Storia
IL FALSO MITO DEL MELTING-POT
Plinius e Adalheidis

L’uomo moderno anatomicamente è il Cro-Magnon, che circa 35.000 anni fa, dopo la sua calata in Europa, avrebbe rapidamente soppiantato il Neanderthal, la cui scomparsa rimane ancora uno dei grandi misteri dell’antropologia. Alcune teorie propendono per un genocidio da parte dei Cro-Magnon(sapiens moderni), altre per un mescolamento delle due specie, la più probabile è che i Neanderthal non fossero capaci di competere con i Cro-Magnon per le risorse per la sopravvivenza e fossero andati estinguendosi. Qualche mescolamento è probabile, ma non su larga scala.
Arriviamo velocemente al Neolitico, tra 7500 a.C. e 3000 a.C. in Europa. Qui tratteremo più dell’Italia neolitica. Sappiamo che soprattutto nel Sud della penisola, in maggioranza arrivarono agricoltori provenienti dalla penisola anatolica, i quali, SPECIFICHIAMO, Anatolia NON significa “Turchia” e soprattutto NON significa “levantinismo-arabismo”. Erano popolazioni autoctone CAUCASICHE(EUROPIDI)stanziate lì da millenni. Invece, il Nord della penisola si riempì più di popolazioni alpine(il fenotipo alpino è uno dei più antichi d’Europa).
In ogni caso, queste popolazioni neolitiche furono soppiantate, con la guerra o la sottomissione forzata, dall’arrivo degli Indoeuropei. Chi erano gli Indoeuropei? Secondo la teoria kurganica di Maria Gimbùtas, gli Indoeuropei erano una popolazione caucasica(europide) sviluppatasi nelle steppe dell’odierna Russia meridionale ed ucraina.
Tutti gli europei moderni, oggigiorno, discendono anche dagli Indoeuropei che, in un periodo compreso tra il 3500 a.C. e il 1000 a.C. colonizzarono l’Europa ed anche l’altopiano Iranico(oltre all’India settentrionale) a più ondate: coloro che presero la via del Nord Europa oggi li definiamo “Germanici”, indo-iranici coloro che presero la via dell’odierno Iran, chi invece andò verso ovest furono coloro che definiamo “Italo-celti”: i ceppi poi si sarebbero separati, i Celti avrebbero colonizzato l’area della Gallia, gli Italici, appunto l’Italia, a più ondate: la prima sarebbe stata quella degli osco-umbri detti propri, composti da popoli quali i Sabini, i Marsi, gli Umbri, gli Osci e altre tribù di lingua osca, stabilitisi al centro appenninico e al Sud fino alla Calabria. Successivamente sarebbero saliti alla ribalta i latino-falisci, commisti alle popolazioni neolitiche dell’area dell’odierno Lazio. Per lungo tempo queste due stirpi avrebbero convissuto e si sarebbero influenzate a vicenda nell’Italia pre-romana, finché una città, appunto Roma, nel corso del I millennio a.C. avrebbe lentamente iniziato a predominare e ad imporre, alla fine del millennio, attraverso guerre e diplomazia, la romanizzazione culturale a tutti i popoli italici. I Veneti erano i “fratelli” e fedeli alleati dei Romani, che parlavano una lingua molto simile a quella latina, appartenente al ceppo latino-falisco.
Impossibili da non menzionare sono gli Etruschi, stanziati nell’odierna Toscana ove fiorì anche la civiltà villanoviana, e probabilmente gli stessi Etruschi sono una naturale continuazione di essa, al di là delle continue, ed a volte anche strampalate teorie “esotiche” che vengono per essi preposte, quali anatolici, medio-orientali o addirittura turchi, e tra il serio e il faceto(amerindi). Molto probabilmente gli Etruschi, organizzati in città-stato e mai in una singola nazione, sono il frutto dell’unione di villanoviani, piccoli gruppi di italici (che si riscontrano anche a livello linguistico e genetico: la Toscana è una delle regioni italiane con più alta concentrazione di DNA italo-celtico) e influenze greche, queste perlopiù provenienti dalle coste meridionali della penisola ove già coloni greci avevano fondato importanti città (tra cui, menzioniamo, la famosissima “fase orientalizzante”). Quando si parla di Etruschi, poi, non si possono non menzionare i Reti e i Camuni dell’arco alpino e prealpino, popolazioni appartenenti allo stesso ceppo autoctono alpino-tirrenico e affini agli Etruschi per lingua e cultura.
Sempre nel Nord, oltre ai già citati Galli di stirpe indoeuropea italo-celtica e di lingua celtica (il cui sostrato si ritrova ancora oggi nelle lingue gallo-italiche), troviamo anche gli autoctoni Liguri, che secondo alcuni sarebbero una popolazione atlanto-mediterranea parlante una forma arcaica di osco-umbro, che in seguito avrebbero assimilato la cultura celtica.
L’Italia sotto il dominio romano era essenzialmente popolata da italici romanizzati nella cultura, avendola lentamente perduta anche per la stessa cittadinanza romana che avevano richiesto all’inizio del I secolo a.C., anche se iscrizioni in lingua osca sono state ritrovate a Pompei risalenti al I secolo d.C.; il quadro genetico delle popolazioni da cui discendono gli italiani moderni è pressoché invariato dall’epoca preromana.
Qui serve un chiarimento riguardo chi pensa che gli schiavi dell’Impero, provenienti da ogni angolo, avrebbero “levantinizzato” l’Italia e l’Europa: sono affermazioni superficiali che lasciano il tempo che trovano. Anzitutto, gli schiavi provenivano appunto da ogni angolo dell’Impero e non solo dal Medio Oriente o dall’Egitto. C’era la Grecia, la Macedonia, l’Illirico, l’Anatolia, l’Iberia, la Gallia, la Britannia. E la popolazione servile, nel massimo periodo di splendore, non costituiva più del 35% della popolazione totale dell’intero Impero.
L’Italia rimase essenzialmente indoeuropea, ma allora come oggi, nel Sud rimase una discreta concentrazione neolitica, frammista ad influenze greche e osche, sia genetiche che culturali, sulle coste, che sarebbero continuate anche dopo la caduta dell’Impero con i domini bizantini(Impero romano d’Oriente). La calata dei Longobardi in Italia nel 568 è l’ultima da 1500 anni a questa parte che abbia un po’ rimescolato il patrimonio genetico degli abitanti della penisola, ma SOLO in zone precise. Sappiamo che al termine delle guerre gotiche del VI secolo la popolazione era ridotta a 4-5 milioni di abitanti, la metà rispetto a quella del Tardo Impero. I Longobardi, (in numero di 150.000-200.000) inizialmente oppressivi dominatori, col tempo si mitigarono e iniziarono a mescolarsi agli autoctoni italici(Romanici) nel Nord Italia, nella Tuscia(Toscana) e nel Sannio Beneventano(oltre al Molise). In queste zone si riscontra un discreto contributo longobardo, a livello linguistico ma in piccole proporzioni anche a livello genetico, mentre nella Riviera adriatica, in Sicilia e nel cosiddetto “corridoio bizantino” si ritrovano influenze greco-bizantine. Ma nonostante tutto questo, ancora oggi il corpus genetico degli italiani moderni, in generale, non è mutato di molto, se si eccettuano alcune aree specifiche. Franchi, Normanni e successive dominazioni, specie al sud, francesi e spagnole, erano costituite da gruppi di potere d’èlite, assolutamente irrilevanti dal punto di vista genetico, tutt’al più linguistiche, visto il discreto numero di termini napoletani in prestito da francese e spagnolo.
Quanto alle influenze germaniche, slave e franco-provenzali nelle vallate alpine, si tratta di minoranze giunte da oltralpe nel Medioevo e che tuttora conservano gelosamente la loro identità linguistica e culturale, ma che a nostro parere non giustificano le istanze secessioniste degli autoctoni.
Spesso, ultimamente, si sente parlare di “Medioevo multietnico”, secondo il quale i fitti scambi commerciali tra Mediterraneo e Nord Europa, tra Occidente e Oriente (tra cui, la via della seta che giungeva fino in Cina), le Crociate in Medio Oriente e la presenza di mercanti e viaggiatori stranieri nelle più importanti città portuali europee, giustificherebbero una “mescolanza” di popoli su larga scala, quasi come se fosse legittimo immaginarsi, in città come Marsiglia, Venezia o Costantinopoli, situazioni multietniche simili a quelle delle nostre metropoli attuali come la “cosmopolita” Londra( e non è un complimento). È un falso storico, forse dettato dall’esigenza di veicolare una visione “politicamente corretta della storia”, ma che di sicuro non corrisponde a verità: dopo le cosiddette “migrazioni di popoli” o “invasioni barbariche” che dir si voglia, che coinvolsero comunque popoli europei, l’Europa non ha più visto, nel corso dei secoli, migrazioni di massa di popoli provenienti dall’esterno, tanto che perfino la Turchia, che prende il nome dalle popolazioni dell’Asia centrale turche e turcofone del ceppo uralo-altaico (Ottomani) che la invasero nel XIV secolo e le più recenti migrazioni dal Medio Oriente, rimane nella sua parte occidentale un paese di retaggio indoeuropeo greco-anatolico.
Le altre nazioni dell’Europa occidentale, analogamente all’Italia, hanno conservato fino a tempi recenti la fisionomia che le caratterizzava fin dai tempi antichi: così come i Franchi non hanno reso la Francia un paese germanico, l’invasione islamica in Spagna non ha distrutto l’eredità celtiberica e latina, l’Inghilterra, nonostante le invasioni franco-normanne, romane e anglosassoni abbiano alterato il quadro linguistico e mitigato quello genetico, non ha subito influssi extraeuropei (se non ai tempi dell’imperialismo britannico, in età moderna), i paesi germanici, pressoché inalterati fin dall’età preromana, hanno subito grandi mutamenti genetici e sociali solo in seguito alle grandi migrazioni extraeuropee dell’ultimo secolo (escludendo ovviamente le minoranze ebraiche, fisicamente indistinguibili dagli europei).
L’est Europa invece andrebbe analizzato in separata sede in quanto ha subìto anche le invasioni di popoli turcofoni quali Avari, Bulgari e Cumani(in turco Kipcak), questi ultimi spesso in guerra poco dopo l’anno 1000 con i Variaghi-Slavi della Rus’ di Kiev. Il ceppo est europeo rimane comunque in maggioranza slavo, come pure la cultura e la lingua sono di natura slava.
Discorso a parte merita la presunta influenza araba in Sicilia o addirittura nel Meridione continentale della penisola. Quante volte sentite parlare di “Sud arabo”? Quante volte vi viene fatto credere che le “caratteristiche espressioni” dei meridionali siano araboidi? Tantissime. In realtà si tratta di percezioni distorte e di luoghi comuni passati nell’immaginario collettivo.
Iniziamo specificando che il Meridione italico MAI è stato sotto dominio arabo, tutt’al più i saraceni(berberi di solito) effettuavano scorrerie contro le coste tirreniche e adriatiche(dove per 40 anni in Puglia vi fu un califfato), ma a parte alcuni deportati dalla Sicilia dopo la calata dei Normanni in Sicilia, il Sud Italia ha sempre dovuto difendersi dai pirati saraceni e MAI è esistita una presunta commistione di arabi ed autoctoni. Solo alcuni sovrani longobardi del ducato di Benevento usarono truppe saracene per i loro fini.
La Sicilia, invece spesso additata come “araba” a prescindere, anche a causa della cattiva influenza di Michele Amari, autore ottocentesco, è forse la regione italiana più particolare di tutte. Di carattere prevalentemente neolitico, greco, italico(i Siculi erano un popolo italico, latino-falisco, proveniente dal Lazio), in età bizantina si arricchì di nuovi elementi greci, la conquista islamica fu sempre avversata dalle popolazioni autoctone che spesso soffrirono eccidi(a Palermo su 70.000 abitanti ne sopravvissero solo 3.000 in seguito alla conquista arabo-berbera), e durò meno di 200 anni, e in alcune zone della Sicilia orientale addirittura 90. I Normanni, corpo d’élite proveniente dal Nord-Europa(ma non Vichinghi puri come si è solito dipingerli) erano francesi di lingua e di cultura latina, misti a popolazioni germaniche. Il loro dominio sul Sud, a partire dalla metà del XI secolo, fu repentino. In Sicilia essi scacciarono rapidamente i berberi e gli arabi, e coloro che sopravvissero o non furono scacciati, nei secoli successivi, divenirono tristemente oggetto di persecuzioni e stermini. I Normanni stessi portarono popolazioni dal Nord Italia per ripopolare l’isola in alcune zone specifiche, le stesse dove oggi si parla il gallo-italico di Sicilia.
Detto ciò, anche nella stessa isola oggigiorno l’elemento genetico “arabo” tanto paventato è così irrisorio da non esser degno di menzione. Essa rimane di cultura greco-latina e geneticamente greco-italica.
Questo è quanto: le migrazioni recenti non possono e non devono essere usate come “modello” per descrivere il nostro passato. Non bisogna credere che gli italiani moderni siano araboidi-africani subsahariani imbastarditi da secoli e secoli di mescolanze. Semmai, quello è il destino che ci vogliono riservare in questi prossimi decenni, viste le invasioni di allogeni scaricati da mafie e barconi e ONG, e contro il quale ogni vero identitario deve sempre combattere.
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STORIA GENETICA DEGLI ITALIANI
Maciamo Hay
Traduzione di: Giovanni Bigazzi
Fonte: Eupedia

Introduzione
L’Italia è un paese interessante sia per la genetica che per la storia. Come ebbe a dire il Metternich nel 1847 “l’Italia è solo un’espressione geografica”. La penisola fu unificata dal Piemonte due decadi dopo, ma la frase di Metternich resta attuale fino ai giorni nostri. Non c’è un popolo italiano, ma una moltitudine di gruppi etnici e culturali, spesso con una propria storia individuale fin dall’antichità.
In ogni caso l’Italia fu abitata fin dal Neolitico: agricoltori del vicino oriente, tribù italiche, Liguri, Etruschi, Fenici, Greci, Celti, Goti, Longobardi, Bizantini, Franchi, Normanni, Svevi, Arabi, Berberi, Albanesi, Austriaci e molti altri ancora. Tutti hanno dato il loro imprinting genetico sulle popolazioni delle regioni nei quali si erano stabiliti. Questa pagina cerca di identificare il loro marker genetico usando gli aplogruppi del cromosoma Y, che sono trasmessi praticamente invariati di padre in figlio.
Storia dei popoli e tribù che hanno fatto l’Italia
Paleolitico e Neolitico
L’Europa è stata abitata dall’uomo moderno da oltre 40.000 anni. La gran parte di questo tempo corrisponde all’Era Glaciale, un periodo nel quale gli uomini vivevano come nomadi cacciatori-raccoglitori in piccole tribù. Durante il culmine dell’Era Glaciale (LGM) che durò approssimativamente dai 26.500 ai 19.000 anni fa, gran parte dell’Europa settentrionale e centrale era coperta dai ghiacci ed era virtualmente inabitabile per gli umani. L’Italia fu uno dei rifugi temperati per gli uomini di Cro-Magnon. Si pensa che i Cro-Magnon appartenessero solo agli aplogruppi Y-DNA F e I.
Ci sono alcuni lignaggi patriarcali superstiti dei Cro-Magnon in Italia. Porzioni dell’ aplogruppo I2* e I2c (L596) sono state osservate in percentuale molto bassa nell’Italia Nord-occidentale, tra le Alpi e la Toscana. Non è certo, comunque, che queste linee genetiche siano rimaste in Italia dall’Era Glaciale. Potrebbero essere venute da altre part dell’Europa, in particolare con i Celti, che portarono anche l’I2a2b (L38). Le tribù germaniche hanno portato I1 e 12a2a (M223). Alcuni di questi lignaggi genetici potrebbero discendere dai Cro-Magnon della penisola italiana che migrarono a Nord quando il clima si fece più temperato circa 10.000 anni fa.
Il più comune aplogruppo I in Italia è l’I2a1a (M26), che si trova principalmente in Sardegna (36% dei linee patriarcali) e in misura minore in iberia e sulle coste del Mediterraneo occidentale. Non è ancora chiaro dove si è sviluppato l’I2a1 (P214). Potrebbe essere in Italia, nei Balcani, o perfino più a Est nei Carpazi e a Nord del Mar Nero. Secondo le stime attuali l’I2a1 è comparso circa 20.000 anni fa vicino alla fine dell’LGM e si è diviso quasi subito nel ramo occidentale (M26) e nel ramo orientale (M423). Con tutta probabilità, i territori delle popolazioni nomadi I2a1 includerebbero il Nord-est italiano e le Alpi dinariche nel rifugium. La tribù crebbe e si divise, una parte raggiunse l’Italia occidentale ed il Mediterraneo occidentale, mentre l’altra andò ad oriente dei Balcani verso la steppa pontica.
Al tempo in cui i primi agricoltori e pastori del Neolitico arrivarono in Italia dal Medio Oriente circa 8.000 anni fa, gran parte della penisola dovrebbe essere stata abitata dai cacciatori-raccoglitori I2a1a. L’agricoltura fece la sua comparsa nel Levante circa 11.500 anni fa. Nei successivi due millenni e mezzo si diffuse lentamente in Anatolia e in Grecia. Ci volle un altro millennio per gli agricoltori del Neolitico per attraversare il mare e arrivare in Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna e da lì spostarsi verso l’interno e colonizzare il resto della penisola per un altro millennio ancora. Circa 7.000 anni fa tutta l’Italia fino agli angoli più remoti delle Alpi adottò l’agricoltura. I nuovi venuti dal Medio Oriente appartenevano essenzialmente all’aplogruppo G2a, e sembra che abbiano portato seppur in quota minore i lignaggi E1b1b, J*, J1, J2 e T. La maggior parte degli attuali italiani E1b1b e J2 arrivò più tardi, con gli Etruschi, i Greci e le svariate popolazioni mediorientali che si stabilirono in Italia durante l’impero romano. In particolar modo Ebrei e Siriani.
Sembra che i cacciatori-raccoglitori abbiano lasciato la penisola dopo l’arrivo degli agricoltori del Neolitico tranne che in Sardegna dove si fusero con loro forse perché ostacolati dal mare o perché non potevano fare altrimenti. Tuttora i Sardi sono la popolazione più simile agli europei del neolitico. Questo era già conosciuto da studi archeologici e antropologici, ma è stato confermato dai test sul genoma di Otzi, un uomo mummificato di 5.300 anni fa ritrovato nel ghiaccio delle Alpi italiane ed il cui DNA è stato scoperto molto simile ai Sardi moderni. L’isolamento geografico della Sardegna ha lasciato i suoi abitanti non affetti da influenze esterne, a parte una minoranza di coloni Fenici, Romani e Vandali. Per esempio il combinato 3% di I1, I2a2a e R1a può essere attribuito ai Vandali, una tribù germanica che governò la Sardegna tra 435 ed il 534. I Romani avevano un 10% di R1b-U152, e probabilmente altri lignaggi E1b1b, G2a e J2.
Dall’età del Bronzo all’età del ferro
Italici e Romani
L’Età del bronzo fu introdotta in Europa dai Proto-Indoeuropei, che migrarono dal Caucaso settentrionale e dalla Steppa pontica ai Balcani (da circa 6.000 anni fa), poi risalirono il Danubio e invasero l’Europa centrale e occidentale (da 4.500 anni fa). Le popolazioni che parlavano l’italico, una lingua di ceppo indoeuropeo, si pensa che abbiano attraversato le Alpi e invaso la penisola italiana circa 3.200 anni fa, fondando la cultura di Villanova e portando con sé i lignaggi R1b-U152 sostituendo e facendo spostare gran parte della popolazione autoctona. Le popolazioni italiane del Neolitico trovarono rifugio negli Appennini e in Sardegna. Oggi la più grande concentrazione di aplogruppi G2a e J1 fuori dal Medio Oriente si trova negli Appennini, Calabria, Sicilia e Sardegna.
Le tribù italiche conquistarono tutta la penisola ma si stanziarono in massa nell’Italia settentrionale e centro-occidentale, specialmente nella Pianura padana ed in Toscana ma anche in Umbria e nel lazio. In questa logica i Romani dagli originali fondatori di Roma ai patrizi della repubblica romana dovrebbero essere R1b-U152. I matrimoni misti con i loro vicini Etruschi e Greci portarono altri lugnaggi nel nucleo originale dei Romani (vedi sotto).
Un’ulteriore prova che gli abitanti della repubblica romana appartenessero ancora all’R1b-U152 viene dall’attuale popolazione delle città che essi fondarono. Da Sottolineare che la maggior parte delle città fondate nella repubblica romana dai coloni romani nell’Italia settentrionale (Alba, Aosta, Asti, Bologna, Brescia, Casale Monferrato, Cremona, Ferrara, Forlì, Ivrea, Lodi; Massa, Milano, Modena, Monza, Parma, Pavia, Piacenza, Pistoia, Pollenzo, Reggio Emilia, Rimini, Sarzana, Torino, Tortona) sono localizzate nelle aree con oggi la più alta incidenza di R1b-U152 (e la più bassa incidenza di E1b1b e J2). Solo poche colonie romane furono fondate nell’Italia del Nord-est (Aquileia, Belluno, Pordenone, Vicenza), quattro nelle Marche (Ancona, Macerata, Pesaro a Senigallia) e neanche una nell’odierna regione Liguria.
Naturalmente l’U152 era già presente nell’Italia settentrionale prima del periodo romano. Ma se i coloni romani non fossero stati in maggioranza U152, la sua frequenza sarebbe stata diluita dai nuovi arrivati. Quello che osserviamo è l’opposto: la frequenza dell’U-152 è amplificata attorno alle colonie romane.
L’R1b-U152 è stato anche trovato in piccole percentuali (tra l’1 ed il 10%) praticamente ovunque entro i confini dell’impero romano, perfino in regioni dove nessun’altra popolazione R1b-U152 si è mai stabilita (per esempio Celti Halstatt/La Tène) come in Sardegna e in Africa settentrionale. D’altra parte non tutto l’U152 in Italia meridionale è di origine italica o romana diretta. Una quota parte può essere attribuita ai Normanni (quelli di origine gallo-romana piuttosto che vichinga) e agli Svevi durante il Medio Evo, specialmente in Sicilia.
Durante la tarda Età del Bronzo e nella prima Età del Ferro altre tribù indoeuropee si stabilirono nel Nord Italia come i Liguri in Liguria, i Leponti ed i Celti Galli in Piemonte ed gli adriatici Veneti in Veneto.
Secondo l’antico mito delle origini di Roma, Romolo e Remo discendevano dal re latino di Alba Longa, egli stesso un discendente del principe troiano Enea che scappò nel Lazio dopo la distruzione di Troia da parte dei Greci. Troia potrebbe essere stata fondata dai più antichi rami M269 e/o L23 dell’R1b, rappresenterebbe la prima espansione dalle steppe pontiche verso i Balcani (vedi la storia dell’R1b). Se c’è verità nel mito (come di solito accade) i Troiani potrebbero aver portato nell’Italia centrale l’M269 o L23 (probabilmente con altri aplogruppi, in particolare il J2) circa nel 1.200 a.C. nello stesso tempo in cui l’U152 invadeva dal Nord. Gli Etruschi che si suppone siano originari dell’Anatolia occidentale non lontano da Troia, potrebbero aver portato l’R1b-L23 in Italia assieme ad altri aplogruppi (guarda sotto) . Oggi l’R1b-L23 è il secondo aplogruppo R1b più diffuso in Italia (vedi mappa) sebbene ben distante dall’R1b-U152. L’L23 ha una distribuzione marcatamente uniforme su tutta la penisola italiana tra il 5 ed il 10% di tutti i lignaggi patriarcali. Si trova in percentuale leggermente maggiore in Campania e Calabria a causa delle colonie greche, e decresce al 5% della popolazione attorno alle Alpi.
Lo studio sull’Y-DNA dei Sardi di Sardinian Y-DNA by Francalacci et al. (2013) ha permesso di gettare uno sguardo alle subcladi dell’R1b sull’isola che non è mai stata colonizzata da Celti o Etruschi e neppure dalle tribù italiche a parte i Romani. Solo i Greci hanno avuto un insediamento ad Olbia che non ha influenzato la genetica dell’isola. In altre parole tutto l’R1b indoeuropeo in sardegna (a parte una piccola percentuale di R1b germanico portato dai Vandali) può essere attribuito ai Romani. I risultati sono inequivocabili, l’R1b-U152 è il 10% di tutti i lignaggi sardi, mentre R1b-M269 e R1b-L23 insieme si attestano all’1,5%. Questo rende ancora più evidente che l’R1b-U152 è il lignaggio predominante tra i Romani. Gli U152 sardi possono essere utilizzati per distinguere le subcaldi romane dell’U152 dalle altre italiche e alpino-celtiche. In Sardegna sono state trovate tutte e quattro le subcladi principali dell’U152 ma in percentuali molto diverse che nel continente, specialmente a Nord delle Alpi dove L2 fa più di due terzi di tutti i lignaggi. Invece in sardegna Z192 è la principale subclade (58,5% di tutto l’U152), seguito da Z56 (10%, metà dei quali sono Z144+), L2 (7,8%, esclusivamente Z49+ e Z2347+) e Z36 (5,5%, di cui metà Z54+)
L’analisi dei lignaggi sardi suggerisce che gli antichi latini/Romani non portavano tanto E1b1b, se non alcuno. Del 9,5% di E1b1b in Sardegna, un 6% appartiene alla subclade nordafricana M81, quasi certamente risalente al tempo nel quale la Sardegna era una colonia fenicia/cartaginese con intensi legami col Nord Africa. Il restante 3,5% dovrebbe essere in gran parte di origine fenicia e neolitica (detagli), ciò significa che i Romani probabilmente non portavano lignaggi E1b1b. La percentuale di aplogruppo J2 in Sardegna che potrebbe essere romana è compresa tra il 2% ed il 6%, quindi meno della metà, e probabilmente ridotta ad un quinto dell’R1b-U152. L’aplogruppo G2a in Sardegna è ampiamente di origine neolitica, sebbene qualche punto percentuale potrebbe essere Fenicio o Romano. La forma romana di G2a è quasi certamente G2a3b1a e alle sue principali subcaldi U1 e L497, la cui distribuzione in Europa rispecchia quella dell’R1b-U152. Queste subcladi quotano una percentuale pari ad 1/7 comparata all’R1b-U152.

Etruschi, Fenici e Greci
Tra il 1200 ed il 539 a.C. i Fenici crearono un vasto impero commerciale dalla loro patria nel Levante lungo il Mediterraneo meridioanale fino in Iberia. In Italia fondarono delle colonie nella Sicilia occidentale e in Sardegna meridionale e occidentale. Basandosi sugli aplogruppi trovati nel Libano e nello loro antiche colonie, i Fenici sembrerebbero aver portato una miscela di aplogruppi J2, J1, E1b1b, G, R1b-M269/L23, T, L, R1b-V88, R2 e Q, praticamente nell’ordine di frequenza. Confrontando il DNA sardo e libanese possiamo stimare che i Sardi hanno ereditato tra il 16% ed il 24% del loro Y-DNA dai Fenici (detagli).
I dati sul DNA autosomale forniti da Haak et al 2015 (cifra i dati estesa) mostrano come i Sardi differiscano dai Baschi dalla presenza di admixture beduine e caucasico-gedrosiane ed un percentuale leggermente maggiore di agricoltore neolitico. Queste tre componenti si ritrovano in percentuali più o meno uguali nei moderni Libanesi, e messe insieme raggiungono dal 10% al 15% del DNA sardo. Questa è la stima più attendibile del contributo genomico Y-DNA dei Fenici alla popolazione sarda moderna. Non è sorprendente che la percentuale presunta di Y-DNA fenicio dovrebbe essere un po’ maggiore, poiché gli uomini tipicamente sono costituiti da una proporzione più grande degli antichi coloni.
Un altro ruolo chiave nella composizione dell’Italia dell’età del Ferro furono gli Etruschi che comparvero circa nel 750 a.C. apparentemente dal nulla. Qualcuno ha postulato che essi venissero dall’Anatolia ma le origini restano incerte fino ai nostri giorni. Sebbene il loro territorio coincida con la diffusione dell’aplogruppo R1b-U152. Gli Etruschi non parlavano una lingua indoeuropea e la loro lingua non era collegata ad alcuna altra lingua antica tranne il retico delle Alpi ed il lemniano del Mare Egeo. E’ possibile che gli Etruschi venissero da qualche parte dal mediterraneo orientale ed imposero la propria lingua sulle tribù italiche della Toscana e successivamente sulla Pianura padana così dividendo le popolazioni di lingua indoeuropea in due. Basandosi sugli aplogruppi non indoeuropei che si trovano oggi in Toscana centrale e meridionale, gli Etruschi originari probabilmente appartenevano ad un insieme di aplogruppi J2, E1b1b, G2a e R1b-M269 (o R1b-L23) in questo ordine di frequenza. Questo sembrerebbe supportare l’origine greca o anatolica occidentale. L’alta percentuale di R1b-U152 in Toscana oggi è dovuta alle tribù italiche assorbite dagli Etruschi e dai Romani che ricolonizzarono parte dell’Etruria.
Furono gli antichi Greci ad avere il maggiore impatto genetico sull’Italia meridionale. Dall’VIII secolo a.C. i Greci costituirono colonie lungo le coste della Campania, Calabria, Basilicata, Puglia meridionale e Sicilia (tranne la punta occidentale) in quella che conosciamo col nome di Magna Grecia. La loro firma genetica è essenzialmente costituita dagli aplogruppi J2 (18-30%) e E1b1b (15-25%), ma gli antichi Greci portavano anche R1b-M269/L23 (5-10%), G2a (3-8%), T (1-6%), I2a1b (1-5%), R1a (1-3%), e J1 (1-2%). E’ molto chiaro nelle mappe degli aplogruppi che le aree nell’Italia centrale e meridionale più lontane dalle coste e dalle antiche colonie greche, come in Abruzzo, Molise e gli Appenini meridionali corrispondono le più alte percentuali degli aplogruppi G2a, J1 e T in Italia, ma anche le più basse frequenze di E1b1b e J2 nell’Italia meridionale. Non c’era modo migliore di contrastare le popolazioni del Neolitico in Italia che con le antiche colonie greche.
I Greci colonizzarono anche la Liguria a la riviera francese, dove fondarono Genova, Nizza (che fu una città italiana fino al 1860) e Marsiglia. I Fenici ed i Cartaginesi ad un certo momento costituirono anche delle basi in Liguria. Gli attuali Liguri hanno la più alta percentuale di E1b1b fuori dal Sud Italia (quasi interamente il greco E-V13), ma anche la più alta percentuale di G2a e J1 fuori dagli Appennini, che probabilmente significa che la regione montagnosa servì come riparo per le popolazioni del Neolitico durante le invasioni degli Italici. L’R1b costituisce circa la metà dei lignaggi liguri, di cui il 22% appartiene alla subclade U152, il 20% alla P312 (il più alto livello in Italia), 6% alla L23, e 2% alla L21. Gli antichi Liguri parlavano una lingua tra il celtico (P312, L21) e l’italico (U152) ed il loro Y-DNA è suddiviso quasi a metà tra l’italico ed il celtico. Il 6% dell’L23 è probabilmente di origine greca. Circa un terzo dei liguri moderni sono di origine greca.
Impero romano e Medio Evo
Nel primo secolo Roma diventò la capitale di un vasto e cosmopolita impero. L’immigrazione a Roma fece crescere la città da una popolazione di circa 400.000 abitanti nel III secolo a.C. , prima che Roma cominciasse ad espandersi oltre la penisola italiana fino ad almeno 1 milione sotto l’imperatore Augusto (27 a.C. – 14 d.C.) poiché questi migranti provenivano da ogni parte dell’impero è molto difficile stimare quale fosse l’impatto per la città di Roma e la penisola italiana, ma fu sicuramente importante nel Lazio.
Goti, Longobardi e Bizantini
Nel IV e nel V secolo il raffreddamento climatico costrinse le popolazioni germaniche e slave a migrare verso sud e occidente e ad invadere l’impero romano in cerca di terre più fertili. I popoli germanici portarono in Italia gli aplogruppi I1, I2a2a (M223, prima conosciuto come I2b1), R1b-U106 e R1a (subcladi L664, Z282 e Z283).
I Vandali furono i primi a raggiungere la penisola italiana. Erano emigrati in Iberia, poi passarono in Nord Africa nel 429, dove fondarono un regno che comprendeva anche Sicilia, Sardegna e Corsica. La Sardegna è il miglior posto per cercare tracce del loro DNA perché da una parte è la regione più studiata d’Italia, e dall’altra non ci furono altri popoli germanici che vi si stabilirono (a parte la piccola parentesi del regno dei Goti), ciò significa che la presenza di lignaggi germanici sull’isola è incontestabilmente di origine vandalica. basandosi sull’accurato studio su 1.200 Sardi di Francalanci et al. (2013) sembrerebbe che i Vandali fossero portatori del 35% di R1a, 29% di I2a2a, 24% di R1b, 6% di I2a1b e appena il 6% di I1. Le subcladi identificate sono I1a3a2 (L1237+), I2a2a (L699+ and CTS616+), I2a1b (M423+), R1a-Z282 (incl. some Z280+), R1a-M458 (L1029+), R1b-U106 (Z381+), R1b-L21 (DF13>L513+), R1b-DF27 (Z196>Z209+). La più probabile ragione per l’elevato (proto-) slavico R1a e la presenza dell’europeo orientale I2-M423 è che i Vandali stavano in Polonia prima di emigrare nell’impero romano.. Oltre un terzo dei maschi Vandali sono di origine proto-slavica.
Nel 475 a varie tribù germaniche orientali (Eruli, Rugi e Scirii) fu rifiutato dall’imperatore romano lo status di federati. Sotto la guida di Odoacre, in passato segretario di Attila, deposero l’ultimo imperatore e crearono il primo regno d’Italia (476-493) portando alla fine dell’impero romano d’occidente. Il regno fu conquistato dagli Ostrogoti che governarono tutta l’Italia eccetto la Sardegna fino al 553. La capitale degli ostrogoti fu Ravenna. Essi furono seguiti dai Longobardi (568-774) che si contesero il controllo politico dell’Italia con i Bizantini. Come gli Ostrogoti i Longobardi invasero l’Italia dalla Pannonia e si stabilirono principalmente nel Nord-est ed in Lombardia, che da loro prese il nome. La capitale dei Longobardi fu Pavia in Lombardia. Stabilirono vari ducati in particolare in Friuli (a Cividale), Trento, Toscana (a Lucca), Spoleto, Benevento, come nelle principali città della Lombardia e del Veneto.
I geni dei Goti e dei Longobardi vennero rapidamente diluiti nella popolazione italiana a causa del loro relativamente piccolo numero e della loro dispersione geografica per governare e amministrare il loro regno. Sia i Goti che i Longobardi venivano dalla Svezia meridionale. Tuttavia le loro rotte migratorie differirono alquanto. I Goti scesero dall’attuale Polonia fino al Mar Nero, dove sicuramente si unirono alla popolazione locale, poi si spostarono nei Balcani verso la metà del III sec. dove rimasero fino al V sec. Considerando le alte percentuali di R1a vandalico ritrovato in Sardegna, non sarebbe irragionevole pensare pensare che più della metà dei lignaggi gotici fossero diventati proto-slavici (R1a e I2a1b) quando giunsero nei Balcani. Era pratica comune al tempo delle tribù europee orientali di convergere e mantenere il nome della tribù dominante. Nello stesso periodo anche gli Unni erano un insieme di etnie tenute insieme dalla leadership degli Unni. I Goti si sarebbero in qualche modo fusi con gli abitanti dei Balcani nei due secoli che precedettero la loro invasione dell’Italia, assimilando principalmente lignaggi J2, E1b1b ed ancora I2a1b. Nel V secolo i Goti sarebbero diventati un crogiuolo nel quale il loro Y-DNA germanico originario era rimasto solo in piccola parte. Questo spiegherebbe come mai si trovi così poco Y-DNA germanico nella Francia sud-occidentale e in Spagna (che era l’antico regno visigoto) rispetto alle altre regioni dell’Europa occidentale compresa l’Italia.
Contrariamente ai Goti e ai Vandali, i Longobardi partirono dalla Scandinavia e si mossero a Sud attraverso la Germania, l’Austria e la Slovenia, lasciando i territori germanici solo alcune decadi prima di raggiungere l’Italia. I Longobardi restarono essenzialmente una tribù germanica al tempo in cui invasero l’Italia. I campioni di DNA da Campobasso in Molise e da Benevento in Campania possono dare una buona idea sulle proporzioni di ciascun aplogruppo germanico portato dai Longobardi. Campobasso fu fondata dai Longobardi e perse importanza dopo la fine del dominio longobardo. Benevento era la sede di un potente ducato longobardo. Tra gli aplogruppi germanici identificati a Campobasso da Boattini et al. (2013) c’è il 16% di I1, il 10,5% di R1b-U106 e il 3,5% di I2a2a. Non è stato trovato alcun R1a. Lo stessa ricerca ha rilevato il 5,5% di R1a, il 2,5% di I1 e il 2,5% di R1b-U106 a Benevento. Se facciamo la media, i Longobardi sembra che avessero all’incirca 40% di I1, 30% di R1b, 20% di R1a e 5% di I2a2a, una percentuale paragonabile a quella dell’odierna Svezia.
Alcune regioni non furono mai sotto il controllo dei Longobardi, compresa Sardegna, Sicilia, Calabria, Puglia meridionale, Napoli ed il Lazio. In tutte queste regioni i Bizantini portarono altro lignaggio greco-anatolico (in particolare E1b1b e J2), che erano già gli aplogruppi dominanti dall’epoca della Magna Grecia. I Bizantini dovrebbero aver modificato leggermente l’ammontare degli aplogruppi presenti in Italia meridionale, ma il loro impatto potrebbe essere stato più incisivo in alcune parti del Nord Italia che appartenevano all’Esarcato di Ravenna cioè la Romagna, le Marche, la costa veneta e la Liguria. Sarà una coincidenza, ma tutte queste regioni sono proprio quelle nelle quali gli aplogruppi J2 e E1b1b1 raggiungono frequenze comparabili con quelle della Grecia e dell’Anatolia occidentale. Il J2 non era un aplogruppo diffuso nel Neolitico ed i Greci non colonizzarono il Nord Italia (tranne la Liguria) nei tempi antichi. Gli Etruschi potrebbero aver diffuso E1b1b e J2 in Emilia-Romagna ma non erano presenti nelle altre regioni. Lo stabilirsi di una popolazione bizantina è dopotutto la migliore spiegazione per la diffusione di E1b1b1 e J2 nel Veneto e nelle Marche. La regione di Costantinopoli ha una delle maggiori concentrazioni di J2 del mondo.
Franchi, Arabi e Normanni
I Franchi conquistarono il regno longobardo d’Italia nel 774. Contrariamente ad altre tribù germaniche prima di loro, lo scopo dei Franchi non era quello di trovare una nuova patria. Quindi non migrarono in massa in Italia. Portarono solo soldati e amministratori (non necessariamente di discendenza franca, ma anche gallo-romani), come fecero i Romani quando estesero il loro impero. La loro firma genetica è allora più sfuggente, sebbene abbiano sicuramente aumentato la proporzione di I1 e R1b-U106.
Subito dopo l’arrivo dei Franchi, i Saraceni invasero la Sicilia, dove costituirono un emirato (831-1072). Molti musulmani se ne andarono dopo la riconquista normanna nell’XI secolo. Ciò nonostante la Sicilia ha una percentuale leggermente maggiore dell’aplogruppo asiatico sud-occidentale J1 e del nordafricano E-M81 del resto dell’Italia meridionale. Si sa che gli Arabi hanno diffuso l’aplogruppo J1 durante l’espansione dell’Islam. Comunque le colonie fenicie della Sicilia potrebbero essere state la causa di una quota maggiore di J1 in Sicilia. Allo stesso modo l’E-M81 è un aplogruppo berbero, ma la sua presenza in Sicilia potrebbe risalire al tempo dei Fenici, dei Romani o dei Vandali in quanto gli scambi commerciali erano frequenti tra la Sicilia e la Tunisia
I Normanni lasciarono un’impronta molto più chiara in Sicilia e nell’Italia meridionale. In origine Vichinghi danesi, ai Normanni fu concesso un ducato dal re di Francia nel 911. Dal 999, chiamati dal principe di Salerno, cavalieri normanni cominciarono a servire i Longobardi in qualità di mercenari contro i Bizantini. Rapidamente acquisirono proprie contee e ducati e riunificarono tutta l’Italia meridionale sotto il loro dominio. Nel 1061 invasero al Sicilia, che fu completamente conquistata nel 1091. Il regno normanno di Sicilia fu costituito nel 1130, con Palermo come capitale e durò fino a XIX sec. Oggi è nella Sicilia nord-occidentale, attorno a Palermo e Trapani, che l’Y-DNA normanno è più comune con l’aplogruppo I1 compreso tra l’8% ed il 15%.
Mappe di distribuzione di aplogruppi Y-DNA in Italia

Y-DNA frequenze per regione
Campioni totali per l’Italia = 6145.
Per le regioni, la prima riga mostra il numero di campioni, mentre la seconda fila è la percentuale per ogni aplogruppo.

MtDNA frequenze per regione

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PER UN APPROCCIO REALISTICO ALL’IMMIGRAZIONE
Edoardo Gagliardi

Quando si parla di immigrazione lo si fa in maniera errata. L’errore deriva sostanzialmente dall’approccio istintivo e sentimentale alla questione. Da un lato vi sono quelli che vorrebbero l’apertura di ogni confine, l’annullamento di ogni differenza, il meticciato mondiale. Dall’altro quelli che, credendo di opporsi ai primi, vorrebbero “sparare” sulle carrette del mare per fermare l’immigrazione. Inutile dire che entrambe le impostazioni sono sbagliate e controproducenti. Lo sono perché non puntano ad affrontare il problema nella sua totalità, al contrario si basano su una visione istintuale della questione.
Quello che si vuole proporre in questo capitolo è invece un approccio che chiameremo realistico all’immigrazione. In molti Paesi il nodo della questione non è solo come impedire l’arrivo in massa di milioni di allogeni, ma anche il modo in cui gestire la questione degli allogeni già presenti all’interno di quei Paesi. Dobbiamo immaginare che una comunità umana assomiglia in molti aspetti ad un organismo, un corpo che funziona in maniera armoniosa e con regole sue proprie. Che cosa accade quando all’interno di un organismo è presente un corpo estraneo? In molti casi l’organismo si ammala. Vi è dunque la necessità di ridurre e rimuovere la causa dello stato patologico.
Ora, i modi per raggiungere tale obiettivo sono sostanzialmente due: 1) l’eliminazione e 2) la segregazione. Non se ne vedono altri e, se ci sono, sono il frutto di proposte dettate da un modo sentimentale di risolvere la questione. Vediamo di analizzarli entrambi in maniera più dettagliata.
L’eliminazione di un corpo allogeno può avvenire in tre modalità: A) eliminazione attraverso la distruzione; B) eliminazione attraverso l’espulsione; C) eliminazione attraverso l’assimilazione.
A) Eliminazione attraverso la distruzione. Questo metodo prevede l’annichilimento totale del corpo estraneo, la storia dell’umanità ci mostra numerosi esempi di questo approccio. Si è detto sopra che la nostra analisi ha carattere realistico, per questo motivo l’eliminazione tramite distruzione non è una via praticabile, oltre ad essere moralmente deprecabile, non tanto per ragioni religiose, quanto per motivi legati ad un rispetto intrinseco della vita umana. Oltre a questo, la distruzione non può che portare ad altra distruzione, l’assoluto contrario dell’obiettivo che ci si vuole porre: la salvaguardia dell’organismo. La motivazione che deve muovere una risoluzione concreta del problema immigrazione deve essere la protezione e la salvaguardia della comunità umana, per tale motivo uno scontro frontale non porterebbe a nulla di positivo.
B) Eliminazione tramite espulsione. In questo caso il corpo estraneo viene rimosso spingendolo il più lontano possibile dall’organismo. Il risultato finale dell’espulsione dovrà essere quindi la riduzione a significativa minoranza di un corpo estraneo, oppure alla rimozione totale del corpo estraneo dall’organismo. Torneremo più avanti su questo punto.
C) Eliminazione tramite assimilazione. Questa modalità prevede che il corpo estraneo, nel tempo, si assimili all’organismo ospitante, in modo da attenuare tutte le differenze e rendere il corpo estraneo simile a quello che ospita.
Questo approccio è supportato da molti di coloro che si propongono di risolvere il problema immigrazione evitando le derive immigrazioniste. Le problematicità dell’assimilazione si trovano nel fatto che molti elementi allogeni non si assimilano, fanno finta di assimilarsi o si assimilano in maniera molto parziale. La storia è piena di esempi in cui popoli ospiti, spesso sotto costrizione, hanno ritenuto opportuno optare per l’assimilazione, salvo poi mantenere di nascosto i propri costumi e le proprie peculiarità. Si vede quindi che questa strada non è praticabile.
Per quanto concerne la segregazione, essa si divide in due modalità: A) segregazione senza riconoscimento; B) segregazione con riconoscimento.
A) La segregazione senza riconoscimento consiste nell’isolare un corpo estraneo in una parte ben definita dell’organismo ospitante, senza però né riconoscerlo né garantire dei diritti basilari. Qui si comprende benissimo come si possa presentare il problema delle continue frizioni violente tra l’organismo e gli allogeni. La vita nell’organismo principale diverrebbe quindi impossibile e metterebbe in pericolo entrambe le comunità, tanto quella nativa che quella ospite. L’idea che si possa segregare un corpo estraneo all’interno di un organismo e, ancora di più, tenerlo soggiogato, è una chimera. Allo stesso tempo si tratta di un dispendio di energie che l’organismo utilizza per tentare di controllare e stabilizzare il corpo estraneo.
B) La segregazione con riconoscimento. Si tratta di una forma soft della segregazione sopradescritta, in cui al corpo estraneo viene garantito un riconoscimento e certi diritti, tuttavia senza che questo possa venire in contatto con l’organismo ospitante. Gli Stati Uniti fino agli anni ’60 del XX secolo hanno sperimentato questa forma di segregazionismo, ma con scarsi risultati. Il segregazionismo è una forma di maquillage che può far apparire un corpo gradevole, ma non ne elimina i problemi all’interno. Nonostante il riconoscimento ed alcuni diritti, il segregazionismo implica comunque la permanenza del corpo estraneo all’interno di quello principale. Gli allogeni segregati tenderanno sempre a voler mutare la propria condizione, a cercare di allargare il territorio a loro disposizione, con conseguenti conflitti più o meno violenti. Fatta questa breve esposizione delle modalità con cui affrontare il problema dell’immigrazione, appare evidente che l’unica soluzione auspicabile e realistica sia quella dell’espulsione. Qui però conviene rispondere ad alcune obiezioni che possono essere mosse a questo approccio e che sono certamente legittime. Il corpo estraneo espulso potrebbe ritornare a minacciare l’esistenza dell’organismo. Questo è sicuramente vero, ma spetta all’organismo dotarsi degli anticorpi teorici e pratici per scoraggiare il ritorno del corpo estraneo. Se un estraneo vuole entrare nella nostra abitazione, la prima cosa da fare è chiudere la porta principale e poi le finestre. E se tutto questo non bastasse, si potrebbe invocare l’intervento di forze che sono preposte ad impedire che estranei entrino all’interno di un’abitazione. Vi è poi la questione dei costi: l’allogeno che prova a ritornare deve pagare per spostarsi dal luogo in cui si trova a quello in cui vuole rientrare. Più elevate sono le distanze più il viaggio costa. Ad un certo punto diviene sconveniente, quando non impossibile, spostarsi. L’espulsione poi permetterebbe al corpo estraneo di allocarsi in un’area geografica – e in una dimensione antropologica – in cui vivere la propria vita, sviluppare i propri costumi, senza l’eventualità di continue frizioni con l’organismo principale. Anche in questo caso la storia è “maestra di vita”. Numerosi sono stati i casi in cui un organismo ha espulso corpi estranei dal proprio interno con un certo successo. L’errore è stato quello però di reintegrare i corpi estranei dopo qualche tempo, vanificando tutto quello fatto in precedenza. L’espulsione non può essere una scelta temporanea, al contrario essa deve essere definitiva e poggiare su un punto cardine fondamentale: la salvezza dell’organismo come priorità esistenziale e identitaria. Inquadrata in questo modo l’espulsione ha una sua ragion d’essere metapolitica oltre che semplicemente politica. Altra obiezione all’espulsione è l’argomentazione secondo la quale il corpo estraneo potrebbe continuare ad influenzare negativamente l’organismo principale anche a distanza. In una società interconnessa come quella contemporanea, in cui le comunicazioni telematiche sono addirittura più importanti di quelle reali, questo problema esiste e non lo si può negare. Ma qui ancora una volta giova ricordare che spetta all’organismo di sviluppare quegli strumenti-anticorpi per evitare influenze destabilizzanti dall’esterno. Un organismo con forti e durevoli anticorpi non solo è in grado di prevenire le patologie, ma è altrettanto in grado di irrobustire la propria identità. L’espulsione risulta quindi come una delle modalità più realistiche per affrontare l’immigrazione e le questioni da essa sollevate. Lo vogliamo chiarire: l’immigrazione va affrontata in modo realistico e razionale, senza cedimenti a sentimentalismi che, tra l’altro, non sono che strumentalizzazioni che non hanno assolutamente a cuore né i locali né gli allogeni.
L’approccio che abbiamo definito realista permette quindi di inquadrare il problema senza cedimenti all’istinto; ci aiuta altresì a capire quale metodo può essere più efficace per garantire ad una comunità la propria sopravvivenza come organismo specifico. Qui però si pone un problema di natura anche politica: non possiamo aspettarci nessun passo in avanti, nessuna prospettiva realista all’immigrazione con i regimi liberali e progressisti al potere da un lato e le forze conservatrici e populiste dall’altro, che spesso fanno finta opposizione. Entrambi si dimostrano incapaci di affrontare il problema per varie ragioni, alcune delle quali sono:
- Negazione del problema.
- Sottovalutazione del problema.
- Non volontà di affrontare il problema
- Strumentalizzazione del problema
L’aspetto più perverso è senza dubbio la strumentalizzazione del problema immigrazione. Da una parte l’immigrazionista liberale e progressista ha una precisa agenda che è quella di cancellare qualsiasi identità di popolo, rimpiazzandola con un’indefinibile mescolanza utopistica; dall’altro i conservatori e populisti strumentalizzano il malcontento della gente proponendo soluzioni buone per le campagne elettorali, ma totalmente inapplicabili una volta giunti al governo. La questione è che, per gli uni e per gli altri, l’allogeno è uno strumento per realizzare i loro fini ideologici, elettorali e di potere politico-economico. Fino a quando l’approccio all’immigrazione sarà basato su questi presupposti, non vedremo mai una chiara e realistica soluzione. Se dagli immigrazionisti ovviamente non ci si può aspettare diversamente, quello che spiace è che anche da coloro che si dicono contrari all’immigrazione non si riesce ad andare oltre gli slogan e l’uso strumentale-propagandistico della questione.
Per questo motivo noi ribadiamo l’assoluta necessità che l’immigrazione sia inquadrata innanzitutto come problema e che poi sia analizzata in maniera realistica, proprio per evitare che venga risucchiata nel grande calderone politico-mediatico della strumentalizzazione. L’immigrazione è un problema “reale” che non può essere trattato con gli strumenti della retorica. Noi ci proponiamo di parlare senza cadere nel politically correct, bisogna iniziare a mettere sul tavolo i problemi e a guardarli in faccia.