L’INFORMATORE DI FACEBOOK FRANCES HAUGEN CONFERMA LE NOSTRE PEGGIORI PAURE

 Jill Filipovic

FONTE: CNN

Promuovere i disordini alimentari. Facilitando, a quanto si dice, il traffico di droga e di esseri umani. Alimentando teorie di cospirazione e disinformazione così pericolose che la gente ha perso non solo la mente, ma la vita. Permettere ai gruppi estremisti di coordinarsi. Questi sono solo alcuni dei mali di cui Facebook è stato a lungo accusato da informatori, politici e critici.

Facebook nega molte di queste accuse o dice che i problemi sono più complessi di quello che sembrano. Ma martedì, Frances Haugen, un ex dipendente di Facebook che all’inizio di questa settimana ha rilasciato un’intervista esplosiva a 60 minuti, ha testimoniato davanti al Congresso che Facebook sta effettivamente danneggiando l’immagine fisica delle ragazze, dividendo la nazione e permettendo all’estremismo di prosperare – e peggio, che l’azienda lo sa, e sceglie di ignorare in gran parte il problema per proteggere i suoi profitti.

Le sue parole sono state schiaccianti. La domanda ora è se i politici americani si opporranno ad una delle aziende più potenti del mondo, o se continueranno a permettere a Facebook di rastrellare profitti a spese del pubblico – perché molti di loro beneficiano delle campagne di disinformazione che Facebook permette.

Haugen, un ex product manager di Facebook che ha lavorato su questioni di integrità civica, ha testimoniato che “i prodotti di Facebook danneggiano i bambini, alimentano la divisione, indeboliscono la nostra democrazia e molto altro”.

La ricerca interna di Facebook, ha detto, ha dimostrato quanto siano pericolosi i prodotti della società, eppure la società ha fatto poco per cambiare – timorosa, ha detto Haugen, di compromettere i propri profitti. Quella ricerca ha mostrato, per esempio, che Instagram, che è di proprietà di Facebook, è devastante per l’autostima delle ragazze:

“Peggioriamo i problemi di immagine fisica per una ragazza adolescente su tre”, ha detto una diapositiva aziendale, come riportato dal Wall Street Journal. In pubblico, però, il CEO di Facebook Mark Zuckerberg ha affermato che “La ricerca che abbiamo visto è che l’utilizzo di applicazioni sociali per connettersi con altre persone può avere benefici positivi per la salute mentale” – parole che ha pronunciato sotto giuramento in un’udienza del Congresso a marzo.

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La stessa inchiesta del Journal ha mostrato che gli utenti di Facebook nei paesi in via di sviluppo – potenziali aree di crescita per l’azienda – stavano usando la piattaforma per tutti i tipi di attività illegali, compreso il traffico di droga e di esseri umani. Facebook, secondo il rapporto del Journal, era lento a rispondere anche quando sapeva cosa stava succedendo.

Haugen ha raccontato storie simili. Ha anche detto al Congresso che Facebook ha la capacità di regolare meglio il suo prodotto – per impedire più efficacemente che la piattaforma venga utilizzata per attività illegali, per identificare gli utenti minorenni e presentare i loro contenuti di conseguenza, e per prevenire la diffusione di pericolosa disinformazione.

L’algoritmo di Facebook, ha detto Haugen, organizza i contenuti in base all’impegno, il che può portare i post più infiammatori e scioccanti a ricevere un trattamento preferenziale e a spostarsi in cima al feed di una data persona. Essenzialmente, l’azienda prende decisioni su ciò che vuole che tu veda, e mantiene queste decisioni segrete al pubblico, secondo Haugen; cambiare l’algoritmo, ha detto, potrebbe avere un impatto sui guadagni dell’azienda.

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Questo è pericoloso – soprattutto perché la violenza può seguire il tipo di indignazione che l’algoritmo di Facebook sembra destinato a favorire. Il mondo ha già visto questo in diversi paesi. In Myanmar, l’azienda ha ammesso di non essere riuscita a impedire alla sua piattaforma di incitare alla “violenza offline” nel 2018. In Etiopia, i critici hanno accusato la società di social media di aver permesso la diffusione di disinformazione durante le proteste nel paese nel 2019. E negli Stati Uniti, molti degli insorti che hanno lanciato un attacco al Campidoglio il 6 gennaio si sono organizzati tramite Facebook.

L’azienda nega di aver commesso errori nei disordini del Campidoglio: “La responsabilità per la violenza del 6 gennaio è delle persone che hanno inflitto la violenza e di coloro che li hanno incoraggiati, compreso il presidente Trump”, ha detto il vice presidente di Facebook per gli affari globali Nick Clegg a Brian Stelter della CNN domenica.
Coerentemente, Haugen ha detto, Facebook ha messo “i profitti prima delle persone”.

Facebook, da parte sua, ha cercato di minare la credibilità di Haugen, dicendo in una dichiarazione che “Oggi, una sottocommissione del Senato sul commercio ha tenuto un’udienza con un ex product manager di Facebook che ha lavorato per l’azienda per meno di due anni, non ha avuto rapporti diretti, non ha mai partecipato a un incontro decisionale con dirigenti di livello C – e ha testimoniato più di sei volte di non aver lavorato sulla materia in questione. Non siamo d’accordo con la sua caratterizzazione delle molte questioni su cui ha testimoniato. Nonostante tutto questo, siamo d’accordo su una cosa; è tempo di iniziare a creare regole standard per internet. Sono passati 25 anni da quando le regole per internet sono state aggiornate, e invece di aspettarsi che l’industria prenda decisioni sociali che appartengono ai legislatori, è tempo che il Congresso agisca”.

Facebook è lungi dall’essere l’unica fonte di disinformazione nel mondo – i media conservatori, e anche i membri del Partito Repubblicano negli Stati Uniti, hanno certamente parte della colpa. All’udienza di Haugen, la senatrice repubblicana del Tennessee Marsha Blackburn ha affermato, senza prove, che 1,5 miliardi di utenti di Facebook hanno avuto i loro dati violati e venduti online.

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La rappresentante del GOP della Georgia Marjorie Taylor Greene detiene ancora un seggio al Congresso, nonostante sia una fonte di cospirazionismo, dal credere che l’11 settembre sia stato un lavoro interno al diffondere oltraggiose teorie del complotto sul massacro dei bambini della scuola elementare di Sandy Hook e sugli incendi della California. E Trump è forse il Chief Misinformation Officer della nazione – molto di ciò che i critici preoccupati stanno chiedendo a Facebook di regolare sono teorie di cospirazione e bugie che provengono dai fan dell’ex presidente, così come l’uomo stesso.

Questo rende questo momento una sfida. La testimonianza di Haugen sui pericoli di Facebook, e il suo rifiuto di regolarsi adeguatamente, dovrebbe essere un appello al Congresso ad agire. Ma cosa farà il Congresso dato che il partito repubblicano e la sua base sono andati così fuori dai binari che la verità e la realtà, per prendere in prestito le parole del comico Stephen Colbert, ora hanno un ben noto pregiudizio liberale?

La buona notizia è che sia i repubblicani che i democratici sembrano almeno allineati sulla stretta questione del benessere dei bambini, e dicono di voler prendere provvedimenti per proteggere i minori che usano i social media – anche se non è ancora chiaro quali saranno questi provvedimenti. Ma questo è solo un pezzo di un vasto problema. E mentre le campagne di disinformazione avvengono sia a destra che a sinistra, il problema non è uguale da entrambe le parti – un numero scioccante di politici repubblicani sono fornitori regolari di bugie pericolose, e molti di loro beneficiano e permettono ai loro elettori il crescente estremismo e il divorzio dalla realtà.

C’è bisogno di molta più sorveglianza sul modo in cui aziende irresponsabili e segrete come Facebook operano e modellano invisibilmente tutte le nostre vite. Ma mentre i politici americani stanno giustamente cercando di capire come tenere a freno i potenti giganti della tecnologia, dovrebbero anche guardarsi intorno nelle sale del potere che occupano e rendersi conto che le bugie e la disinformazione che stanno distruggendo il paese non vengono solo dalla Silicon Valley – vengono anche dall’interno della Camera.

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LA NECESSITÀ DI ADOTTARE L’ISOLAZIONISMO

Edoardo Gagliardi

Il verbo isolare sta ad indicare una separazione di uno o più elementi da altri o da un ambiente, modo tale che non vi siano contatti o comunicazioni di sorta.

Nel mondo animale e umano quando un corpo avverte una minaccia tende ad isolarsi, per proteggere la propria esistenza. Il senso dell’isolazionismo politico è esattamente in questo: per preservare la propria esistenza una comunità deve avere il diritto di potersi isolare, se necessario anche chiudersi completamente al mondo esterno.

Fa impressione constatare che, mentre il verbo isolare è assolutamente accettato in medicina, biologia e scienze naturali, non lo è altrettanto nel mondo della politica e della vita sociale degli individui. Di solito si tende a giudicare un essere umano isolato come un outsider, una persona che rifugge il mondo. Allo stesso tempo, in campo politico, domina il paradigma multiculturale: le società non possono isolarsi, perché il loro obiettivo sarebbe quello di promuovere il meticciato e la mescolanza di culture.

Eppure la storia – e in molti casi anche la cronaca – ci mostrano benissimo dove si annida la verità. Laddove si adotta un sano isolazionismo i popoli si mantengono, si preservano, conservano la loro identità; al contrario, le società multiculturali stanno portando all’estinzione i popoli europei e non solo.

L’isolazionismo come tale è uno dei nemici fondamentali dell’immigrazionismo, perché impedisce ad una comunità di venire in contatto con altre in maniera indiscriminata, prevenendo così il rimpiazzo di un popolo con un altro. Ciò che deve spingerci ad adottare un realistico isolazionismo oggi è la consapevolezza che esso è una necessità strategica per i popoli. Non viviamo più all’inizio del XX secolo, momento in cui la potenza delle nazioni veniva misurata su quanta terra riuscivano a conquestare; un periodo quello caratterizzato da una marcata omogeneità etnico-razziale. In tal senso i paesi degli inizi del ‘900 potevano impostare la loro politica su un imperialismo aggressivo ed espansionistico.

Oggi non c’è più nulla di tutto questo, allo sviluppo orizzontale si è sostituito quello verticale, nel senso che la tecnologia ha permesso di fare importanti passi in avanti nei settori produttivi. Le nazioni potenti non sono ormai solo individuate in quelle che hanno un numero elevato di popolazione o con una grande vastità di territori; le nazioni forti sono quelle che sanno tradurre in produttività l’intelligenza del popolo. Tra le virtù di una comunità vi è anche quella di capire che più un popolo si mantiene omogeneo e più ha possibilità di garantire sviluppo e benessere alla propria gente.

Questo cambio radicale di prospettiva ha portato quindi ad una diversa impostazione delle necessità di una comunità e di un popolo: oggi l’obiettivo è la difesa dei valori comuni e degli elementi etno-razziali della comunità. I popoli europei rischiano l’estinzione, anzi, si può dire che in alcune parti d’Europa il processo di rimpiazzo si è già da tempo innescato. Non è più questione di se ma di quando.

La peculiare situazione storico-sociale impone quindi la ripresa di un sincero isolazionismo, non certo per snobismo, ma per concreta necessità storica.

Ogni giorno sulle coste europee sbarcano migliaia di migranti, profughi, immigrati; una marea umana che non ha precedenti nella storia. Questa massa di persone proviene principalmente dall’Africa e dal Medioriente. Ci viene detto dalla propaganda immigrazionista che queste persone “scappano dalla guerra”, non tenendo in considerazione che una grande porzione di questi non ha mai né vissuto né combattuto una guerra.

Ma seguiamo per un momento il ragionamento immigrazionista: i popoli europei hanno il dovere di accogliere gente che scappa dalla guerra. Anche se ciò fosse vero, dobbiamo chiederci: perché accogliere persone che scappano da guerre con cui i popoli europei (o comunque buona parte di essi) non hanno nulla a che fare? Guerre provocate da chi? Che giovano a quale potere?

Non si è ancora visto un conflitto recente che giovasse al benessere economico e sociale dei popoli europei, anzi è l’esatto opposto! Ogni guerra è pronta a far muovere una massa umana di proporzioni colossali per creare il caos nelle vite di milioni di europei, a cui in ultima istanza non viene mai chiesto 1) se sia giusto partecipare ad una guerra e 2) se accettare sulla propria terra milioni di allogeni.

Questo stato di cose è intollerabile perché è divenuto una costante di tutti i conflitti della contemporaneità. Ogni volta che scoppia un conflitto decine, se non centinaia, di migliaia di soggetti sono pronti a salpare per paesi di cui non sanno nulla e in cui i popoli che li abitano devono accettarli in nome di un astratto concetto di diritto umano a senso unico.

Ma non è tutto. Accanto a questo il comportamento spregiudicato di certi governi fa in modo che i paesi di provenienza si liberino volentieri di popolazione in surplus, uomini in eccesso e criminali, da spedire tranquillamente in occidente, ben sapendo che esso non potrà opporsi.

Risulta più facile quindi capire che per rispondere a situazioni del genere una delle strade è quella di applicare una visione del mondo, della comunità e della politica che contempli l’isolazionismo. L’isolazionismo che preserva l’identità dei popoli, la loro cultura, la loro esistenza come entità organica e metafisica.

Uno degli esempi storici di isolazionismo più riusciti è indubbiamente il periodo Edo in Giappone, dal 1603 al 1868. Per oltre 250 anni il Giappone ha vissuto in quello che è la forma di isolazionismo più radicale: i giapponesi cacciarono dal loro territorio tutti gli stranieri, i mercanti, gli avventurieri, i missionari cristiani accusati di voler diffondere una religione aliena, i colonizzatori. Per due secoli e mezzo riuscirono a ridurre al minimo i contatti con l’esterno e dell’esterno con il paese.

Il risultato fu sorprendente: non solo il Giappone riuscì a porre le basi della nazione, ma riuscì anche a conservare l’omogeneità della popolazione. Si è già detto altrove, se il Giappone non avesse avuto il periodo Edo, oggi non conosceremmo il paese per come esso è, ma sarebbe molto probabilmente un paese più simile al Sudamerica.

Ma questo non è tutto, il periodo Edo fu un momento do grande sviluppo culturale, artistico e letterario. L’impronta che questo periodo storico lascerà sul Giappone e i giapponesi è innegabile. Eppure gli storici liberali e progressisti spesso preferiscono colpevolmente sorvolare sul Giappone di quei secoli. Il motivo è in quello che si diceva prima: non si può accettare il fatto che una comunità possa fiorire e progredire in un contesto di isolamento; non si può far conoscere ai popoli europei che isolarsi è spesso l’unica – e ultima – possibilità di preservare la loro identità. Per questo la propaganda preferisce tacere.

A questo punto comprendiamo l’obiezione di coloro che potrebbero dire: bene, l’isolazionismo del Giappone è avvenuto tra il 1603 e il 1868, un tempo in cui era difficile viaggiare, le comunicazioni erano ridotte al minimo e il Giappone, in quanto isola, era avvantaggiato nel potersi isolare. L’obiezione ha le sue ragioni, ed infatti qui non si sta proponendo un isolazionismo in cui si ponga il divieto di viaggiare o di comunicare con altri paesi, luoghi e comunità. L’isolazionismo qui deve intendersi come una strategia politico-sociale-culturale il cui obiettivo è il mantenimento e la preservazione della popolazione autoctona, etnicamente e razzialmente determinata.

Significa inoltre che una comunità non ha il dovere di pagare il prezzo delle conseguenze di guerre e conflitti che si combattono a migliaia di chilometri di distanza e di cui non trarrà nessun vantaggio; al contrario ne subirà le conseguenze in primis demografiche (che poi significa anche crisi economica, sociale e culturale).

L’isolazionismo va inquadrato in questa precisa ottica e gli esempi storici ci possono venire di grande aiuto. Se si accetta il fatto che la storia può ripetersi, potremmo accogliere anche la possibilità che ciò che è stato fatto nel passato, opportunamente e realisticamente rimodulato per il tempo presente, possa essere applicato ai problemi contemporanei.

L’altro esempio di isolazionismo degno di nota è quello che ha trovato spazio negli Stati Uniti negli anni ’30, e ancora di più nella primi anni ’40 del XX secolo. I due conflitti mondiali giocano un ruolo fondamentale per capire l’isolazionismo americano. L’esperienza tragica della primo e i rischi del secondo, portarono vasti strati della popolazione a pensare che il paese non avesse nulla da guadagnare nell’immischiarsi negli affari di nazioni lontane migliaia di chilometri.

Si deve notare che l’isolazionismo negli USA coincise anche con il periodo in cui fu attivo l’Immigration Act del 1924, la legge che limitava fortemente l’ingresso degli Stati Uniti di immigrati dall’Europa sud-orientale. Il periodo della Grande depressione fece addirittura, per alcuni anni, invertire la tendenza: vi erano più emigranti che immigrati.

Uno dei maggiori rappresentati dell’isolazionismo negli Stati Uniti fu Charles Lindbergh, famoso aviatore di orgini svedesi, forte oppositore dell’entrata in guerra degli USA contro la Germania nazionalsocialista. Il movimento America First, di cui Lindbergh fu portavoce, e che si batteva per il non intervento in guerra, arrivò a contare 800 mila membri nel 1941. America First adottava un’ideologia isolazionista, laddove per isolazionismo si intendeva proprio il non coinvolgimento degli USA in guerre, conflitti e affari che non avevano nulla a che fare con gli americani e da cui il popolo americano non avrebbe tratto nessun vantaggio.

L’isolazionismo è quindi per sua natura in opposizione totale ai famelici poteri che traggono enormi profitti dalle guerre, dall’immigrazione e dal multiculturalismo.

Questi poteri non possono sfruttare i popoli per il proprio tornaconto, ecco perché non amano e non possono sostenere l’isolazionismo; lo sfruttamento deve essere per forza senza confini, per la mescolanza dei popoli, per il conflitto tra le comunità.

Tuttavia l’obiettivo dell’isolazionismo non può ridursi semplicemente a ripudiare le guerre; l’aspetto fondamentale è quello di difendere l’identità etnico-razziale del popolo, la propria identità. Se l’isolazionismo non ha questo aspetto all’interno non riuscirà mai nel proprio intento: la guerra che non si vorrà combattere all’esterno sarà portata all’interno se non si comprende che la funzione dell’isolamento è quella di salvaguardare l’identità bioculturale di un popolo.

Oggi più che mai si impone l’emergenza di adottare un isolazionismo che non sia un puro e semplice aspetto di politica amministrativa, al contrario isolare deve essere una visione del mondo a medio e lungo termine.

Il tempo che viviamo lo impone, il declino dei popoli europei lo reclama, è una necessità che non può essere più rimandata. Bisogna essere pronti a capire che l’opposizione a questa visione del mondo è agguerrita e lo sarà sempre di più, per questo è essenziale una presa di coscienza della situazione attuale. La storia è dalla nostra parte e i dati parlano chiaro: se si ha il coraggio di adottare certe misure non ci può essere che un futuro positivo, se si continua a cedere sotto i colpi della propaganda non potremo che abbandonarci ad un destino di sparizione.

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RECENSIONE HOSTILES – OSTILI

Giovanni Becciu

Perché, per il cinema americano, la colpa ricade sempre e solo sull’uomo bianco, invariabilmente dipinto come un malvagio colonialista? Molto mi ha fatto riflettere in proposito la visione del film “Hostiles”, di Scott Cooper, nella cui visione mi sono imbattuto casualmente in un’afosa sera di agosto, dopo aver posto a me stesso una domanda sin troppo banale: “perché non concedere una possibilità anche ad un western di nuova generazione?”

Avvertendo in anticipo della presenza di spoiler nel prosieguo di questa recensione, parto con l’ammettere che, per una buona mezz’ora, il film mi è piaciuto. Il dispiegarsi della trama comincia con un assalto ad una famiglia di coloni da parte di una banda di pellirossa, fatto questo che – per la cronaca – accadeva assai di frequente, ma che nel nome del politicamente corretto nessuno avrebbe mai il coraggio di riportare. Nell’assalto muoiono – brutalmente trucidati – il capofamiglia, soggetto addirittura alla feroce pratica del taglio dello scalpo, due bambine di circa dodici anni, ed un neonato. Il regista, in una scena spiazzante per la sua crudezza, ha – a mio avviso – il merito di mostrare senza blandizie tutta la violenza perpetrata dai pellirossa ai danni dei coloni bianchi; come non menzionare, ad esempio, la terribile immagine della madre che si salva scappando e nascondendosi, senza accorgersi della morte – causata da un colpo di pistola – del figlioletto neonato.

La trama salta dunque in New Mexico, altra celeberrima località del selvaggio West, dove un gruppo di soldati sta dando la caccia ad una famiglia di indiani, fuggiti dalla riserva dove si trovavano confinati. Una volta catturati i fuggiaschi – adeguatamente legati ed insultati – vengono questi ultimi trasferiti nelle vesti di prigionieri presso un tipico forte di frontiera (Fort Berringer), ai quali negli anni Settanta ci hanno abituati gli assai più gradevoli film di John Wayne. Ad attendere il capitano dell’esercito Joseph Blocker (interpretato da un fenomenale Christian Bale) l’ordine di condurre un vecchio capo indiano morente e la sua famiglia nella loro terra natia. In una scena assai ben fatta, il succitato capitano – che odia i nativi con tutto sé stesso – rifiuta di eseguire il comando impartitogli, poiché il capo indiano, prima di essere catturato, si era già reso responsabile in passato della morte di numerosi suoi commilitoni. Nonostante l’ostinata pervicacia dell’ufficiale, la composita carovana di pellirossa e “visi pallidi” parte comunque alla volta del Montana, dove è situata appunto la “Valle degli orsi”, terra d’origine della famiglia indiana scortata.

In un ulteriore salto di trama, il convoglio raggiunge casualmente le prossimità della casa incendiata della famiglia di coloni introdotta all’inizio, rinvenendo il corpo trucidato del capofamiglia appena fuori le rovine dell’abitazione. Entrato all’interno, il gruppo trova – ai piedi del letto – anche sua moglie Rosalie Quaid (una magistrale Rosamunde Pike) con ancora in braccio il cadavere del figlioletto neonato, accanto a lei le povere salme delle due bambine. Il capitano comprende immediatamente la situazione, e cerca di mostrarsi accondiscendente con la donna traumatizzata, che invoca silenzio perché, così implora, “i bambini stanno dormendo”. Fatto ritorno al modesto accampamento, alla vista degli indiani la donna scoppia comprensibilmente in una crisi di pianto, ma mentre l’atteggiamento del capitano nei confronti dei nativi si indurisce ulteriormente a motivo delle atrocità di cui è stato testimone, i pellirossa – da parte loro – provano ad essere gentili, e ad instaurare un contatto con la sopravvissuta devastata dal dolore.

Da qui in avanti, assistiamo ad un emergere sempre più marcato del senso di “white guilt” che caratterizza, come menzionavo in apertura, tanta parte della cinematografia statunitense. Incontriamo, infatti, un sergente ex-confederato che domanda perdono agli indiani per quello che hanno subito per mano delle proprie truppe, un gruppo di cacciatori che rapisce e violenta la donna bianca – che nel frattempo, dimentica dei lutti e del rancore, aveva fraternizzato con i pellirossa – e le indiane della comitiva, ed un proprietario terriero che, con il supporto dei propri figli, si oppone alla sepoltura del capo nativo nella sua proprietà.

Una sparatoria deflagra a rappresentare l’apice della trama: muoiono quasi tutti gli indiani – tranne un bambino – e quasi tutti i bianchi, tranne il capitano e Rosalie; muoiono anche il proprietario terriero – ucciso a coltellate dall’ufficiale – e tutti i suoi figli. Segue un finale ipocritamente “strappalacrime”, con il capitano, la donna, ed il piccolo indiano uniti partendo insieme in treno, diretti verso un futuro rifulgente. Come abbiamo visto, dopo “Balla coi lupi” anche questo “Hostiles” si colloca nel consueto filone artistico accusatorio e critico nei confronti del mondo bianco e della sua storia, e non fosse per la prima, meravigliosa, mezz’ora, ben poco in quest’opera troveremmo da salvare.

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STORIA E DECLINO DEGLI STATI UNITI D’AMERICA

Riccardo Tennenini e Nicola Sgueo

Recensione del libro in due volumi “Il tramonto dell’Europa” e “Il tramonto degli Stati Uniti d’America”.

Le proteste dei Black Lives Matter scaturite dalla morte di George Floyd hanno assunto una portata globale, mostrando al mondo l’utopia del modello multiculturale proiettato verso l’abisso tra tensioni etniche, e meccanismi di mercato. A questo punto c’è da farsi una domanda che cosa accade al “mondo bianco”? Afflitto dal declino demografico e sottoposto e immigrazione di massa dal Terzo Mondo, l’Occidente si avvia al tramonto della propria civiltà. Tra “white guilt”, inginocchiamenti di massa con il pugno alzato, blackwashing della storia europea, cancel culture, il “mondo bianco” diventa sempre più una civiltà fantasma. Questo saggio affronta il suo declino alla radice, riportando ciò che i mass-media mainstream non dicono: un viaggio nell’Europa che verrà, dove alla disgregazione delle identità si accompagna la terzomondizzazione del Continente.

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GLI STATI UNITI SARANNO “UNA MINORANZA BIANCA” GIA’ NEL 2045

William H. Frey

La giovinezza delle minoranze sarà il motore della futura crescita.

Fonte: Brookings

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Nuovi censimenti ribadiscono l’importanza delle minoranze razziali come primario motore demografico della futura crescita della Nazione, dinanzi al prossimo declino di una popolazione bianca sempre più vecchia, e dalla crescita sempre più lenta. Le più recenti statistiche, infatti, prospettano che gli Stati Uniti vedranno una “minoranza bianca” già dal 2045. Nel corso di quell’anno, i bianchi comporranno il 49,7% della popolazione, in contrasto con il 24,6% di ispanici, il 13,1% di neri, il 7,9% di asiatici, ed il 3,8 di individui di razza mista.

Tale spostamento di equilibri è il risultato di due differenti tendenze. In primis, fra il 2018 ed il 2060 le combinate minoranze razziali continueranno ad aumentare, crescendo di 74 punti percentuali. In secondo luogo, durante questo lasso di tempo, la sempre più vecchia popolazione bianca vedrà per il 2024 un modesto aumento immediato, seguito da un declino a lungo termine sino almeno al 2060, conseguenza di un tasso di mortalità inferiore a quello di natalità.

Fra le diverse minoranze, la maggiore crescita andrà a registrarsi fra individui di razza mista, asiatici ed ispanici, con tassi di crescita fra il 2018 ed il 2060 ammontanti rispettivamente al 176%, 93% ed 86%. L’origine di tale crescita demografica varia rispetto ai differenti gruppi. Per esempio, l’immigrazione contribuisce ad un terzo dell’incremento ispanico, con i rimanenti due terzi attribuibili all’aumento naturale (le nascite che superano le morti). Nel caso degli asiatici, l’immigrazione è legata a tre quarti della prevista crescita numerica.

Queste nuove previsioni differiscono da quelle precedentemente rilasciate nel 2014. Queste ultime collocavano l’avvento della minoranza bianca nel 2044, a causa di un’immigrazione presuntivamente più estesa ed in una più elevata crescita supposta per diversi gruppi razziali. Anche l’incremento nazionale stesso si attestava su livelli superiori nelle previsioni del 2014; si riteneva infatti che gli Stati Uniti avrebbero raggiunto una popolazione di 400 milioni nell’anno 2051, rispetto alle nuove previsioni che spostano tale traguardo avanti di sette anni, fino al 2058.

Dal momento che le minoranze nel loro insieme sono più giovani della popolazione bianca, il punto di svolta arriverà prima per i gruppi di età più giovane. Come mostrato nel terzo grafico, le nuove previsioni indicano che, per i giovani minori di 18 anni di età – la cosiddetta popolazione “post-millennial” – le minoranze supereranno quantitativamente i bianchi già nel 2020. Nella fascia di età compresa fra i 18 ed i 29 anni – i componenti più giovani dell’elettorato e della forza lavoro – la svolta si verificherà nel 2027.

Il verificarsi di questi punti di svolta è previsto soltanto per una fase successiva nel caso delle fasce di età più anziane, con ciò significando che i sessantenni e gli ultra-sessantenni rimarranno a maggioranza bianca anche dopo il 2060. La motivazione di questa differente evoluzione del fenomeno è riconducibile nel breve periodo al persistere dell’influenza del largamente bianco baby boom. Infatti, negli anni che decorrono fra il 2018 ed il 2060, l’unico gruppo di età della popolazione bianca a non subire riduzioni quantitative è proprio quello dei sessantenni e degli ultra-sessantenni, un gruppo che – nel suo complesso – seguita a crescere più rapidamente di ogni altro.

In tutta evidenza, è l’incremento delle giovani e fresche minoranze – attribuibile ad una combinazione di fattori, dall’immigrazione passata e presente al più elevato tasso di natalità fra i più giovani – ad impedire al Paese di invecchiare ancora più velocemente.

Il grafico 4 mostra chiaramente quanto le minoranze diverranno parte preponderante della gioventù americana attraverso il 2060. Allora, i censimenti prospettano che i bianchi costituiranno solamente il 36 % della popolazione di età inferiore ai 18 anni, con gli ispanici attestantisi intorno al 32%. Tali dati contrastano drasticamente con il contributo delle minoranze alla popolazione più anziana, che quantomeno per la sua metà continuerà saldamente a rimanere bianca.

Dal momento che le minoranze razziali costituiranno lo stimolo principale alla crescita della popolazione giovane nel Paese nel corso dei prossimi 42 anni, esse contribuiranno anche a decelerare drasticamente l’invecchiamento della Nazione. Già sin dal 2018, si conteranno fra i bianchi più vecchi che bambini e più decessi che nascite, stando alle attuali stime. Le dinamiche nell’ambito delle combinate minoranze, invece, si manterranno assai differenti fra il 2018 ed il 2060.

Le minoranze costituiranno – nel futuro che ci è dato di intravedere – la scaturigine di tutta la crescita della fetta più giovane della Nazione e della sua forza lavoro, come anche di gran parte di quella dell’elettorato, e di buona parte di quella del bacino dei consumatori e dei contribuenti. Pertanto, la sempre più rapidamente crescente popolazione anziana – largamente bianca – sarà sempre più dipendente dai contributi delle minoranze, sia dal punto di vista economico che assistenziale. Ciò suggerisce più che mai la necessità di persistenti investimenti nella giovane popolazione multirazziale del Paese, laddove il continuo invecchiamento della popolazione stessa appare, in caso contrario, un fenomeno non altrimenti contrastabile.

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SEMINARISTI BRITANNICI AFFERMANO DI VERGOGNARSI E SENTIRE IL “PESO” DELLA COLPA PER ESSERE BIANCHI.

Jack Montgomery

SESSIONI DI AUTOCRITICA: PARTECIPANTI AD UN SEMINARIO ORGANIZZATO DAL SISTEMA SANITARIO BRITANNICO ACCUSANO CON “VERGOGNA” E “SENSO DI COLPA” IL “ PESO” DEL PROPRIO ESSERE BIANCHI.

Fonte: Breitbart

Traduzione di: Attilio Sodi Russotto

Un video recentemente emerso relativo ad un seminario organizzato dal Servizio Sanitario Nazionale britannico sul “problema” di “essere bianchi” mostra una discussione al termine della prolusione evolversi in qualcosa di assai simile a una sessione di autocritica di stampo maoista, con tanto di testimonianze dei partecipanti bianchi riguardanti la propria “white-guilt” e gli sforzi compiuti per liberarsi dal “peso” di essere bianchi.

Il Tavistock and Portman National Health Service Foundation Trust, meglio noto per essere, nell’ambito del sistema sanitario statale britannico, uno degli enti principali nel settore delle pratiche di cambiamento di sesso in pazienti minorenni, ha inaugurato in Novembre il seminario virtuale “Whiteness – a problem for our time”, ripetendo tale seminario il successivo 14 Gennaio, dopo che la prima data aveva visto prendervi parte il notevole numero di 700 iscritti.

La fondazione ha postato lunedì, sul proprio canale YouTube, un video integrale del seminario di Gennaio, inclusa una discussione successiva alla prolusione principale nella quale i partecipanti bianchi, la maggior parte dei quali apparivano essere a vario titolo afferenti al campo della psicoterapia, venivano esortati dall’oratrice Helen Morgan a confrontarsi con il proprio “privilegio interiorizzato”, ottenendone in risposta vere e proprie auto-accuse.

Nel video è possibile osservare un oratore venire elogiato per aver rivelato di aver provato “paura” nel dover lavorare con due individui di origine afro-caraibica, ciò nonostante le obiezioni a lui successivamente rivolte da una donna nera per aver utilizzato il termine “afro-caraibici” invece di un probabilmente più corretto “caraibici di origine africana”.

Un altro oratore, invece, confessa di aver provato a ridurre la supposta sperequazione di potere fra lui stesso ed i colleghi di colore chiedendo loro, ad esempio: “Io sono un uomo bianco, e tu una donna nera: è tutto OK per te? Pensi che saremo in grado di collaborare?”

Noi bianchi, in quanto bianchi… dobbiamo lavorare su noi stessi”, afferma un altro partecipante, rammaricandosi che un numero maggiore di bianchi ancora non si risolvano a farsi avanti per sottolineare quanto sia importante che i bianchi stessi “condividano le proprie esperienze ed il proprio razzismo”.

Mi vergogno così tanto, mi sento così colpevole di essere una sudafricana bianca”, ammette una donna particolarmente provata a livello emotivo, rivelando di aver deciso di lavorare per l’African National Congress (ANC) nella propria madrepatria considerandolo una via per “liberarsi dell’opprimente peso della propria bianchezza”, e di essersi “rifiutata di socializzare” con altri sudafricani dopo essersi trasferita nel Regno Unito.

Nel prosieguo del video, vediamo la medesima partecipante rassicurare gli altri iscritti di stare adesso lavorando per “riconoscere” le conseguenze del proprio essere bianca, rivelando comunque non aver senso “sentirsi in colpa per essere bianchi se non si fa poi niente per agire in concreto su ciò che questo comporta”.

Andrew Cooper, responsabile del seminario e membro della fondazione Tavistock, nel corso del suo intervento è chiarissimo nell’individuare nel movimento Black Lives Matter le ragioni ispiratrici del seminario stesso, palesemente su base razziale, e l’oratrice Helen Morgan si mostra altrettanto adamantina nel definire quali siano i destinatari dell’iniziativa e cosa si aspetti da essi, spiegando che “persino noi che ci auto-definiamo bianchi progressisti” ancora seguitiamo ad essere razzisti, “seppur in modo gentile”.

Come prova esemplare del persistente privilegio razziale dei bianchi, vediamo Morgan evidenziare come siano ben più numerose le donne nere che muoiono durante dando alla luce i propri figli rispetto alle partorienti bianche, anche se, denota la stessa Morgan, “la razza è un concetto costruito a tavolino assolutamente privo di fondamenti biologici.”

Con parole nette, Helen Morgan chiarisce però che la “whiteness” è comunque ancora qualcosa di sin troppo reale, anche se la cosiddetta “colour-blindness”, l’approccio che vorrebbe postulare una totale indifferenza relativamente alla questione razziale, non solo si mostra come una soluzione inadeguata, bensì un attivamente nocivo meccanismo difensivo di quello stesso privilegio bianco che a parole si suppone di combattere.

Nel corso del video, ad esempio, ci è possibile ascoltare una donna, presentatasi come un membro del consiglio direttivo dell’organizzazione di psicoterapia a cui appartiene, concordare come la “colour-blindness” di alcune pratiche di formazione sia qualcosa di “decisamente spaventoso, addirittura quasi letale”, poiché costringe le minoranze etniche a sentirsi “maltrattate” e “traumatizzate”, non riconoscendo fenomeni quali le “micro-aggressioni”, da esse regolarmente subite.

Il Tavistock and Portman National Health Service Foundation Trust ha organizzato entrambi i seminari con il patrocinio della British Psychotherapy Foundation, del British Psychoanalytic Council, e della Società di Psicoterapia di Tavistock.

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PER UN APPROCCIO REALISTICO ALL’IMMIGRAZIONE

Edoardo Gagliardi

Quando si parla di immigrazione lo si fa in maniera errata. L’errore deriva sostanzialmente dall’approccio istintivo e sentimentale alla questione. Da un lato vi sono quelli che vorrebbero l’apertura di ogni confine, l’annullamento di ogni differenza, il meticciato mondiale. Dall’altro quelli che, credendo di opporsi ai primi, vorrebbero “sparare” sulle carrette del mare per fermare l’immigrazione. Inutile dire che entrambe le impostazioni sono sbagliate e controproducenti. Lo sono perché non puntano ad affrontare il problema nella sua totalità, al contrario si basano su una visione istintuale della questione.

Quello che si vuole proporre in questo capitolo è invece un approccio che chiameremo realistico all’immigrazione. In molti Paesi il nodo della questione non è solo come impedire l’arrivo in massa di milioni di allogeni, ma anche il modo in cui gestire la questione degli allogeni già presenti all’interno di quei Paesi. Dobbiamo immaginare che una comunità umana assomiglia in molti aspetti ad un organismo, un corpo che funziona in maniera armoniosa e con regole sue proprie. Che cosa accade quando all’interno di un organismo è presente un corpo estraneo? In molti casi l’organismo si ammala. Vi è dunque la necessità di ridurre e rimuovere la causa dello stato patologico.

Ora, i modi per raggiungere tale obiettivo sono sostanzialmente due: 1) l’eliminazione e 2) la segregazione. Non se ne vedono altri e, se ci sono, sono il frutto di proposte dettate da un modo sentimentale di risolvere la questione. Vediamo di analizzarli entrambi in maniera più dettagliata.

L’eliminazione di un corpo allogeno può avvenire in tre modalità: A) eliminazione attraverso la distruzione; B) eliminazione attraverso l’espulsione; C) eliminazione attraverso l’assimilazione.

A) Eliminazione attraverso la distruzione. Questo metodo prevede l’annichilimento totale del corpo estraneo, la storia dell’umanità ci mostra numerosi esempi di questo approccio. Si è detto sopra che la nostra analisi ha carattere realistico, per questo motivo l’eliminazione tramite distruzione non è una via praticabile, oltre ad essere moralmente deprecabile, non tanto per ragioni religiose, quanto per motivi legati ad un rispetto intrinseco della vita umana. Oltre a questo, la distruzione non può che portare ad altra distruzione, l’assoluto contrario dell’obiettivo che ci si vuole porre: la salvaguardia dell’organismo. La motivazione che deve muovere una risoluzione concreta del problema immigrazione deve essere la protezione e la salvaguardia della comunità umana, per tale motivo uno scontro frontale non porterebbe a nulla di positivo.

B) Eliminazione tramite espulsione. In questo caso il corpo estraneo viene rimosso spingendolo il più lontano possibile dall’organismo. Il risultato finale dell’espulsione dovrà essere quindi la riduzione a significativa minoranza di un corpo estraneo, oppure alla rimozione totale del corpo estraneo dall’organismo. Torneremo più avanti su questo punto.

C) Eliminazione tramite assimilazione. Questa modalità prevede che il corpo estraneo, nel tempo, si assimili all’organismo ospitante, in modo da attenuare tutte le differenze e rendere il corpo estraneo simile a quello che ospita.

Questo approccio è supportato da molti di coloro che si propongono di risolvere il problema immigrazione evitando le derive immigrazioniste. Le problematicità dell’assimilazione si trovano nel fatto che molti elementi allogeni non si assimilano, fanno finta di assimilarsi o si assimilano in maniera molto parziale. La storia è piena di esempi in cui popoli ospiti, spesso sotto costrizione, hanno ritenuto opportuno optare per l’assimilazione, salvo poi mantenere di nascosto i propri costumi e le proprie peculiarità. Si vede quindi che questa strada non è praticabile.

Per quanto concerne la segregazione, essa si divide in due modalità: A) segregazione senza riconoscimento; B) segregazione con riconoscimento.

A) La segregazione senza riconoscimento consiste nell’isolare un corpo estraneo in una parte ben definita dell’organismo ospitante, senza però né riconoscerlo né garantire dei diritti basilari. Qui si comprende benissimo come si possa presentare il problema delle continue frizioni violente tra l’organismo e gli allogeni. La vita nell’organismo principale diverrebbe quindi impossibile e metterebbe in pericolo entrambe le comunità, tanto quella nativa che quella ospite. L’idea che si possa segregare un corpo estraneo all’interno di un organismo e, ancora di più, tenerlo soggiogato, è una chimera. Allo stesso tempo si tratta di un dispendio di energie che l’organismo utilizza per tentare di controllare e stabilizzare il corpo estraneo.

B) La segregazione con riconoscimento. Si tratta di una forma soft della segregazione sopradescritta, in cui al corpo estraneo viene garantito un riconoscimento e certi diritti, tuttavia senza che questo possa venire in contatto con l’organismo ospitante. Gli Stati Uniti fino agli anni ’60 del XX secolo hanno sperimentato questa forma di segregazionismo, ma con scarsi risultati. Il segregazionismo è una forma di maquillage che può far apparire un corpo gradevole, ma non ne elimina i problemi all’interno. Nonostante il riconoscimento ed alcuni diritti, il segregazionismo implica comunque la permanenza del corpo estraneo all’interno di quello principale. Gli allogeni segregati tenderanno sempre a voler mutare la propria condizione, a cercare di allargare il territorio a loro disposizione, con conseguenti conflitti più o meno violenti. Fatta questa breve esposizione delle modalità con cui affrontare il problema dell’immigrazione, appare evidente che l’unica soluzione auspicabile e realistica sia quella dell’espulsione. Qui però conviene rispondere ad alcune obiezioni che possono essere mosse a questo approccio e che sono certamente legittime. Il corpo estraneo espulso potrebbe ritornare a minacciare l’esistenza dell’organismo. Questo è sicuramente vero, ma spetta all’organismo dotarsi degli anticorpi teorici e pratici per scoraggiare il ritorno del corpo estraneo. Se un estraneo vuole entrare nella nostra abitazione, la prima cosa da fare è chiudere la porta principale e poi le finestre. E se tutto questo non bastasse, si potrebbe invocare l’intervento di forze che sono preposte ad impedire che estranei entrino all’interno di un’abitazione. Vi è poi la questione dei costi: l’allogeno che prova a ritornare deve pagare per spostarsi dal luogo in cui si trova a quello in cui vuole rientrare. Più elevate sono le distanze più il viaggio costa. Ad un certo punto diviene sconveniente, quando non impossibile, spostarsi. L’espulsione poi permetterebbe al corpo estraneo di allocarsi in un’area geografica – e in una dimensione antropologica – in cui vivere la propria vita, sviluppare i propri costumi, senza l’eventualità di continue frizioni con l’organismo principale. Anche in questo caso la storia è “maestra di vita”. Numerosi sono stati i casi in cui un organismo ha espulso corpi estranei dal proprio interno con un certo successo. L’errore è stato quello però di reintegrare i corpi estranei dopo qualche tempo, vanificando tutto quello fatto in precedenza. L’espulsione non può essere una scelta temporanea, al contrario essa deve essere definitiva e poggiare su un punto cardine fondamentale: la salvezza dell’organismo come priorità esistenziale e identitaria. Inquadrata in questo modo l’espulsione ha una sua ragion d’essere metapolitica oltre che semplicemente politica. Altra obiezione all’espulsione è l’argomentazione secondo la quale il corpo estraneo potrebbe continuare ad influenzare negativamente l’organismo principale anche a distanza. In una società interconnessa come quella contemporanea, in cui le comunicazioni telematiche sono addirittura più importanti di quelle reali, questo problema esiste e non lo si può negare. Ma qui ancora una volta giova ricordare che spetta all’organismo di sviluppare quegli strumenti-anticorpi per evitare influenze destabilizzanti dall’esterno. Un organismo con forti e durevoli anticorpi non solo è in grado di prevenire le patologie, ma è altrettanto in grado di irrobustire la propria identità. L’espulsione risulta quindi come una delle modalità più realistiche per affrontare l’immigrazione e le questioni da essa sollevate. Lo vogliamo chiarire: l’immigrazione va affrontata in modo realistico e razionale, senza cedimenti a sentimentalismi che, tra l’altro, non sono che strumentalizzazioni che non hanno assolutamente a cuore né i locali né gli allogeni.

L’approccio che abbiamo definito realista permette quindi di inquadrare il problema senza cedimenti all’istinto; ci aiuta altresì a capire quale metodo può essere più efficace per garantire ad una comunità la propria sopravvivenza come organismo specifico. Qui però si pone un problema di natura anche politica: non possiamo aspettarci nessun passo in avanti, nessuna prospettiva realista all’immigrazione con i regimi liberali e progressisti al potere da un lato e le forze conservatrici e populiste dall’altro, che spesso fanno finta opposizione. Entrambi si dimostrano incapaci di affrontare il problema per varie ragioni, alcune delle quali sono:

  • Negazione del problema.
  • Sottovalutazione del problema.
  • Non volontà di affrontare il problema
  • Strumentalizzazione del problema

L’aspetto più perverso è senza dubbio la strumentalizzazione del problema immigrazione. Da una parte l’immigrazionista liberale e progressista ha una precisa agenda che è quella di cancellare qualsiasi identità di popolo, rimpiazzandola con un’indefinibile mescolanza utopistica; dall’altro i conservatori e populisti strumentalizzano il malcontento della gente proponendo soluzioni buone per le campagne elettorali, ma totalmente inapplicabili una volta giunti al governo. La questione è che, per gli uni e per gli altri, l’allogeno è uno strumento per realizzare i loro fini ideologici, elettorali e di potere politico-economico. Fino a quando l’approccio all’immigrazione sarà basato su questi presupposti, non vedremo mai una chiara e realistica soluzione. Se dagli immigrazionisti ovviamente non ci si può aspettare diversamente, quello che spiace è che anche da coloro che si dicono contrari all’immigrazione non si riesce ad andare oltre gli slogan e l’uso strumentale-propagandistico della questione.

Per questo motivo noi ribadiamo l’assoluta necessità che l’immigrazione sia inquadrata innanzitutto come problema e che poi sia analizzata in maniera realistica, proprio per evitare che venga risucchiata nel grande calderone politico-mediatico della strumentalizzazione. L’immigrazione è un problema “reale” che non può essere trattato con gli strumenti della retorica. Noi ci proponiamo di parlare senza cadere nel politically correct, bisogna iniziare a mettere sul tavolo i problemi e a guardarli in faccia.

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