YANAGIHARA E IL PESSIMISMO DEL QUOTIDIANO

Riccardo Tennenini

In precedenza abbiamo parlato del “pessimismo di Marx” che riguardava l’aspetto lavorativo, in questo nuovo articolo invece vedremo un’altro “pessimismo” non presente all’interno di un pensiero filosofico ma veicolato attraverso la narrativa. Stiamo parlando del romanzo “Una vita come tante” di Yanagihara. In questo romanzo di oltre mille pagine se identifichiamo l’esistenza del protagonista Jude a quella di ognuno di noi è possibile riscontrare una chiara visione di quello che possiamo definire un pessimismo del quotidiano. L’autolesionismo viene visto come unica o forse l’ultima forma di redenzione, il senso di colpa che diventa biasimo di se stessi per ciò che si è stati e che ha plasmato inevitabilmente ciò che si è diventati. La speranza nel prossimo sempre disillusa tra violenza e morte. La perdita penso possa essere la parola esatta per descrivere il pessimismo del quotidiano di questo romanzo. Infatti al protagonista pagine dopo pagine, si trova di fronte una realtà americana contemporanea che quotidianamente gli fa perdere tutto, compresa la sua umanità. La perdita è espressa in descrizioni lucide e dettagliate di tutto ciò che capita nella vita di Jude.  Ad ogni perdita ciò che guadagna in cambio sono solo altrettante perdite mascherate dalla speranza. 

Questo pessimismo, in conclusione possiamo dire che ci mette davanti al fatto che tanto nel romanzo quanto nella vita non c’è un lieto fine. Anzi fino alla fine proprio come il protagonista subisce i più atroci dolori.  

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Pessimismo marxiano

Riccardo Tennenini

“Il mio lavorare non è vita”
K.Marx

Quando si parla di pessimismo, in genere, ci viene in mente la figura di Schopenhauer. Ma in questo articolo, come si può leggere dal titolo, tratterò di un’altro tipo di “pessimismo” non riconosciuto come tale o forse non preso in considerazione quello di Marx. Il pessimismo di Schopenhauer è esteso all’intero cosmo, quello di Marx invece riguarda l’ambiente lavorativo. In quanto il proletario sembra essere destinato ad una condizione esistenziale precaria di dolore immutabile. Per molti lettori e studiosi del pensiero di Marx sembrerebbe proporci una filosofia tutt’altro che pessimista, influenzata dall’hegelismo e da un ottimistico processo della storia. Questo è vero, se si osserva dal punto di vista solo del materialismo storico con i suoi tre momenti dialettici, ma se ci soffermiamo sulla condizione esistenziale del proletario come protagonista principale della modernità. Ci accorgiamo che il suo “destino” non è poi così positivo. Partiamo dicendo che la sua esistenza ruota attorno al lavoro. Il lavoro è emancipato dalla borghesia come fonte di felicità e libertà dell’individuo. Quando il proletario diventa un lavoratore salariato per sperimentare in prima persona una tale  felicità e libertà si trova davanti quattro alienazioni. La prima alienazione lo estrania dal ciò che produce che non gli appartiene, non può neanche prendersi il merito in quanto non è lui a farlo ma con la divisione del lavoro l’intera produzione di un oggetto e particellata tra tutti i lavoratori quindi il singolo prodotto è fatto da tutti e da nessuno. La seconda alienazione lo estrania verso la sua stessa attività che non è libera e le sue azioni non sono frutto di sue scelte volontarie ma è il lavoro che sceglie per lui cosa deve fare, come e per quanto tempo. 

La terza alienazione lo porta a estraniarsi dalla sua stessa esistenza divenuta meccanica, monotona, ripetitiva e totalmente priva di senso. L’ultima alienazione lo porta ad estraniarsi dagli altri dettato dal fatto che il lavoro salariato non gli permette di avere del tempo libero per avere rapporti sociali. Queste quattro alienazioni rappresentano ciò che subisce il proletario non appena entra nel mondo del lavoro. Finendo per renderlo un essere privato della sua umanità, estraniato da se stesso e dagli altri per diventare nient’altro che merce tra le merci. “