto a progresso, trovarsi teoricamente a rivaleggiare con gli Stati Uniti.

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STORIA E DECLINO DEGLI STATI UNITI D’AMERICA

Riccardo Tennenini e Nicola Sgueo

Recensione del libro in due volumi “Il tramonto dell’Europa” e “Il tramonto degli Stati Uniti d’America”.

Le proteste dei Black Lives Matter scaturite dalla morte di George Floyd hanno assunto una portata globale, mostrando al mondo l’utopia del modello multiculturale proiettato verso l’abisso tra tensioni etniche, e meccanismi di mercato. A questo punto c’è da farsi una domanda che cosa accade al “mondo bianco”? Afflitto dal declino demografico e sottoposto e immigrazione di massa dal Terzo Mondo, l’Occidente si avvia al tramonto della propria civiltà. Tra “white guilt”, inginocchiamenti di massa con il pugno alzato, blackwashing della storia europea, cancel culture, il “mondo bianco” diventa sempre più una civiltà fantasma. Questo saggio affronta il suo declino alla radice, riportando ciò che i mass-media mainstream non dicono: un viaggio nell’Europa che verrà, dove alla disgregazione delle identità si accompagna la terzomondizzazione del Continente.

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GLI STATI UNITI SARANNO “UNA MINORANZA BIANCA” GIA’ NEL 2045

William H. Frey

La giovinezza delle minoranze sarà il motore della futura crescita.

Fonte: Brookings

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Nuovi censimenti ribadiscono l’importanza delle minoranze razziali come primario motore demografico della futura crescita della Nazione, dinanzi al prossimo declino di una popolazione bianca sempre più vecchia, e dalla crescita sempre più lenta. Le più recenti statistiche, infatti, prospettano che gli Stati Uniti vedranno una “minoranza bianca” già dal 2045. Nel corso di quell’anno, i bianchi comporranno il 49,7% della popolazione, in contrasto con il 24,6% di ispanici, il 13,1% di neri, il 7,9% di asiatici, ed il 3,8 di individui di razza mista.

Tale spostamento di equilibri è il risultato di due differenti tendenze. In primis, fra il 2018 ed il 2060 le combinate minoranze razziali continueranno ad aumentare, crescendo di 74 punti percentuali. In secondo luogo, durante questo lasso di tempo, la sempre più vecchia popolazione bianca vedrà per il 2024 un modesto aumento immediato, seguito da un declino a lungo termine sino almeno al 2060, conseguenza di un tasso di mortalità inferiore a quello di natalità.

Fra le diverse minoranze, la maggiore crescita andrà a registrarsi fra individui di razza mista, asiatici ed ispanici, con tassi di crescita fra il 2018 ed il 2060 ammontanti rispettivamente al 176%, 93% ed 86%. L’origine di tale crescita demografica varia rispetto ai differenti gruppi. Per esempio, l’immigrazione contribuisce ad un terzo dell’incremento ispanico, con i rimanenti due terzi attribuibili all’aumento naturale (le nascite che superano le morti). Nel caso degli asiatici, l’immigrazione è legata a tre quarti della prevista crescita numerica.

Queste nuove previsioni differiscono da quelle precedentemente rilasciate nel 2014. Queste ultime collocavano l’avvento della minoranza bianca nel 2044, a causa di un’immigrazione presuntivamente più estesa ed in una più elevata crescita supposta per diversi gruppi razziali. Anche l’incremento nazionale stesso si attestava su livelli superiori nelle previsioni del 2014; si riteneva infatti che gli Stati Uniti avrebbero raggiunto una popolazione di 400 milioni nell’anno 2051, rispetto alle nuove previsioni che spostano tale traguardo avanti di sette anni, fino al 2058.

Dal momento che le minoranze nel loro insieme sono più giovani della popolazione bianca, il punto di svolta arriverà prima per i gruppi di età più giovane. Come mostrato nel terzo grafico, le nuove previsioni indicano che, per i giovani minori di 18 anni di età – la cosiddetta popolazione “post-millennial” – le minoranze supereranno quantitativamente i bianchi già nel 2020. Nella fascia di età compresa fra i 18 ed i 29 anni – i componenti più giovani dell’elettorato e della forza lavoro – la svolta si verificherà nel 2027.

Il verificarsi di questi punti di svolta è previsto soltanto per una fase successiva nel caso delle fasce di età più anziane, con ciò significando che i sessantenni e gli ultra-sessantenni rimarranno a maggioranza bianca anche dopo il 2060. La motivazione di questa differente evoluzione del fenomeno è riconducibile nel breve periodo al persistere dell’influenza del largamente bianco baby boom. Infatti, negli anni che decorrono fra il 2018 ed il 2060, l’unico gruppo di età della popolazione bianca a non subire riduzioni quantitative è proprio quello dei sessantenni e degli ultra-sessantenni, un gruppo che – nel suo complesso – seguita a crescere più rapidamente di ogni altro.

In tutta evidenza, è l’incremento delle giovani e fresche minoranze – attribuibile ad una combinazione di fattori, dall’immigrazione passata e presente al più elevato tasso di natalità fra i più giovani – ad impedire al Paese di invecchiare ancora più velocemente.

Il grafico 4 mostra chiaramente quanto le minoranze diverranno parte preponderante della gioventù americana attraverso il 2060. Allora, i censimenti prospettano che i bianchi costituiranno solamente il 36 % della popolazione di età inferiore ai 18 anni, con gli ispanici attestantisi intorno al 32%. Tali dati contrastano drasticamente con il contributo delle minoranze alla popolazione più anziana, che quantomeno per la sua metà continuerà saldamente a rimanere bianca.

Dal momento che le minoranze razziali costituiranno lo stimolo principale alla crescita della popolazione giovane nel Paese nel corso dei prossimi 42 anni, esse contribuiranno anche a decelerare drasticamente l’invecchiamento della Nazione. Già sin dal 2018, si conteranno fra i bianchi più vecchi che bambini e più decessi che nascite, stando alle attuali stime. Le dinamiche nell’ambito delle combinate minoranze, invece, si manterranno assai differenti fra il 2018 ed il 2060.

Le minoranze costituiranno – nel futuro che ci è dato di intravedere – la scaturigine di tutta la crescita della fetta più giovane della Nazione e della sua forza lavoro, come anche di gran parte di quella dell’elettorato, e di buona parte di quella del bacino dei consumatori e dei contribuenti. Pertanto, la sempre più rapidamente crescente popolazione anziana – largamente bianca – sarà sempre più dipendente dai contributi delle minoranze, sia dal punto di vista economico che assistenziale. Ciò suggerisce più che mai la necessità di persistenti investimenti nella giovane popolazione multirazziale del Paese, laddove il continuo invecchiamento della popolazione stessa appare, in caso contrario, un fenomeno non altrimenti contrastabile.

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PER UN APPROCCIO REALISTICO ALL’IMMIGRAZIONE

Edoardo Gagliardi

Quando si parla di immigrazione lo si fa in maniera errata. L’errore deriva sostanzialmente dall’approccio istintivo e sentimentale alla questione. Da un lato vi sono quelli che vorrebbero l’apertura di ogni confine, l’annullamento di ogni differenza, il meticciato mondiale. Dall’altro quelli che, credendo di opporsi ai primi, vorrebbero “sparare” sulle carrette del mare per fermare l’immigrazione. Inutile dire che entrambe le impostazioni sono sbagliate e controproducenti. Lo sono perché non puntano ad affrontare il problema nella sua totalità, al contrario si basano su una visione istintuale della questione.

Quello che si vuole proporre in questo capitolo è invece un approccio che chiameremo realistico all’immigrazione. In molti Paesi il nodo della questione non è solo come impedire l’arrivo in massa di milioni di allogeni, ma anche il modo in cui gestire la questione degli allogeni già presenti all’interno di quei Paesi. Dobbiamo immaginare che una comunità umana assomiglia in molti aspetti ad un organismo, un corpo che funziona in maniera armoniosa e con regole sue proprie. Che cosa accade quando all’interno di un organismo è presente un corpo estraneo? In molti casi l’organismo si ammala. Vi è dunque la necessità di ridurre e rimuovere la causa dello stato patologico.

Ora, i modi per raggiungere tale obiettivo sono sostanzialmente due: 1) l’eliminazione e 2) la segregazione. Non se ne vedono altri e, se ci sono, sono il frutto di proposte dettate da un modo sentimentale di risolvere la questione. Vediamo di analizzarli entrambi in maniera più dettagliata.

L’eliminazione di un corpo allogeno può avvenire in tre modalità: A) eliminazione attraverso la distruzione; B) eliminazione attraverso l’espulsione; C) eliminazione attraverso l’assimilazione.

A) Eliminazione attraverso la distruzione. Questo metodo prevede l’annichilimento totale del corpo estraneo, la storia dell’umanità ci mostra numerosi esempi di questo approccio. Si è detto sopra che la nostra analisi ha carattere realistico, per questo motivo l’eliminazione tramite distruzione non è una via praticabile, oltre ad essere moralmente deprecabile, non tanto per ragioni religiose, quanto per motivi legati ad un rispetto intrinseco della vita umana. Oltre a questo, la distruzione non può che portare ad altra distruzione, l’assoluto contrario dell’obiettivo che ci si vuole porre: la salvaguardia dell’organismo. La motivazione che deve muovere una risoluzione concreta del problema immigrazione deve essere la protezione e la salvaguardia della comunità umana, per tale motivo uno scontro frontale non porterebbe a nulla di positivo.

B) Eliminazione tramite espulsione. In questo caso il corpo estraneo viene rimosso spingendolo il più lontano possibile dall’organismo. Il risultato finale dell’espulsione dovrà essere quindi la riduzione a significativa minoranza di un corpo estraneo, oppure alla rimozione totale del corpo estraneo dall’organismo. Torneremo più avanti su questo punto.

C) Eliminazione tramite assimilazione. Questa modalità prevede che il corpo estraneo, nel tempo, si assimili all’organismo ospitante, in modo da attenuare tutte le differenze e rendere il corpo estraneo simile a quello che ospita.

Questo approccio è supportato da molti di coloro che si propongono di risolvere il problema immigrazione evitando le derive immigrazioniste. Le problematicità dell’assimilazione si trovano nel fatto che molti elementi allogeni non si assimilano, fanno finta di assimilarsi o si assimilano in maniera molto parziale. La storia è piena di esempi in cui popoli ospiti, spesso sotto costrizione, hanno ritenuto opportuno optare per l’assimilazione, salvo poi mantenere di nascosto i propri costumi e le proprie peculiarità. Si vede quindi che questa strada non è praticabile.

Per quanto concerne la segregazione, essa si divide in due modalità: A) segregazione senza riconoscimento; B) segregazione con riconoscimento.

A) La segregazione senza riconoscimento consiste nell’isolare un corpo estraneo in una parte ben definita dell’organismo ospitante, senza però né riconoscerlo né garantire dei diritti basilari. Qui si comprende benissimo come si possa presentare il problema delle continue frizioni violente tra l’organismo e gli allogeni. La vita nell’organismo principale diverrebbe quindi impossibile e metterebbe in pericolo entrambe le comunità, tanto quella nativa che quella ospite. L’idea che si possa segregare un corpo estraneo all’interno di un organismo e, ancora di più, tenerlo soggiogato, è una chimera. Allo stesso tempo si tratta di un dispendio di energie che l’organismo utilizza per tentare di controllare e stabilizzare il corpo estraneo.

B) La segregazione con riconoscimento. Si tratta di una forma soft della segregazione sopradescritta, in cui al corpo estraneo viene garantito un riconoscimento e certi diritti, tuttavia senza che questo possa venire in contatto con l’organismo ospitante. Gli Stati Uniti fino agli anni ’60 del XX secolo hanno sperimentato questa forma di segregazionismo, ma con scarsi risultati. Il segregazionismo è una forma di maquillage che può far apparire un corpo gradevole, ma non ne elimina i problemi all’interno. Nonostante il riconoscimento ed alcuni diritti, il segregazionismo implica comunque la permanenza del corpo estraneo all’interno di quello principale. Gli allogeni segregati tenderanno sempre a voler mutare la propria condizione, a cercare di allargare il territorio a loro disposizione, con conseguenti conflitti più o meno violenti. Fatta questa breve esposizione delle modalità con cui affrontare il problema dell’immigrazione, appare evidente che l’unica soluzione auspicabile e realistica sia quella dell’espulsione. Qui però conviene rispondere ad alcune obiezioni che possono essere mosse a questo approccio e che sono certamente legittime. Il corpo estraneo espulso potrebbe ritornare a minacciare l’esistenza dell’organismo. Questo è sicuramente vero, ma spetta all’organismo dotarsi degli anticorpi teorici e pratici per scoraggiare il ritorno del corpo estraneo. Se un estraneo vuole entrare nella nostra abitazione, la prima cosa da fare è chiudere la porta principale e poi le finestre. E se tutto questo non bastasse, si potrebbe invocare l’intervento di forze che sono preposte ad impedire che estranei entrino all’interno di un’abitazione. Vi è poi la questione dei costi: l’allogeno che prova a ritornare deve pagare per spostarsi dal luogo in cui si trova a quello in cui vuole rientrare. Più elevate sono le distanze più il viaggio costa. Ad un certo punto diviene sconveniente, quando non impossibile, spostarsi. L’espulsione poi permetterebbe al corpo estraneo di allocarsi in un’area geografica – e in una dimensione antropologica – in cui vivere la propria vita, sviluppare i propri costumi, senza l’eventualità di continue frizioni con l’organismo principale. Anche in questo caso la storia è “maestra di vita”. Numerosi sono stati i casi in cui un organismo ha espulso corpi estranei dal proprio interno con un certo successo. L’errore è stato quello però di reintegrare i corpi estranei dopo qualche tempo, vanificando tutto quello fatto in precedenza. L’espulsione non può essere una scelta temporanea, al contrario essa deve essere definitiva e poggiare su un punto cardine fondamentale: la salvezza dell’organismo come priorità esistenziale e identitaria. Inquadrata in questo modo l’espulsione ha una sua ragion d’essere metapolitica oltre che semplicemente politica. Altra obiezione all’espulsione è l’argomentazione secondo la quale il corpo estraneo potrebbe continuare ad influenzare negativamente l’organismo principale anche a distanza. In una società interconnessa come quella contemporanea, in cui le comunicazioni telematiche sono addirittura più importanti di quelle reali, questo problema esiste e non lo si può negare. Ma qui ancora una volta giova ricordare che spetta all’organismo di sviluppare quegli strumenti-anticorpi per evitare influenze destabilizzanti dall’esterno. Un organismo con forti e durevoli anticorpi non solo è in grado di prevenire le patologie, ma è altrettanto in grado di irrobustire la propria identità. L’espulsione risulta quindi come una delle modalità più realistiche per affrontare l’immigrazione e le questioni da essa sollevate. Lo vogliamo chiarire: l’immigrazione va affrontata in modo realistico e razionale, senza cedimenti a sentimentalismi che, tra l’altro, non sono che strumentalizzazioni che non hanno assolutamente a cuore né i locali né gli allogeni.

L’approccio che abbiamo definito realista permette quindi di inquadrare il problema senza cedimenti all’istinto; ci aiuta altresì a capire quale metodo può essere più efficace per garantire ad una comunità la propria sopravvivenza come organismo specifico. Qui però si pone un problema di natura anche politica: non possiamo aspettarci nessun passo in avanti, nessuna prospettiva realista all’immigrazione con i regimi liberali e progressisti al potere da un lato e le forze conservatrici e populiste dall’altro, che spesso fanno finta opposizione. Entrambi si dimostrano incapaci di affrontare il problema per varie ragioni, alcune delle quali sono:

  • Negazione del problema.
  • Sottovalutazione del problema.
  • Non volontà di affrontare il problema
  • Strumentalizzazione del problema

L’aspetto più perverso è senza dubbio la strumentalizzazione del problema immigrazione. Da una parte l’immigrazionista liberale e progressista ha una precisa agenda che è quella di cancellare qualsiasi identità di popolo, rimpiazzandola con un’indefinibile mescolanza utopistica; dall’altro i conservatori e populisti strumentalizzano il malcontento della gente proponendo soluzioni buone per le campagne elettorali, ma totalmente inapplicabili una volta giunti al governo. La questione è che, per gli uni e per gli altri, l’allogeno è uno strumento per realizzare i loro fini ideologici, elettorali e di potere politico-economico. Fino a quando l’approccio all’immigrazione sarà basato su questi presupposti, non vedremo mai una chiara e realistica soluzione. Se dagli immigrazionisti ovviamente non ci si può aspettare diversamente, quello che spiace è che anche da coloro che si dicono contrari all’immigrazione non si riesce ad andare oltre gli slogan e l’uso strumentale-propagandistico della questione.

Per questo motivo noi ribadiamo l’assoluta necessità che l’immigrazione sia inquadrata innanzitutto come problema e che poi sia analizzata in maniera realistica, proprio per evitare che venga risucchiata nel grande calderone politico-mediatico della strumentalizzazione. L’immigrazione è un problema “reale” che non può essere trattato con gli strumenti della retorica. Noi ci proponiamo di parlare senza cadere nel politically correct, bisogna iniziare a mettere sul tavolo i problemi e a guardarli in faccia.

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LA FINE DI UN’ERA…PER I MASCHI BIANCHI

David Rothkopf

Cambiano i rapporti demografici, e con essi la definizione di privilegio.

Fonte: Foreign policy

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Il seguente articolo non è stato tradotto con l’intento di appoggiare ciò che scrive l’autore, ma piuttosto come articolo critico mettendo in evidenza un grave fattore, di cui nessuno sembra voler parlare e interessarsi.

L’uomo bianco ha fatto molta strada. Dall’ascesa della Grecia classica alla nascita degli imperi globali sorti in Occidente, è riuscito ad accentrare nelle proprie mani gran parte del mondo, o quantomeno ci ha provato. Un ruolo storico così imponente segue necessariamente decisioni compiute dal capoccia bianco di turno, assecondando null’altro che la propria volontà. Diversi fattori hanno contribuito a rendere il momento presente uno spartiacque nella storia globale. Innanzitutto, la crescita del cosiddetto mondo emergente, con particolare attenzione alle economie e alle società asiatiche. Laddove il pianeta ha sempre ospitato grandi civiltà non bianche, tali sistemi sociali sono sopravvissuti vivacchiando in un flusso e riflusso di importanza relativa. Oggi, invece, la crescita di queste società – segnatamente Cina e India – è di chiarezza cristallina, ed altrettanto lo è quella di altre grandi e floride culture medio-orientali e africane, grazie a riforme politico-economiche, a progressi scientifici e tecnologici, ed all’avvento del mondo interconnesso.

In più, millenni di repressione dei diritti delle donne si apprestano a terminare. Non in modo sufficientemente rapido, senz’altro, e non ovunque, ma in gran parte del mondo occidentale aree un tempo dominate dal potere maschile sono popolate da un numero di donne mai visto prima, e fortunatamente questo trend non mostra segni di un imminente cambiamento di verso. Ad ogni latitudine, inoltre, sempre più donne si accingono a mettere altre donne – comprese giovani e giovanissime – ad assumere ruoli di avanguardia nel campo delle tecnologie digitali. Per metterla semplice: sembra essere adesso opinione comune che nessuna società possa prosperare se non riesce a valorizzare al meglio le risorse intellettuali, economiche, creative, spirituali dell’intera sua popolazione.

Infine, grazie alla rivoluzione degli spostamenti occorsa nel secolo passato, flussi di rifugiati e migranti di ogni genere hanno modificato i rapporti demografici delle società e, fatte salve contestazioni ed altre situazioni di disagio, si sono dimostrati essenziali nel combattere determinati trend, quali l’invecchiamento, che hanno messo a repentaglio la sopravvivenza stessa di diverse società avanzate.

Diseguaglianze, ingiustizie e, per dirla francamente, un vero e proprio affaticamento delle energie sociali hanno condotto le popolazioni verso scelte differenti. Ancora, le medesime società che hanno procurato all’uomo bianco la sua massima influenza nel mondo – Europa e Stati Uniti – si trovano a condurre lotte cruciali al fine di mantenere intatta la stessa propria rilevanza globale. Le problematiche economiche picchiano duro su di esse, e le divisioni politiche costituiscono un innegabile ostacolo alla loro crescita e capacità di agire. Come la Storia ha insegnato, è assai complesso mantenere la vetta a tempo indeterminato.

Il risultato dei menzionati processi altro non può essere che un profondo cambiamento dello status quo stabilizzatosi nei passati millenni. Soltanto in Europa, l’afflusso di migranti e rifugiati sta già dando luogo a cambiamenti demografici irreversibili, producendo un esteso mescolarsi di culture diverse.

Per la metà di questo secolo, negli Stati Uniti, si prevede un cambiamento di maggioranza nel complesso della popolazione, maggioranza che, a detta dei demografi, diverrà non-bianca. Per allora, l’Europa avrà già accolto numeri massivi di immigrati dall’Africa e dal Medio-Oriente, così come dall’Asia, ed entro il 2050, si stima, toccherà ai maschi bianchi esser relegati nella categoria “altro” sui formulari dei censimenti.

Nei fatti, sarà l’idea stessa di “altro” a subire le maggiori variazioni di significato. Attualmente scottante argomento di dibattito, la diversità negativa è stata utilizzata come un utile stratagemma per spargere allarmismi sul conto di migranti, immigrati e rifugiati – un approccio, questo, naturalmente radicato nell’ignoranza e nell’intolleranza. (Gli attacchi al primo presidente nero degli Stati Uniti d’America hanno del resto avuto origini similari, e si sono mostrati egualmente riprovevoli.) Sia che la supposta minaccia sia associata all’Islam o all’estremismo, sia che faccia leva sulle competizioni economiche interne ad un dato Paese, la verità è che le paure che sono andate diffondendosi hanno soverchiato di molto la realtà dei fatti.

Uno psicoterapeuta che conoscevo, una volta ha detto che se una reazione è sproporzionata rispetto alla presunta causa che la provocherebbe, allora un pezzo dell’intera storia alla sua base è stato omesso. In questo caso, i politici che in Europa ed in America che senza tregua sputano bile nazionalista e rinfocolano le fiamme del furore xenofobo si appoggiano sul crescente, seppur inconscio, riconoscimento culturale del fatto che le lancette corrano per quella che un tempo è stata la classe etnica più privilegiata al mondo.

Ovviamente, la mobilità umana non deve essere combattuta, bensì accolta. Mentre l’appartenenza ad una determinata comunità si situa nel nostro DNA per ragioni legate alle unità sociali di sopravvivenza dei nostri più antichi antenati, la lunga storia della civilizzazione e del progresso si basa proprio sul mescolarsi e rimescolarsi delle suddette unità sociali.
Ci si presentano, dunque, due fondamentali lezioni da apprendere. La prima è che, stante il fatto che la civiltà ci appare oggi assai più sicura, felice, ricca, consapevole ed in salute di quanto sia mai stata, sembra che l’apporto della condivisione di idee, culture e valori sia stato completamente positivo. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, è la loro stessa storia a parlare: a partire dal XVIII secolo, nuovi gruppi hanno fatto il loro ingresso nel Paese, e sono stati fatti oggetto di resistenze e risentimenti – irlandesi, italiani, est-europei, ebrei, quello che si vuole. Nonostante ciò, con il tempo ogni gruppo ha saputo apportare grandi contributi agli Stati Uniti, un Paese divenuto sempre più forte ad ogni ondata di nuovo sangue e nuove idee.

La seconda lezione è che un’alternativa ad “altro” esiste, ed è “tutto”. Piuttosto che focalizzarci sulle nostre differenze come i nostri leader politici più meschini e pericolosi hanno fatto, i nuovi leader di questa nuova era sapranno distinguersi concentrandosi non soltanto sulla diversità sociale che rende grandi le Nazioni, ma ma sugli autentici e stupefacenti benefici della diversità che già vive all’interno di tutti noi.

Laddove nazionalisti, suprematisti bianchi, ed idioti assortiti che a orde li seguono hanno sparso semi di divisione sulla scia dei rinnovati flussi umani attraverso i confini, la tragica ironia consiste nel fatto che costoro, in pratica, hanno finito per abbracciare precisamente il medesimo tipo di intolleranza che costituisce il marchio di fabbrica dei loro nemici giurati.

Ciò di cui abbiamo bisogno sono invece uomini e donne disposti ad alzarsi ed a proclamare: “No, vi sbagliate. La diversità non è una minaccia, è la risposta.”

È stata infatti la diversità a rendere grande l’America ed ogni altra società multiculturale. Già, proprio così: neppure per un misero minuto dovremmo piangere la fine dell’era del maschio bianco, in quanto sussiste una speranza, un barlume di speranza almeno, che oltre le sue ceneri si approssimi finalmente la tanto attesa era del “tutto.”

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GLI ULTIMI GIORNI DEL MONDO BIANCO

Al cospetto di uno spartiacque globale: la fine della maggioranza bianca nel mondo sviluppato. Gran Bretagna inclusa.

Anthony Browne

Fonte: The Guardian

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Una notizia, sì, ma fino ad un certo punto; il traguardo più significativo nell’ambito di uno dei cambiamenti più profondi concernenti il volto degli Stati Uniti nel secolo passato, ma tutto sommato un non-evento, latore di sorpresa e sconcerto. La scorsa settimana, l’Ufficio del Censimento degli Stati Uniti d’America ha pubblicato una serie di cifre relative alla popolazione bianca non ispanica in California, che è risultata ammontare al 49,8% della popolazione dell’intero Stato.

I bianchi anglo-sassoni costituiscono già la minoranza numerica nello Stato delle Hawaii e nel Distretto di Columbia. Adesso, anche nello Stato più densamente popolato del Paese, Stato un tempo identificato con l’American Dream, la maggioranza etnica bianca rappresenta ormai un ricordo.

Mi auguro vivamente che la diversità del nostro Stato sia per tutti motivo di esultanza, e non di rammarico”, afferma Greg Bustamante, vice-governatore della California di etnia latino-americana. Robert Newby, un negoziante bianco residente a Los Angeles da 40 anni, fa proprio un tale ottimismo: “Ciò conferma ciò che la maggior parte di noi ha pensato per anni. Sono felice che ci siano più immigrati, che nell’insieme lavorano più duramente, ed hanno più denaro da spendere.”

Fino al 1970, otto californiani su dieci erano bianchi. Sull’onda di un’immigrazione che ha toccato i suoi tassi più alti dall’inizio del secolo scorso, e da più elevati tassi di fertilità, la popolazione di asiatici e latino-americani in California è cresciuta di quasi un terzo dal 1990. Allo stesso tempo, a causa di una limitata immigrazione e di poche nascite, la popolazione di bianchi non ispanici è calata di tre punti percentuali. Entro il 2040, è lecito aspettarsi che gli ispanici divengano la maggioranza assoluta nello Stato.

Il resto degli Stati Uniti, nel dispiegarsi di tali dinamiche, ci si aspetta che segua le orme della California. Mentre scriviamo, il 72 % della popolazione statunitense è composta da bianchi non ispanici; l’Ufficio per il Censimento prevede che essi diventeranno la minoranza fra il 2055 ed il 2060.

Non tutti apprezzano il nuovo volto dell’America. Estremisti bianchi di estrema destra non temono di preannunciare addirittura lo sgretolarsi dell’Unione. Thomas W. Chittum, un veterano del Vietnam residente in New Jersey, nel suo libro Civil War Two scrive che gli Stati Uniti si scomporranno in vari etno-stati, similmente a quanto già accaduto in Jugoslavia. “L’America è nata nel sangue, ha succhiato sangue, di sangue si è ingozzata divenendo un gigante, ed annegata nel sangue vedrà la sua fine”, questo il drammatico avvertimento di Chittum.

I militanti separatisti hanno già iniziato a costituire gruppi organizzati, quale quello denominato Americans for Self-Determination. Uno dei fondatori, Jeff Anderson, ha dichiarato: “Il nostro suggerimento è una ripartizione degli Stati Uniti in entità statali apposite per bianchi, neri, ispanici, e così via, oltre ad altri staterelli multi-razziali destinati a coloro che desiderassero proseguire con la convivenza fra razze diverse. E’ giunta l’ora di iniziare seriamente a parlare di separatismo su base razziale, prima che scoppi una vera e propria tempesta di conflitti fra razze.”

Le sabbie mobili della realtà americana riflettono cambiamenti più ampi – ed assai controversi – già verificatisi altrove nel mondo. E’, questa, un’area di speculazione in cui pochi demografi si azzardano ad addentrarsi, nel timore di essere accusati di razzismo. “Non posso autorizzarti a citarmi: una parola fuori posto, e verrei smerdato alla grandissima”, ci ha confidato un accademico. “Qualunque cosa tu dica, verrai sempre tacciato di razzismo.”

Lo scorso millennio è stato davvero, più di ogni altra cosa, l’era dei bianchi. Solo 500 anni fa, in pochi avevano osato avventurarsi fuori dalla comune patria Europea. Quindi, con l’ausilio di numerosi genocidi a spianare la strada, uomini Europei si installarono in Nord America, Sud America, Australia, Nuova Zelanda, e – seppur in minor parte – in Sudafrica.

Adesso, però, ovunque i bianchi si trovino nel mondo, la fetta di popolazione a loro relativa si sta sempre più assottigliando rispetto al totale. Le Nazioni Unite radunano e pubblicano un vasto novero di statistiche sulle popolazioni, ma nessuna di essere riflette il punto di vista dell’origine etnica o razziale. Certamente su questo influisce il fatto che solo pochi Paesi raccolgano dati relativi all’etnia – in Europa, segnatamente, soltanto la Gran Bretagna ed i Paesi Bassi.

Ad ogni modo, lo Stato della Popolazione Mondiale prodotto dalle Nazioni Unite per l’anno 1999 predisse che entro il 2025 il 98% della crescita della popolazione mondiale sarebbe occorso in regioni meno sviluppate, particolarmente in Asia ed Africa. Le cause preponderanti dietro a questo fenomeno si individuano precipuamente nell’abbassarsi dei tassi di natalità delle Nazioni ricche: in 61 Paesi, perlopiù quelli a ricchezza maggiore, le nuove nascite non riescono più a rimpiazzare i decessi.

Nel suo Profilo della Popolazione Mondiale per l’anno 1998, l’Ufficio per il Censimento degli Stati Uniti d’America aveva previsto che per il secondo decennio di questo secolo l’intero aumento demografico a livello mondiale si verificherà in Paesi in via di sviluppo. “Il futuro della crescità della popolazione umana va determinandosi nelle Nazioni più povere del mondo”, vi si legge.

Il centro di gravità globale va sempre più modificandosi. Nel 1900, l’Europa deteneva un quarto della popolazione mondiale, tre volte quella dell’Africa; entro il 2050, solamente il 7% della popolazione mondiale sarà Europeo, circa un terzo di quella africana. L’invecchiamento ed il declino delle popolazioni delle Nazioni prevalentemente bianche hanno stimolato previsioni di un’immigrazione richiesta dalle latitudini più giovani ed in crescita, corrispondenti ai Paesi in via di sviluppo, al fine di colmare le lacune demografiche.

Lo scorso anno, l’immigrazione netta in Gran Bretagna ha raggiunto le 185.000 unità, un record assoluto. Il Ministro per l’Immigrazione, Barbara Roche, ha recentemente annunciato piani specifici finalizzati ad attrarre migranti per riempire determinati vuoti di competenze, come, ad esempio, nell’industria informatica.

Il mese scorso, Edmund Stoiber, primo ministro della Baviera in Germania del Sud, ha esortato i tedeschi ad avere più bambini, come alternativa privilegiata ad un’aumentata immigrazione. “Stiamo avendo troppo pochi bambini – preoccupantemente troppo pochi, ed appare sin troppo difficile rendersene conto”, ha dichiarato. I suoi appelli hanno fatto eco a quelli di un altro politico cristiano-democratico che sempre quest’anno si è reso protagonista dell’iniziativa dall’inequivocabile nome “Bambini, non Indiani”.

In Gran Bretagna, il numero di cittadini riconducibili a minoranze etniche è cresciuto dalle poche decine di migliaia degli anni Cinquanta, agli attuali 3 milioni, corrispondenti a quasi il 6 per cento della popolazione totale. Mentre il numero dei bianchi virtualmente si mantiene statico, un superiore tasso di fertilità e di immigrazione netta ci consegnano un aumento quantitativo delle minoranze etniche stimabile intorno ai 2-3 punti percentuali annui.

Un demografo, che ha richiesto di non essere identificato nel timore di venire tacciato di razzismo, ha affermato: “E’ un fatto aritmentico che – in mancanza di determinati accadimenti – nel Regno Unito i non-Europei diverranno la maggioranza, ed i bianchi la minoranza. Ciò costituirebbe probabilmente la prima volta che una popolazione indigena ha volontariamente scelto di ridursi in minoranza nella propria patria storica.

Lee Jasper, consulente per gli affari razziali del sindaco di Londra, Ken Livingstone, ha predetto qualcosa di molto simile, spiegando al The Observer:L’Europa segue sempre ciò che accade in America, con un ritardo di 30 anni. Una minoranza bianca in alcuni Paesi Europei è uno scenario verosimile.

In Gran Bretagna, ciò è quasi sicuro che accada, ed anche in un futuro relativamente prossimo. “Al momento, le minoranze etniche compongono circa il 40 per cento della popolazione londinese. Gli andamenti demografici mostrano che la popolazione bianca diverrà una minoranza a Londra entro il 2010”, ha proseguito Jasper. “Possiamo confidare in una maggioranza di colore in Gran Bretagna per lo scavallare del nuovo secolo.

Nick Griffin, segretario del British National Party, ha dichiarato: “Non penso sussista alcun dubbio relativamente al fatto che entro questo secolo i bianchi saranno la minoranza in ogni Nazione del mondo.” Per Griffin, comunque, ciò è del tutto allarmante: “Ogni popolo sotto questo cielo ha diritto ad una propria terra sotto questo cielo, ed il diritto alla propria sopravvivenza. Se ad esser predetta fosse stata una minoranza indiana in India entro il 2100, tutti avrebbero chiamato genocidio una simile prospettiva.

Yasmin Alibhai-Brown, del Foreign Policy Centre, giunto a Londra dall’Uganda nel 1972, ha liquidato come razzisti tali timori: “Solamente i bianchi si preoccupano di questo. E’ perché per così tanto tempo il mondo è stato loro. Parlare di ciò, alimenta un particolare tipo di razzismo che vorrebbe i neri procreare come conigli. L’assunto alla base di tutto ciò è il seguente: bianco è buono.

Aggiunge ancora Alibhai-Brown: “Un vero e proprio panico bianco deflagra ogni volta che una parte del loro mondo sembra star per passare di mano. Ma è stupido aver paura di ciò. Ed anche se noialtri neri divenissimo la maggioranza? Quale sarebbe il problema?

Per Alibhai-Brown, il declino dei bianchi è una sorta di ribilanciamento in seguito al loro colonizzare gran parte del mondo. “L’impero colpisce ancora, altroché. Vigeva questa idea assurda che i bianchi potessero andare e distruggere interi popoli senza conseguenze. Mi meraviglio che ci si stupisca di quel che sta accadendo.

I presenti andamenti socio-demografici, però, ben difficilmente riequilibriranno le ingiustizie della Storia. I Nativi americani possedevano tutta la terra, e adesso ammontano a meno dell 1 % della popolazione statunitense, con ben poche chance di tornare maggioritari. La crescita maggiore si registra fra i latino-americani (perlopiù con ascendenze spagnole), e tra gli asiatici, particolarmente cinesi e filippini.

Jasper sostiene che le preoccupazioni del BNP si fondino su idee vetuste: “Il composto razziale nelle varie Nazioni cambia continuamente. In nessun modo una specifica etnia di sangue può essere legata ad un dato territorio in un mondo globale. Non puoi più guardare ad uno Stato e dire, ad esempio, che la Germania è anglosassone, e così via.

Jasper continua affermando che un simile processo di mescolanza non possa che rafforzare la Gran Bretagna. “La diversità rafforza una Nazione. La rende più brillante. Abbiamo centinaia di lingue parlate, e quando usciamo a cena, non mangiamo mai inglese, quanto piuttosto thailandese, francese o indiano. Ciò rende Londra un posto molto interessante e alla moda in cui vivere e lavorare.

Non sembra neppure verosimile che i bianchi finiscano per essere marginalizzati in termini di influenza, nonostante il loro declino quantitativo. David Owen, del Centro di Ricerca sulle Relazioni Etniche della Warwick University, spiega: “La popolazione non è mai stata il principale fattore di influenza. Casomai, in proposito, appare più adeguato enumerare la ricchezza ed il guadagno. I bianchi mantengono ancora nelle proprie mani le leve del potere militare ed economico.

Nonostante ciò, Griffin avverte che – in Germania come negli Stati Uniti – la crescita delle minoranze etniche non sarà esente da ripercussioni. “Ciò porrà la questione razziale al vertice dell’agenda politica”, ammonisce il leader del BNP.

CIò, ad ogni modo, è da ritenersi inverosimile. La Gran Bretagna conta un numero assai inferiore di episodi di razzismo e di estremismo di destra rispetto a qualunque altro Paese d’Europa. Alibhai-Brown insiste addirittura che l’aumento quantitativo delle minoranze etniche potrà aiutare a ridurre i focolai di razzismo là dove hanno luogo: “I partiti di destra crescono a Somerset, non a Brixton. L’idea che un maggior numero di neri corrisponda ad una maggiore frequenza di episodi di razzismo è scientificamente irricevibile. Più noi saremo, meno razzismo ci sarà.

Tornando in California, terra edificata dagli immigrati, Bustamante ha attribuito un riflesso positivo alla fine della maggioranza bianca: “Se non vi sono maggioranze, non vi sono neppure minoranze.” In Europa, con la sua popolazione bianca indigena vecchia di 40.000 anni, lo sviluppo di una maggioranza non bianca potrebbe non essere accolto con altrettanta equanimità.

Nel Regno Unito, il numero di persone riconducibili a minoranze etniche è cresciuto dalle poche decine di migliaia nel 1950 agli attuali oltre tre milioni.

In Italia, il tasso di natalità è così basso che, senza adeguati flussi migratori, la popolazione è destinata a diminuire di 16 milioni entro il 2050.

Il governo degli Stati Uniti prevede che i bianchi non ispanici diventeranno una minoranza nel Paese entro il 2055.

Le Nazioni Unite prevedono che il 98% della crescita della popolazione mondiale fino al 2025 avrà luogo nei Paesi in via di sviluppo.

La popolazione Europea prevedibilmente calerà di svariati punti percentuali, passando dal 25% del totale mondiale nel 1900 al 7% nel giro dei prossimi 50 anni.

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