STORIA GENETICA DEGLI ITALIANI

Maciamo Hay

Traduzione di: Giovanni Bigazzi

Fonte: Eupedia

Introduzione

L’Italia è un paese interessante sia per la genetica che per la storia. Come ebbe a dire il Metternich nel 1847 “l’Italia è solo un’espressione geografica”. La penisola fu unificata dal Piemonte due decadi dopo, ma la frase di Metternich resta attuale fino ai giorni nostri. Non c’è un popolo italiano, ma una moltitudine di gruppi etnici e culturali, spesso con una propria storia individuale fin dall’antichità.

In ogni caso l’Italia fu abitata fin dal Neolitico: agricoltori del vicino oriente, tribù italiche, Liguri, Etruschi, Fenici, Greci, Celti, Goti, Longobardi, Bizantini, Franchi, Normanni, Svevi, Arabi, Berberi, Albanesi, Austriaci e molti altri ancora. Tutti hanno dato il loro imprinting genetico sulle popolazioni delle regioni nei quali si erano stabiliti. Questa pagina cerca di identificare il loro marker genetico usando gli aplogruppi del cromosoma Y, che sono trasmessi praticamente invariati di padre in figlio.

Storia dei popoli e tribù che hanno fatto l’Italia

Paleolitico e Neolitico

L’Europa è stata abitata dall’uomo moderno da oltre 40.000 anni. La gran parte di questo tempo corrisponde all’Era Glaciale, un periodo nel quale gli uomini vivevano come nomadi cacciatori-raccoglitori in piccole tribù. Durante il culmine dell’Era Glaciale (LGM) che durò approssimativamente dai 26.500 ai 19.000 anni fa, gran parte dell’Europa settentrionale e centrale era coperta dai ghiacci ed era virtualmente inabitabile per gli umani. L’Italia fu uno dei rifugi temperati per gli uomini di Cro-Magnon. Si pensa che i Cro-Magnon appartenessero solo agli aplogruppi Y-DNA F e I.

Ci sono alcuni lignaggi patriarcali superstiti dei Cro-Magnon in Italia. Porzioni dell’ aplogruppo I2* e I2c (L596) sono state osservate in percentuale molto bassa nell’Italia Nord-occidentale, tra le Alpi e la Toscana. Non è certo, comunque, che queste linee genetiche siano rimaste in Italia dall’Era Glaciale. Potrebbero essere venute da altre part dell’Europa, in particolare con i Celti, che portarono anche l’I2a2b (L38). Le tribù germaniche hanno portato I1 e 12a2a (M223). Alcuni di questi lignaggi genetici potrebbero discendere dai Cro-Magnon della penisola italiana che migrarono a Nord quando il clima si fece più temperato circa 10.000 anni fa.

Il più comune aplogruppo I in Italia è l’I2a1a (M26), che si trova principalmente in Sardegna (36% dei linee patriarcali) e in misura minore in iberia e sulle coste del Mediterraneo occidentale. Non è ancora chiaro dove si è sviluppato l’I2a1 (P214). Potrebbe essere in Italia, nei Balcani, o perfino più a Est nei Carpazi e a Nord del Mar Nero. Secondo le stime attuali l’I2a1 è comparso circa 20.000 anni fa vicino alla fine dell’LGM e si è diviso quasi subito nel ramo occidentale (M26) e nel ramo orientale (M423). Con tutta probabilità, i territori delle popolazioni nomadi I2a1 includerebbero il Nord-est italiano e le Alpi dinariche nel rifugium. La tribù crebbe e si divise, una parte raggiunse l’Italia occidentale ed il Mediterraneo occidentale, mentre l’altra andò ad oriente dei Balcani verso la steppa pontica.

Al tempo in cui i primi agricoltori e pastori del Neolitico arrivarono in Italia dal Medio Oriente circa 8.000 anni fa, gran parte della penisola dovrebbe essere stata abitata dai cacciatori-raccoglitori I2a1a. L’agricoltura fece la sua comparsa nel Levante circa 11.500 anni fa. Nei successivi due millenni e mezzo si diffuse lentamente in Anatolia e in Grecia. Ci volle un altro millennio per gli agricoltori del Neolitico per attraversare il mare e arrivare in Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna e da lì spostarsi verso l’interno e colonizzare il resto della penisola per un altro millennio ancora. Circa 7.000 anni fa tutta l’Italia fino agli angoli più remoti delle Alpi adottò l’agricoltura. I nuovi venuti dal Medio Oriente appartenevano essenzialmente all’aplogruppo G2a, e sembra che abbiano portato seppur in quota minore i lignaggi E1b1b, J*, J1, J2 e T. La maggior parte degli attuali italiani E1b1b e J2 arrivò più tardi, con gli Etruschi, i Greci e le svariate popolazioni mediorientali che si stabilirono in Italia durante l’impero romano. In particolar modo Ebrei e Siriani.

Sembra che i cacciatori-raccoglitori abbiano lasciato la penisola dopo l’arrivo degli agricoltori del Neolitico tranne che in Sardegna dove si fusero con loro forse perché ostacolati dal mare o perché non potevano fare altrimenti. Tuttora i Sardi sono la popolazione più simile agli europei del neolitico. Questo era già conosciuto da studi archeologici e antropologici, ma è stato confermato dai test sul genoma di Otzi, un uomo mummificato di 5.300 anni fa ritrovato nel ghiaccio delle Alpi italiane ed il cui DNA è stato scoperto molto simile ai Sardi moderni. L’isolamento geografico della Sardegna ha lasciato i suoi abitanti non affetti da influenze esterne, a parte una minoranza di coloni Fenici, Romani e Vandali. Per esempio il combinato 3% di I1, I2a2a e R1a può essere attribuito ai Vandali, una tribù germanica che governò la Sardegna tra 435 ed il 534. I Romani avevano un 10% di R1b-U152, e probabilmente altri lignaggi E1b1b, G2a e J2.

Dall’età del Bronzo all’età del ferro

Italici e Romani

L’Età del bronzo fu introdotta in Europa dai Proto-Indoeuropei, che migrarono dal Caucaso settentrionale e dalla Steppa pontica ai Balcani (da circa 6.000 anni fa), poi risalirono il Danubio e invasero l’Europa centrale e occidentale (da 4.500 anni fa). Le popolazioni che parlavano l’italico, una lingua di ceppo indoeuropeo, si pensa che abbiano attraversato le Alpi e invaso la penisola italiana circa 3.200 anni fa, fondando la cultura di Villanova e portando con sé i lignaggi R1b-U152 sostituendo e facendo spostare gran parte della popolazione autoctona. Le popolazioni italiane del Neolitico trovarono rifugio negli Appennini e in Sardegna. Oggi la più grande concentrazione di aplogruppi G2a e J1 fuori dal Medio Oriente si trova negli Appennini, Calabria, Sicilia e Sardegna.

Le tribù italiche conquistarono tutta la penisola ma si stanziarono in massa nell’Italia settentrionale e centro-occidentale, specialmente nella Pianura padana ed in Toscana ma anche in Umbria e nel lazio. In questa logica i Romani dagli originali fondatori di Roma ai patrizi della repubblica romana dovrebbero essere R1b-U152. I matrimoni misti con i loro vicini Etruschi e Greci portarono altri lugnaggi nel nucleo originale dei Romani (vedi sotto).

Un’ulteriore prova che gli abitanti della repubblica romana appartenessero ancora all’R1b-U152 viene dall’attuale popolazione delle città che essi fondarono. Da Sottolineare che la maggior parte delle città fondate nella repubblica romana dai coloni romani nell’Italia settentrionale (Alba, Aosta, Asti, Bologna, Brescia, Casale Monferrato, Cremona, Ferrara, Forlì, Ivrea, Lodi; Massa, Milano, Modena, Monza, Parma, Pavia, Piacenza, Pistoia, Pollenzo, Reggio Emilia, Rimini, Sarzana, Torino, Tortona) sono localizzate nelle aree con oggi la più alta incidenza di R1b-U152 (e la più bassa incidenza di E1b1b e J2). Solo poche colonie romane furono fondate nell’Italia del Nord-est (Aquileia, Belluno, Pordenone, Vicenza), quattro nelle Marche (Ancona, Macerata, Pesaro a Senigallia) e neanche una nell’odierna regione Liguria.

Naturalmente l’U152 era già presente nell’Italia settentrionale prima del periodo romano. Ma se i coloni romani non fossero stati in maggioranza U152, la sua frequenza sarebbe stata diluita dai nuovi arrivati. Quello che osserviamo è l’opposto: la frequenza dell’U-152 è amplificata attorno alle colonie romane.

L’R1b-U152 è stato anche trovato in piccole percentuali (tra l’1 ed il 10%) praticamente ovunque entro i confini dell’impero romano, perfino in regioni dove nessun’altra popolazione R1b-U152 si è mai stabilita (per esempio Celti Halstatt/La Tène) come in Sardegna e in Africa settentrionale. D’altra parte non tutto l’U152 in Italia meridionale è di origine italica o romana diretta. Una quota parte può essere attribuita ai Normanni (quelli di origine gallo-romana piuttosto che vichinga) e agli Svevi durante il Medio Evo, specialmente in Sicilia.

Durante la tarda Età del Bronzo e nella prima Età del Ferro altre tribù indoeuropee si stabilirono nel Nord Italia come i Liguri in Liguria, i Leponti ed i Celti Galli in Piemonte ed gli adriatici Veneti in Veneto.

Secondo l’antico mito delle origini di Roma, Romolo e Remo discendevano dal re latino di Alba Longa, egli stesso un discendente del principe troiano Enea che scappò nel Lazio dopo la distruzione di Troia da parte dei Greci. Troia potrebbe essere stata fondata dai più antichi rami M269 e/o L23 dell’R1b, rappresenterebbe la prima espansione dalle steppe pontiche verso i Balcani (vedi la storia dell’R1b). Se c’è verità nel mito (come di solito accade) i Troiani potrebbero aver portato nell’Italia centrale l’M269 o L23 (probabilmente con altri aplogruppi, in particolare il J2) circa nel 1.200 a.C. nello stesso tempo in cui l’U152 invadeva dal Nord. Gli Etruschi che si suppone siano originari dell’Anatolia occidentale non lontano da Troia, potrebbero aver portato l’R1b-L23 in Italia assieme ad altri aplogruppi (guarda sotto) . Oggi l’R1b-L23 è il secondo aplogruppo R1b più diffuso in Italia (vedi mappa) sebbene ben distante dall’R1b-U152. L’L23 ha una distribuzione marcatamente uniforme su tutta la penisola italiana tra il 5 ed il 10% di tutti i lignaggi patriarcali. Si trova in percentuale leggermente maggiore in Campania e Calabria a causa delle colonie greche, e decresce al 5% della popolazione attorno alle Alpi.

Lo studio sull’Y-DNA dei Sardi di Sardinian Y-DNA by Francalacci et al. (2013) ha permesso di gettare uno sguardo alle subcladi dell’R1b sull’isola che non è mai stata colonizzata da Celti o Etruschi e neppure dalle tribù italiche a parte i Romani. Solo i Greci hanno avuto un insediamento ad Olbia che non ha influenzato la genetica dell’isola. In altre parole tutto l’R1b indoeuropeo in sardegna (a parte una piccola percentuale di R1b germanico portato dai Vandali) può essere attribuito ai Romani. I risultati sono inequivocabili, l’R1b-U152 è il 10% di tutti i lignaggi sardi, mentre R1b-M269 e R1b-L23 insieme si attestano all’1,5%. Questo rende ancora più evidente che l’R1b-U152 è il lignaggio predominante tra i Romani. Gli U152 sardi possono essere utilizzati per distinguere le subcaldi romane dell’U152 dalle altre italiche e alpino-celtiche. In Sardegna sono state trovate tutte e quattro le subcladi principali dell’U152 ma in percentuali molto diverse che nel continente, specialmente a Nord delle Alpi dove L2 fa più di due terzi di tutti i lignaggi. Invece in sardegna Z192 è la principale subclade (58,5% di tutto l’U152), seguito da Z56 (10%, metà dei quali sono Z144+), L2 (7,8%, esclusivamente Z49+ e Z2347+) e Z36 (5,5%, di cui metà Z54+)

L’analisi dei lignaggi sardi suggerisce che gli antichi latini/Romani non portavano tanto E1b1b, se non alcuno. Del 9,5% di E1b1b in Sardegna, un 6% appartiene alla subclade nordafricana M81, quasi certamente risalente al tempo nel quale la Sardegna era una colonia fenicia/cartaginese con intensi legami col Nord Africa. Il restante 3,5% dovrebbe essere in gran parte di origine fenicia e neolitica (detagli), ciò significa che i Romani probabilmente non portavano lignaggi E1b1b. La percentuale di aplogruppo J2 in Sardegna che potrebbe essere romana è compresa tra il 2% ed il 6%, quindi meno della metà, e probabilmente ridotta ad un quinto dell’R1b-U152. L’aplogruppo G2a in Sardegna è ampiamente di origine neolitica, sebbene qualche punto percentuale potrebbe essere Fenicio o Romano. La forma romana di G2a è quasi certamente G2a3b1a e alle sue principali subcaldi U1 e L497, la cui distribuzione in Europa rispecchia quella dell’R1b-U152. Queste subcladi quotano una percentuale pari ad 1/7 comparata all’R1b-U152.

Etruschi, Fenici e Greci

Tra il 1200 ed il 539 a.C. i Fenici crearono un vasto impero commerciale dalla loro patria nel Levante lungo il Mediterraneo meridioanale fino in Iberia. In Italia fondarono delle colonie nella Sicilia occidentale e in Sardegna meridionale e occidentale. Basandosi sugli aplogruppi trovati nel Libano e nello loro antiche colonie, i Fenici sembrerebbero aver portato una miscela di aplogruppi J2, J1, E1b1b, G, R1b-M269/L23, T, L, R1b-V88, R2 e Q, praticamente nell’ordine di frequenza. Confrontando il DNA sardo e libanese possiamo stimare che i Sardi hanno ereditato tra il 16% ed il 24% del loro Y-DNA dai Fenici (detagli).

I dati sul DNA autosomale forniti da Haak et al 2015 (cifra i dati estesa) mostrano come i Sardi differiscano dai Baschi dalla presenza di admixture beduine e caucasico-gedrosiane ed un percentuale leggermente maggiore di agricoltore neolitico. Queste tre componenti si ritrovano in percentuali più o meno uguali nei moderni Libanesi, e messe insieme raggiungono dal 10% al 15% del DNA sardo. Questa è la stima più attendibile del contributo genomico Y-DNA dei Fenici alla popolazione sarda moderna. Non è sorprendente che la percentuale presunta di Y-DNA fenicio dovrebbe essere un po’ maggiore, poiché gli uomini tipicamente sono costituiti da una proporzione più grande degli antichi coloni.

Un altro ruolo chiave nella composizione dell’Italia dell’età del Ferro furono gli Etruschi che comparvero circa nel 750 a.C. apparentemente dal nulla. Qualcuno ha postulato che essi venissero dall’Anatolia ma le origini restano incerte fino ai nostri giorni. Sebbene il loro territorio coincida con la diffusione dell’aplogruppo R1b-U152. Gli Etruschi non parlavano una lingua indoeuropea e la loro lingua non era collegata ad alcuna altra lingua antica tranne il retico delle Alpi ed il lemniano del Mare Egeo. E’ possibile che gli Etruschi venissero da qualche parte dal mediterraneo orientale ed imposero la propria lingua sulle tribù italiche della Toscana e successivamente sulla Pianura padana così dividendo le popolazioni di lingua indoeuropea in due. Basandosi sugli aplogruppi non indoeuropei che si trovano oggi in Toscana centrale e meridionale, gli Etruschi originari probabilmente appartenevano ad un insieme di aplogruppi J2, E1b1b, G2a e R1b-M269 (o R1b-L23) in questo ordine di frequenza. Questo sembrerebbe supportare l’origine greca o anatolica occidentale. L’alta percentuale di R1b-U152 in Toscana oggi è dovuta alle tribù italiche assorbite dagli Etruschi e dai Romani che ricolonizzarono parte dell’Etruria.

Furono gli antichi Greci ad avere il maggiore impatto genetico sull’Italia meridionale. Dall’VIII secolo a.C. i Greci costituirono colonie lungo le coste della Campania, Calabria, Basilicata, Puglia meridionale e Sicilia (tranne la punta occidentale) in quella che conosciamo col nome di Magna Grecia. La loro firma genetica è essenzialmente costituita dagli aplogruppi J2 (18-30%) e E1b1b (15-25%), ma gli antichi Greci portavano anche R1b-M269/L23 (5-10%), G2a (3-8%), T (1-6%), I2a1b (1-5%), R1a (1-3%), e J1 (1-2%). E’ molto chiaro nelle mappe degli aplogruppi che le aree nell’Italia centrale e meridionale più lontane dalle coste e dalle antiche colonie greche, come in Abruzzo, Molise e gli Appenini meridionali corrispondono le più alte percentuali degli aplogruppi G2a, J1 e T in Italia, ma anche le più basse frequenze di E1b1b e J2 nell’Italia meridionale. Non c’era modo migliore di contrastare le popolazioni del Neolitico in Italia che con le antiche colonie greche.

I Greci colonizzarono anche la Liguria a la riviera francese, dove fondarono Genova, Nizza (che fu una città italiana fino al 1860) e Marsiglia. I Fenici ed i Cartaginesi ad un certo momento costituirono anche delle basi in Liguria. Gli attuali Liguri hanno la più alta percentuale di E1b1b fuori dal Sud Italia (quasi interamente il greco E-V13), ma anche la più alta percentuale di G2a e J1 fuori dagli Appennini, che probabilmente significa che la regione montagnosa servì come riparo per le popolazioni del Neolitico durante le invasioni degli Italici. L’R1b costituisce circa la metà dei lignaggi liguri, di cui il 22% appartiene alla subclade U152, il 20% alla P312 (il più alto livello in Italia), 6% alla L23, e 2% alla L21. Gli antichi Liguri parlavano una lingua tra il celtico (P312, L21) e l’italico (U152) ed il loro Y-DNA è suddiviso quasi a metà tra l’italico ed il celtico. Il 6% dell’L23 è probabilmente di origine greca. Circa un terzo dei liguri moderni sono di origine greca.

Impero romano e Medio Evo

Nel primo secolo Roma diventò la capitale di un vasto e cosmopolita impero. L’immigrazione a Roma fece crescere la città da una popolazione di circa 400.000 abitanti nel III secolo a.C. , prima che Roma cominciasse ad espandersi oltre la penisola italiana fino ad almeno 1 milione sotto l’imperatore Augusto (27 a.C. – 14 d.C.) poiché questi migranti provenivano da ogni parte dell’impero è molto difficile stimare quale fosse l’impatto per la città di Roma e la penisola italiana, ma fu sicuramente importante nel Lazio.

Goti, Longobardi e Bizantini

Nel IV e nel V secolo il raffreddamento climatico costrinse le popolazioni germaniche e slave a migrare verso sud e occidente e ad invadere l’impero romano in cerca di terre più fertili. I popoli germanici portarono in Italia gli aplogruppi I1, I2a2a (M223, prima conosciuto come I2b1), R1b-U106 e R1a (subcladi L664, Z282 e Z283).

Vandali furono i primi a raggiungere la penisola italiana. Erano emigrati in Iberia, poi passarono in Nord Africa nel 429, dove fondarono un regno che comprendeva anche Sicilia, Sardegna e Corsica. La Sardegna è il miglior posto per cercare tracce del loro DNA perché da una parte è la regione più studiata d’Italia, e dall’altra non ci furono altri popoli germanici che vi si stabilirono (a parte la piccola parentesi del regno dei Goti), ciò significa che la presenza di lignaggi germanici sull’isola è incontestabilmente di origine vandalica. basandosi sull’accurato studio su 1.200 Sardi di Francalanci et al. (2013) sembrerebbe che i Vandali fossero portatori del 35% di R1a, 29% di I2a2a, 24% di R1b, 6% di I2a1b e appena il 6% di I1. Le subcladi identificate sono I1a3a2 (L1237+), I2a2a (L699+ and CTS616+), I2a1b (M423+), R1a-Z282 (incl. some Z280+), R1a-M458 (L1029+), R1b-U106 (Z381+), R1b-L21 (DF13>L513+), R1b-DF27 (Z196>Z209+). La più probabile ragione per l’elevato (proto-) slavico R1a e la presenza dell’europeo orientale I2-M423 è che i Vandali stavano in Polonia prima di emigrare nell’impero romano.. Oltre un terzo dei maschi Vandali sono di origine proto-slavica.

Nel 475 a varie tribù germaniche orientali (Eruli, Rugi e Scirii) fu rifiutato dall’imperatore romano lo status di federati. Sotto la guida di Odoacre, in passato segretario di Attila, deposero l’ultimo imperatore e crearono il primo regno d’Italia (476-493) portando alla fine dell’impero romano d’occidente. Il regno fu conquistato dagli Ostrogoti che governarono tutta l’Italia eccetto la Sardegna fino al 553. La capitale degli ostrogoti fu Ravenna. Essi furono seguiti dai Longobardi (568-774) che si contesero il controllo politico dell’Italia con i Bizantini. Come gli Ostrogoti i Longobardi invasero l’Italia dalla Pannonia e si stabilirono principalmente nel Nord-est ed in Lombardia, che da loro prese il nome. La capitale dei Longobardi fu Pavia in Lombardia. Stabilirono vari ducati in particolare in Friuli (a Cividale), Trento, Toscana (a Lucca), Spoleto, Benevento, come nelle principali città della Lombardia e del Veneto.

I geni dei Goti e dei Longobardi vennero rapidamente diluiti nella popolazione italiana a causa del loro relativamente piccolo numero e della loro dispersione geografica per governare e amministrare il loro regno. Sia i Goti che i Longobardi venivano dalla Svezia meridionale. Tuttavia le loro rotte migratorie differirono alquanto. I Goti scesero dall’attuale Polonia fino al Mar Nero, dove sicuramente si unirono alla popolazione locale, poi si spostarono nei Balcani verso la metà del III sec. dove rimasero fino al V sec. Considerando le alte percentuali di R1a vandalico ritrovato in Sardegna, non sarebbe irragionevole pensare pensare che più della metà dei lignaggi gotici fossero diventati proto-slavici (R1a e I2a1b) quando giunsero nei Balcani. Era pratica comune al tempo delle tribù europee orientali di convergere e mantenere il nome della tribù dominante. Nello stesso periodo anche gli Unni erano un insieme di etnie tenute insieme dalla leadership degli Unni. I Goti si sarebbero in qualche modo fusi con gli abitanti dei Balcani nei due secoli che precedettero la loro invasione dell’Italia, assimilando principalmente lignaggi J2, E1b1b ed ancora I2a1b. Nel V secolo i Goti sarebbero diventati un crogiuolo nel quale il loro Y-DNA germanico originario era rimasto solo in piccola parte. Questo spiegherebbe come mai si trovi così poco Y-DNA germanico nella Francia sud-occidentale e in Spagna (che era l’antico regno visigoto) rispetto alle altre regioni dell’Europa occidentale compresa l’Italia.

Contrariamente ai Goti e ai Vandali, i Longobardi partirono dalla Scandinavia e si mossero a Sud attraverso la Germania, l’Austria e la Slovenia, lasciando i territori germanici solo alcune decadi prima di raggiungere l’Italia. I Longobardi restarono essenzialmente una tribù germanica al tempo in cui invasero l’Italia. I campioni di DNA da Campobasso in Molise e da Benevento in Campania possono dare una buona idea sulle proporzioni di ciascun aplogruppo germanico portato dai Longobardi. Campobasso fu fondata dai Longobardi e perse importanza dopo la fine del dominio longobardo. Benevento era la sede di un potente ducato longobardo. Tra gli aplogruppi germanici identificati a Campobasso da Boattini et al. (2013) c’è il 16% di I1, il 10,5% di R1b-U106 e il 3,5% di I2a2a. Non è stato trovato alcun R1a. Lo stessa ricerca ha rilevato il 5,5% di R1a, il 2,5% di I1 e il 2,5% di R1b-U106 a Benevento. Se facciamo la media, i Longobardi sembra che avessero all’incirca 40% di I1, 30% di R1b, 20% di R1a e 5% di I2a2a, una percentuale paragonabile a quella dell’odierna Svezia.

Alcune regioni non furono mai sotto il controllo dei Longobardi, compresa Sardegna, Sicilia, Calabria, Puglia meridionale, Napoli ed il Lazio. In tutte queste regioni i Bizantini portarono altro lignaggio greco-anatolico (in particolare E1b1b e J2), che erano già gli aplogruppi dominanti dall’epoca della Magna Grecia. I Bizantini dovrebbero aver modificato leggermente l’ammontare degli aplogruppi presenti in Italia meridionale, ma il loro impatto potrebbe essere stato più incisivo in alcune parti del Nord Italia che appartenevano all’Esarcato di Ravenna cioè la Romagna, le Marche, la costa veneta e la Liguria. Sarà una coincidenza, ma tutte queste regioni sono proprio quelle nelle quali gli aplogruppi J2 e E1b1b1 raggiungono frequenze comparabili con quelle della Grecia e dell’Anatolia occidentale. Il J2 non era un aplogruppo diffuso nel Neolitico ed i Greci non colonizzarono il Nord Italia (tranne la Liguria) nei tempi antichi. Gli Etruschi potrebbero aver diffuso E1b1b e J2 in Emilia-Romagna ma non erano presenti nelle altre regioni. Lo stabilirsi di una popolazione bizantina è dopotutto la migliore spiegazione per la diffusione di E1b1b1 e J2 nel Veneto e nelle Marche. La regione di Costantinopoli ha una delle maggiori concentrazioni di J2 del mondo.

Franchi, Arabi e Normanni

Franchi conquistarono il regno longobardo d’Italia nel 774. Contrariamente ad altre tribù germaniche prima di loro, lo scopo dei Franchi non era quello di trovare una nuova patria. Quindi non migrarono in massa in Italia. Portarono solo soldati e amministratori (non necessariamente di discendenza franca, ma anche gallo-romani), come fecero i Romani quando estesero il loro impero. La loro firma genetica è allora più sfuggente, sebbene abbiano sicuramente aumentato la proporzione di I1 e R1b-U106.

Subito dopo l’arrivo dei Franchi, i Saraceni invasero la Sicilia, dove costituirono un emirato (831-1072). Molti musulmani se ne andarono dopo la riconquista normanna nell’XI secolo. Ciò nonostante la Sicilia ha una percentuale leggermente maggiore dell’aplogruppo asiatico sud-occidentale J1 e del nordafricano E-M81 del resto dell’Italia meridionale. Si sa che gli Arabi hanno diffuso l’aplogruppo J1 durante l’espansione dell’Islam. Comunque le colonie fenicie della Sicilia potrebbero essere state la causa di una quota maggiore di J1 in Sicilia. Allo stesso modo l’E-M81 è un aplogruppo berbero, ma la sua presenza in Sicilia potrebbe risalire al tempo dei Fenici, dei Romani o dei Vandali in quanto gli scambi commerciali erano frequenti tra la Sicilia e la Tunisia

Normanni lasciarono un’impronta molto più chiara in Sicilia e nell’Italia meridionale. In origine Vichinghi danesi, ai Normanni fu concesso un ducato dal re di Francia nel 911. Dal 999, chiamati dal principe di Salerno, cavalieri normanni cominciarono a servire i Longobardi in qualità di mercenari contro i Bizantini. Rapidamente acquisirono proprie contee e ducati e riunificarono tutta l’Italia meridionale sotto il loro dominio. Nel 1061 invasero al Sicilia, che fu completamente conquistata nel 1091. Il regno normanno di Sicilia fu costituito nel 1130, con Palermo come capitale e durò fino a XIX sec. Oggi è nella Sicilia nord-occidentale, attorno a Palermo e Trapani, che l’Y-DNA normanno è più comune con l’aplogruppo I1 compreso tra l’8% ed il 15%.

Mappe di distribuzione di aplogruppi Y-DNA in Italia

Y-DNA frequenze per regione

Campioni totali per l’Italia = 6145.
Per le regioni, la prima riga mostra il numero di campioni, mentre la seconda fila è la percentuale per ogni aplogruppo.

MtDNA frequenze per regione

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GLI STATI UNITI SARANNO “UNA MINORANZA BIANCA” GIA’ NEL 2045

William H. Frey

La giovinezza delle minoranze sarà il motore della futura crescita.

Fonte: Brookings

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Nuovi censimenti ribadiscono l’importanza delle minoranze razziali come primario motore demografico della futura crescita della Nazione, dinanzi al prossimo declino di una popolazione bianca sempre più vecchia, e dalla crescita sempre più lenta. Le più recenti statistiche, infatti, prospettano che gli Stati Uniti vedranno una “minoranza bianca” già dal 2045. Nel corso di quell’anno, i bianchi comporranno il 49,7% della popolazione, in contrasto con il 24,6% di ispanici, il 13,1% di neri, il 7,9% di asiatici, ed il 3,8 di individui di razza mista.

Tale spostamento di equilibri è il risultato di due differenti tendenze. In primis, fra il 2018 ed il 2060 le combinate minoranze razziali continueranno ad aumentare, crescendo di 74 punti percentuali. In secondo luogo, durante questo lasso di tempo, la sempre più vecchia popolazione bianca vedrà per il 2024 un modesto aumento immediato, seguito da un declino a lungo termine sino almeno al 2060, conseguenza di un tasso di mortalità inferiore a quello di natalità.

Fra le diverse minoranze, la maggiore crescita andrà a registrarsi fra individui di razza mista, asiatici ed ispanici, con tassi di crescita fra il 2018 ed il 2060 ammontanti rispettivamente al 176%, 93% ed 86%. L’origine di tale crescita demografica varia rispetto ai differenti gruppi. Per esempio, l’immigrazione contribuisce ad un terzo dell’incremento ispanico, con i rimanenti due terzi attribuibili all’aumento naturale (le nascite che superano le morti). Nel caso degli asiatici, l’immigrazione è legata a tre quarti della prevista crescita numerica.

Queste nuove previsioni differiscono da quelle precedentemente rilasciate nel 2014. Queste ultime collocavano l’avvento della minoranza bianca nel 2044, a causa di un’immigrazione presuntivamente più estesa ed in una più elevata crescita supposta per diversi gruppi razziali. Anche l’incremento nazionale stesso si attestava su livelli superiori nelle previsioni del 2014; si riteneva infatti che gli Stati Uniti avrebbero raggiunto una popolazione di 400 milioni nell’anno 2051, rispetto alle nuove previsioni che spostano tale traguardo avanti di sette anni, fino al 2058.

Dal momento che le minoranze nel loro insieme sono più giovani della popolazione bianca, il punto di svolta arriverà prima per i gruppi di età più giovane. Come mostrato nel terzo grafico, le nuove previsioni indicano che, per i giovani minori di 18 anni di età – la cosiddetta popolazione “post-millennial” – le minoranze supereranno quantitativamente i bianchi già nel 2020. Nella fascia di età compresa fra i 18 ed i 29 anni – i componenti più giovani dell’elettorato e della forza lavoro – la svolta si verificherà nel 2027.

Il verificarsi di questi punti di svolta è previsto soltanto per una fase successiva nel caso delle fasce di età più anziane, con ciò significando che i sessantenni e gli ultra-sessantenni rimarranno a maggioranza bianca anche dopo il 2060. La motivazione di questa differente evoluzione del fenomeno è riconducibile nel breve periodo al persistere dell’influenza del largamente bianco baby boom. Infatti, negli anni che decorrono fra il 2018 ed il 2060, l’unico gruppo di età della popolazione bianca a non subire riduzioni quantitative è proprio quello dei sessantenni e degli ultra-sessantenni, un gruppo che – nel suo complesso – seguita a crescere più rapidamente di ogni altro.

In tutta evidenza, è l’incremento delle giovani e fresche minoranze – attribuibile ad una combinazione di fattori, dall’immigrazione passata e presente al più elevato tasso di natalità fra i più giovani – ad impedire al Paese di invecchiare ancora più velocemente.

Il grafico 4 mostra chiaramente quanto le minoranze diverranno parte preponderante della gioventù americana attraverso il 2060. Allora, i censimenti prospettano che i bianchi costituiranno solamente il 36 % della popolazione di età inferiore ai 18 anni, con gli ispanici attestantisi intorno al 32%. Tali dati contrastano drasticamente con il contributo delle minoranze alla popolazione più anziana, che quantomeno per la sua metà continuerà saldamente a rimanere bianca.

Dal momento che le minoranze razziali costituiranno lo stimolo principale alla crescita della popolazione giovane nel Paese nel corso dei prossimi 42 anni, esse contribuiranno anche a decelerare drasticamente l’invecchiamento della Nazione. Già sin dal 2018, si conteranno fra i bianchi più vecchi che bambini e più decessi che nascite, stando alle attuali stime. Le dinamiche nell’ambito delle combinate minoranze, invece, si manterranno assai differenti fra il 2018 ed il 2060.

Le minoranze costituiranno – nel futuro che ci è dato di intravedere – la scaturigine di tutta la crescita della fetta più giovane della Nazione e della sua forza lavoro, come anche di gran parte di quella dell’elettorato, e di buona parte di quella del bacino dei consumatori e dei contribuenti. Pertanto, la sempre più rapidamente crescente popolazione anziana – largamente bianca – sarà sempre più dipendente dai contributi delle minoranze, sia dal punto di vista economico che assistenziale. Ciò suggerisce più che mai la necessità di persistenti investimenti nella giovane popolazione multirazziale del Paese, laddove il continuo invecchiamento della popolazione stessa appare, in caso contrario, un fenomeno non altrimenti contrastabile.

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SEMINARISTI BRITANNICI AFFERMANO DI VERGOGNARSI E SENTIRE IL “PESO” DELLA COLPA PER ESSERE BIANCHI.

Jack Montgomery

SESSIONI DI AUTOCRITICA: PARTECIPANTI AD UN SEMINARIO ORGANIZZATO DAL SISTEMA SANITARIO BRITANNICO ACCUSANO CON “VERGOGNA” E “SENSO DI COLPA” IL “ PESO” DEL PROPRIO ESSERE BIANCHI.

Fonte: Breitbart

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Un video recentemente emerso relativo ad un seminario organizzato dal Servizio Sanitario Nazionale britannico sul “problema” di “essere bianchi” mostra una discussione al termine della prolusione evolversi in qualcosa di assai simile a una sessione di autocritica di stampo maoista, con tanto di testimonianze dei partecipanti bianchi riguardanti la propria “white-guilt” e gli sforzi compiuti per liberarsi dal “peso” di essere bianchi.

Il Tavistock and Portman National Health Service Foundation Trust, meglio noto per essere, nell’ambito del sistema sanitario statale britannico, uno degli enti principali nel settore delle pratiche di cambiamento di sesso in pazienti minorenni, ha inaugurato in Novembre il seminario virtuale “Whiteness – a problem for our time”, ripetendo tale seminario il successivo 14 Gennaio, dopo che la prima data aveva visto prendervi parte il notevole numero di 700 iscritti.

La fondazione ha postato lunedì, sul proprio canale YouTube, un video integrale del seminario di Gennaio, inclusa una discussione successiva alla prolusione principale nella quale i partecipanti bianchi, la maggior parte dei quali apparivano essere a vario titolo afferenti al campo della psicoterapia, venivano esortati dall’oratrice Helen Morgan a confrontarsi con il proprio “privilegio interiorizzato”, ottenendone in risposta vere e proprie auto-accuse.

Nel video è possibile osservare un oratore venire elogiato per aver rivelato di aver provato “paura” nel dover lavorare con due individui di origine afro-caraibica, ciò nonostante le obiezioni a lui successivamente rivolte da una donna nera per aver utilizzato il termine “afro-caraibici” invece di un probabilmente più corretto “caraibici di origine africana”.

Un altro oratore, invece, confessa di aver provato a ridurre la supposta sperequazione di potere fra lui stesso ed i colleghi di colore chiedendo loro, ad esempio: “Io sono un uomo bianco, e tu una donna nera: è tutto OK per te? Pensi che saremo in grado di collaborare?”

Noi bianchi, in quanto bianchi… dobbiamo lavorare su noi stessi”, afferma un altro partecipante, rammaricandosi che un numero maggiore di bianchi ancora non si risolvano a farsi avanti per sottolineare quanto sia importante che i bianchi stessi “condividano le proprie esperienze ed il proprio razzismo”.

Mi vergogno così tanto, mi sento così colpevole di essere una sudafricana bianca”, ammette una donna particolarmente provata a livello emotivo, rivelando di aver deciso di lavorare per l’African National Congress (ANC) nella propria madrepatria considerandolo una via per “liberarsi dell’opprimente peso della propria bianchezza”, e di essersi “rifiutata di socializzare” con altri sudafricani dopo essersi trasferita nel Regno Unito.

Nel prosieguo del video, vediamo la medesima partecipante rassicurare gli altri iscritti di stare adesso lavorando per “riconoscere” le conseguenze del proprio essere bianca, rivelando comunque non aver senso “sentirsi in colpa per essere bianchi se non si fa poi niente per agire in concreto su ciò che questo comporta”.

Andrew Cooper, responsabile del seminario e membro della fondazione Tavistock, nel corso del suo intervento è chiarissimo nell’individuare nel movimento Black Lives Matter le ragioni ispiratrici del seminario stesso, palesemente su base razziale, e l’oratrice Helen Morgan si mostra altrettanto adamantina nel definire quali siano i destinatari dell’iniziativa e cosa si aspetti da essi, spiegando che “persino noi che ci auto-definiamo bianchi progressisti” ancora seguitiamo ad essere razzisti, “seppur in modo gentile”.

Come prova esemplare del persistente privilegio razziale dei bianchi, vediamo Morgan evidenziare come siano ben più numerose le donne nere che muoiono durante dando alla luce i propri figli rispetto alle partorienti bianche, anche se, denota la stessa Morgan, “la razza è un concetto costruito a tavolino assolutamente privo di fondamenti biologici.”

Con parole nette, Helen Morgan chiarisce però che la “whiteness” è comunque ancora qualcosa di sin troppo reale, anche se la cosiddetta “colour-blindness”, l’approccio che vorrebbe postulare una totale indifferenza relativamente alla questione razziale, non solo si mostra come una soluzione inadeguata, bensì un attivamente nocivo meccanismo difensivo di quello stesso privilegio bianco che a parole si suppone di combattere.

Nel corso del video, ad esempio, ci è possibile ascoltare una donna, presentatasi come un membro del consiglio direttivo dell’organizzazione di psicoterapia a cui appartiene, concordare come la “colour-blindness” di alcune pratiche di formazione sia qualcosa di “decisamente spaventoso, addirittura quasi letale”, poiché costringe le minoranze etniche a sentirsi “maltrattate” e “traumatizzate”, non riconoscendo fenomeni quali le “micro-aggressioni”, da esse regolarmente subite.

Il Tavistock and Portman National Health Service Foundation Trust ha organizzato entrambi i seminari con il patrocinio della British Psychotherapy Foundation, del British Psychoanalytic Council, e della Società di Psicoterapia di Tavistock.

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